venerdì, novembre 25, 2011

Intervista al criminologo Ernesto Savona. UNA REAZIONE FOLLE, SPROPOSITATA

di Daniele Tamburini
Una storia di ordinaria follia. Ricordate: Charles Bukowski scrisse quei racconti in modo crudo e mirabile. Esplosioni di violenza, rabbia, e una grande tristezza di fondo: «Ero a terra, la fortuna m’aveva abbandonato un’altra volta […] ero troppo nervoso,[…] debole, stralunato; ero troppo depresso». E davvero, la vicenda dell’omicidio del signor Gremmi pare quasi letteraria, quasi scaturita da un autore dalla penna disperata e cinica. Balza subito agli occhi una sproporzione gigantesca: l’offesa (presunta), il torto (presunto) ricevuti, che scatenano la furia omicida. Eppure … vi ricordate di Michael Douglas, interprete straordinario del film “Un giorno di ordinaria follia”? preso dai suoi problemi quotidiani, familiari, di lavoro, esasperato dal traffico e dai mille intoppi che ogni giorno incontriamo, il protagonista del film si trasforma in un violento giustiziere, seminando terrore e morte. Fantascienza, penserà qualcuno. Eppure è accaduto, in un certo senso. Abbiamo chiesto un'analisi della vicenda a Ernesto Savona, ordinario di criminologia nell'Università Cattolica di Milano e direttore di Transcrime (Centro inter-universitario di ricerca sulla criminalità transnazionale dell'Università di Trento e dell'Università Cattolica di Milano). 
Quanto accaduto ci pone di fronte a una riflessione sulla violenza, che sembra sempre più dilagante... 
«In realtà al giorno d'oggi c'è meno violenza rispetto a un tempo. I delitti violenti vanno diminuendo nel corso degli anni, salvo concentrarsi in alcune fasce d'età, come i giovani, o in certi paesi. La verità è che oggi i mezzi di comunicazione sono talmente numerosi da creare un effetto moltiplicatore. Questo, unito al fatto che oggi siamo più vulnerabili, aumenta la percezione che si ha di vicende di questo tipo. Accade che stiamo diventando più civili ed educati; di conseguenza il ricorso alla violenza diventa residuale». 
Che dire della causa che ha scatenato la violenza, in questo caso? 
«La macchina è sempre stato un oggetto di grande valore simbolico, specialmente per gli uomini, che considerano l'auto spesso più importante della propria moglie. Dunque offendere una persona attaccandone l'auto porta a una reazione forte. Così come è accaduto nel caso specifico: la vittima ha aggredito l'auto dell'omicida, scatenandone la reazione. Basti vedere quanti Suv si vedono in giro ultimamente, acquistati non per necessità di raggiungere luoghi impervi, ma perché questo tipo di auto da un senso di potenza e sicurezza. Sono auto che si mettono in mostra tanto che di solito sono sempre parcheggiate in posti in cui sono ben visibili. Dunque, nel caso in oggetto, la persona si è sentita provocata nel proprio io, e ha reagito nel modo peggiore». 
In casi come questo è palese la sproporzione tra il motivo del contendere e la tragica conseguenza. Da cosa dipendono reazioni di questo tipo? 
«Per capire questi gesti bisogna inquadrare la persona, capire se esiste una certa propensione alla violenza e conoscere il background culturale in cui la persona vive, o se esistono dei precedenti analoghi. In casi come questo non esiste mai una proporzionalità tra causa ed effetto. L'omicida ha reagito in maniera eccessiva a una provocazione che lui ha vissuto come qualcosa di grave. E' una reazione "da manuale" da parte di chi si trova ferito nel proprio io: si cerca di recuperare la propria dignità da parte di chi l'ha lesa.>>
È possibile che, nella reazione dell’omicida, si possa ravvisare anche l’assenza di rispetto, di pietas verso chi è in situazione di debolezza? 
«Non in questo caso, visto che la discussione è nata tra due persone entrambe anziane, e quindi categoria debole. Gli avvocati punteranno su una reazione emotiva preterintenzionale. Tuttavia un gesto di questo tipo avrà probabilmente conseguenze penali notevoli, anche a causa dell'aggravante dei futili motivi». 
A proposito di futili motivi, quali anticorpi sociali possiamo attivare per prevenire vicende di questo tipo? 
«La prevenzione reale è più importante della condanna del colpevole. E l'unica prevenzione la può attuare solo la potenziale vittima, cercando di evitare di trovarsi in simili situazioni. Questo vale soprattutto quando si è in strada, in caso di incidente stradale o comunque in situazioni in cui si potrebbe arrivare a discutere; in casi come questi non si conosce la persona con cui ci si confronta, che potrebbe essere violenta. Per questo motivo, in un situazione di incertezza, è sempre meglio evitare l'alterco. Importante è cercare di capire la personalità di chi ci sta di fronte, e reagire con prudenza. Per questi motivi risulta particolarmente importante educare alla mentalità non violenta: se non c'è modo di recuperare la persona violenta, che è una mina vagante pronta ad esplodere, bisogna educare le potenziali vittime alla prudenza e ad evitare le provocazioni».

