Un film importante, di grande tensione civile, etico e duro. E’ “Vincere”, di Marco Bellocchio, salutato a Cannes da una lunga standing ovation, tutta meritata. Il film si dipana attorno alla storia di Ida Dalser, una donna importante nella vita del giovane Benito Mussolini, forse sua moglie forse no, sicuramente madre di suo figlio, Benito Albino – che Mussolini infatti riconobbe. Ida è bella, giovane, appassionatamente attratta da quell’uomo: lo aiuta, lo sostiene quando se ne va dall’”Avanti!” e fonda “Il Secolo d’Italia”. La pensa come lui, vive per lui. Ma il giovane Mussolini ribelle, anticonvenzionale, anticlericale cova un’anima perbenista e da “uomo d’ordine”: sceglie Rachele, la rassicurante massaia rurale. Una fotografia ed un montaggio splendidi accompagnano nella estrema violenza sociale e politica del “periodo furioso che copre il primo ventennio del secolo”. Alla violenza dei moti di piazza interventisti (“Guerra sola igienedel mondo”), a cui Mussolini subito si avvicina, fanno da contrappunto le immagini di violenza da Sarajevo, dal fronte della Grande guerra e poi quelle del fascismo nascente: gli squadristi, gli assalti ai giornali di sinistra, alle case del popolo, alle feste socialiste. Fiamme, urla, fez issati su volti stravolti dall’odio, bastonature, prepotenze, linguaggio violento e ferino a cui si accompagna passo passo la grande, vergognosa violenza usata verso la donna Ida e suo figlio. Mussolini, ad un certo punto, la cancella: il fascismo rientra completamente in ranghi perbenisti e reazionari, si prepara la firma del Concordato con la Chiesa cattolica. Ida rincorre il suo uomo, gli mostra il piccolo: invano, riceve solo umiliazioni. Frappone tra la verità e le menzogna se stessa ed il suo corpo, si para davanti ai gerarchi nei momenti ufficiali, in cui i fez e le camicie nere si mescolano alle grisaglie borghesi ed alle tonache dei prelati: è troppo. Ecco l’esilio nella casa della sorella e del cognato, che comunque sosterranno sempre con grande affetto e sacrificio personale lei e il piccolo Benito, ecco l’internamento in manicomio e la sottrazione del figlio. Isa grida sempre la sua verità: non si accontenta che tutti sappiano, vuole che si riconosca la verità, lo vuole pervicacemente ed ossessivamente. Figura di un compulsivo eccesso femminile, Ida vuole che le parole riconoscano la verità, che la dicano. E il machismo, il disprezzo verso la donna, il perbenismo, la menzogna fascista risaltano per contrapposizione a questa donna sola nel suo essere internata, umiliata, cancellata, ma sempre resistente. Bellocchio ci mostra cos’erano i manicomi, prima della grande e civile legge Basaglia: in una sequenza indimenticabile, in un manicomio, quello di Venezia, più “umano”, Ida e gli altri internati vedono “Il monello” di Chaplin, la povertà forte della propria dignità e del proprio amore che resiste alla violenza e alla mancanza di umanità dell’ordine costituito. Piangono tutti, poi, quando Charlot si riprende il monello, scoppia un applauso incontenibile: l’amore può vincere. Ida e suo figlio, chiuso in un istituto, seguono lontani l’uno dall’altra la carriera di Mussolini, che diventa sempre più grottesco nelle parole e nei modi: un clown feroce, la maschera farsesca di una tragedia che si avvicina alla fine. Icona violenta, farisaica, volgare di un ventennio che ugualmente violento e volgare, le teste di Mussolini rotolano giù mentre rotolano nei cieli le bombe portate dalla guerra fascista, che metterà a ferro e a fuoco il nostro Paese: le nostre belle città in fiamme, i volti di chi soffre, un uomo carezza dolcemente le caviglie di una donna stesa su un carro, forse ferita, forse morta. E sapere che era già tutto là, in quel linguaggio pieno di odio, in quella vertigine di violenza e di volgarità che l’amore di Ida non ha potuto fermare. Benito junior finirà anche lui in manicomio, distrutto dal sapere di essere figlio dell’altro Benito ma deprivato,progressivamente,
della madre, degli zii, e poi del cognome: finiranno col chiamarlo Dalser, come la madre. E lui finirà con lo scimmiottare il padre, rifacendogli il verso nei momenti più grotteschi, uguale a lui in modo imbarazzante. Troppo, anche per le sua stabilità mentale. Nero e una gamma di grigi è il colore di questo film bellissimo: soli fotogrammi più chiari quelli dei rari momenti di quiete di Ida, una Giovanna Mezzogiorno meravigliosa, nel corpo, nel volto, nello spirito, che morirà anch’ella in manicomio. Sapete, questo film suscita grande ammirazione, ma anche pena ed imbarazzo. E’ un film fieramente antifascista. E' un agghiacciante memento di quello che il fascismo è stato: repressione, manipolazione, machismo, militarismo, sadismo. Ci mette implacabilmente di fronte a uno specchio. E' in quello specchio che in tanti non sopportano di guardarsi”. E non c’è niente di più difficile, e di più importante, che sapersi specchiare bene.
della madre, degli zii, e poi del cognome: finiranno col chiamarlo Dalser, come la madre. E lui finirà con lo scimmiottare il padre, rifacendogli il verso nei momenti più grotteschi, uguale a lui in modo imbarazzante. Troppo, anche per le sua stabilità mentale. Nero e una gamma di grigi è il colore di questo film bellissimo: soli fotogrammi più chiari quelli dei rari momenti di quiete di Ida, una Giovanna Mezzogiorno meravigliosa, nel corpo, nel volto, nello spirito, che morirà anch’ella in manicomio. Sapete, questo film suscita grande ammirazione, ma anche pena ed imbarazzo. E’ un film fieramente antifascista. E' un agghiacciante memento di quello che il fascismo è stato: repressione, manipolazione, machismo, militarismo, sadismo. Ci mette implacabilmente di fronte a uno specchio. E' in quello specchio che in tanti non sopportano di guardarsi”. E non c’è niente di più difficile, e di più importante, che sapersi specchiare bene.
P.M.
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