Intervista a Fabio Antoldi: "Bisogna stimolare un’imprenditoria innovativa»

Viviamo una crisi che molti economisti definiscono la peggiore da un secolo a questa parte. I problemi sono molti: il debito pubblico, la crisi occupazionale, che ovviamente riduce la capacità di spesa e quindi i margini di mercato, la situazione del credito e, ora, anche l’inflazione, in crescita dopo l’aumento dell’Iva. La crescita, sottolineato preoccupato il professor Antoldi nell’intervista che pubblichiamo, nel 2012 potrebbe essere pari a zero. In questo contesto, è chiaro che la preoccupazione sia forte, anche se non si manca di sottolineare, da parte delle associazioni di categoria e della stessa Camera di Commercio, la presenza di alcuni contesti di segno non del tutto negativo. «Il tessuto economico territoriale si caratterizza per un imprenditorialità legata al fattore produttivo tradizionale, e in particolare al manifatturiero» spiega Fabio Antoldi, docente di strategia e politica aziendale dell'Università Cattolica di Cremona e codirettore del Cersi (Centro di ricerca per lo sviluppo imprenditoriale). «I più grossi contributi arrivano dal metalmeccanico e dall'agroalimentare, parallelamente a una forte crescita del metallurgico. Togliendo quest'ultimo caso, dovuto per lo più allo sviluppo di un gruppo forte e internazionale, le altre due categorie nel territorio cremonese si caratterizzano per un'imprenditorialità mediopiccola e micro, che è quella che maggiormente sta soffrendo». Quali sono i problemi più grandi a cui le aziende vanno incontro?
«Tutte le aziende registrano una riduzione del fatturato, che è per lo più un problema italiano, visto che la piccola e micro impresa si basa sostanzialmente sul mercato interno. Vediamo una riduzione dei volumi, dei prezzi e anche dei margini di guadagno. E' un circolo vizioso che porta alla perdita di lavoro e alla cassa integrazione. Del resto recenti dati della Cisl dimostrano che, solo nel settore meccanico, ben 97 imprese sono in una situazione di crisi, per cui si può ipotizzare che in un prossimo futuro vi saranno altre perdite di lavoro. Partendo da questo dato è immaginabile che anche negli altri comparti potranno esservi problemi simili. Si prospetta dunque un periodo di calo di lavoro e licenziamenti, per un 2012 che sarà l'anno peggiore della crisi. Si ipotizza una crescita pari a zero, senza prospettive di aumento dei volumi di vendita. Una situazione non rosea, che richiede un intervento strutturale dal punto di vista italiano ed europeo».
In che modo si dovrà intervenire? il governo Monti è in grado di dare risposte? 
«Il problema economico è qualcosa di nazionale e globale. Per tale motivo le risposte devono arrivare prima di tutto dal sistema. Bisogna agire sulla fiscalità, sulla burocrazie sulla dimensione di impresa e sulle reti, sull'internazionalizzazione delle imprese, sul trinomio ricerca- sviluppo-innovazione. Gli ingredienti sono noti. Si confida che questo Governo libero dai vincoli dei governi che lo hanno preceduto, possa mettere in campo le riforme necessarie. Innanzitutto bisogna agire sulla riforma fiscale. Servono poi riforme legislative che permettano alle imprese una maggior elasticità e rapidità di movimento. Servono politiche di sostegno all'inserimento dei network di imprese italiane in sistemi internazionali. Bisogna puntare sul sostegno all'innovazione di prodotto e di processo attraverso la ricerca, l'indizione di appositi bandi e una maggior vicinanza tra imprese e università. Tutte azioni già note, ma che non si sono mai messe in pratica».
Si può fare qualcosa a livello locale? 
«Assolutamente: il territorio non può esimersi dall'assumersi le proprie responsabilità. Il motore della ricchezza del territorio sono le persone, che con il loro lavoro portano un contributo notevole. Ma un ruolo determinante lo hanno anche gli imprenditori: a noi manca quel motore imprenditoriale votato alla crescita, con idee giovani, innovative e frizzanti. Il nostro territorio è infatti caratterizzato da un'imprenditoria molto locale, tradizionale e decisamente non giovane. Per questo bisogna reagire, sfruttando la presenza delle università sul territorio. Serve una collaborazione tra privato, enti pubblici, atenei e banche territoriali in odo da favorire lo start up di imprese innovative. Questa è una frontiera su cui, a livello locale, si può lavorare da subito, per far nascere idee e imprese giovani ad elevato contenuto intellettuale, specialmente su settori innovativi: il nostro territorio, ad esempio, è votato all 'agrobusiness, settore in cui l'innovazione è centrale. Altro ambito su cui si può lavorare è l'information e communication tecnology. Insomma, servono aziende capaci di guardare all'internazionalizzazione e alla competitività. Per questo bisogna aiutare i giovani a crescere e diventare imprenditori. Cosa che adesso non accade, anzi: tutti i giovani con grande intelletto e capacità non hanno sbocchi lavorativi a Cremona, spesso sono disoccupati o devono andare altrove, con il risultato di una consistente perdita di cervelli, oltre ad essere il territorio con il più alto tasso di disoccupazione giovanile di tutta la Lombardia».
Cosa si sta muovendo in questa direzione? 
«C'è un progetto in fase di approntamento, che vede coinvolte la Cattolica e il Politecnico. Vogliamo favorire velocemente la nascita di un'imprenditorialità giovanile ad elevato tasso di competenza e propensione alla crescita. L'emergenza attuale è tamponare la perdita di lavoro e garantire una vita dignitosa a chi viene licenziato.>>

Non è più tempo di avanspettacolo

Nessuno di noi rimpiange la finanza allegra, la “finanza creativa”, o l’uso di mamma Stato per creare sacche di privilegi e “giacimenti” elettorali. Ma c’è un forte rischio: l’asfissia delle risorse. Inutile girare intorno alla questione: richiedere sacrifici ulteriori a chi ha già molto pagato rischia di essere pericoloso e controproducente. E, per altro verso, le amministrazioni locali sono talmente in sofferenza, che si rischia la cancellazione di intere porzioni dello Stato sociale. Si ha sempre più l’idea di un Paese di individui atomizzati, senza un’idea collettiva forte: tanto più necessaria oggi, in un momento in cui – come dicono anche i protagonisti della vita economica cremonese, che intervistiamo nelle pagine interne dello Speciale economia - coesione e sinergie sono necessarie come il pane. E, quanto ai grandi sistemi, tutti i commentatori più autorevoli dicono che, ormai, l’attacco della speculazione dei mercati non è più rivolta ad uno o all’altro Paese, quanto all’intera area dell’eurozona. Uno scenario difficile, anzi difficilissimo. Fa bene al cuore ascoltare, in questi giorni, in queste ore, i richiami alla coesione e all’unità del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Tre giorni fa, commentando lo straordinario successo che, in tutta Italia, hanno avuto le iniziative, svoltesi nell’arco dell’anno, per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, Napolitano ha detto che il Paese sa reagire al rischio di mortificazione e di arretramento nel contesto europeo e mondiale, e che le occasioni di riflessione e celebrazione sono state una conferma della profondità delle radici del nostro stare insieme come Italia unita. E che cosa, se non nel segno dell’unità, ha promosso la sua idea di dare la cittadinanza italiana ai bambini che, pur figli di genitori stranieri, nascono qui? Parlano la nostra lingua, studiano nelle nostre scuole, sono risorse preziose per il nostro domani. Unità, coesione, integrazione, sono parole che ben si sposano con gli appelli a fare sistema, a unire le risorse che provengono dal mondo economico e produttivo. Mal si sposano con la tesi di Gianluca Buonanno, sindaco di Varallo nonché deputato leghista, secondo il quale la Padania esiste e la prova di ciò è il grana Padano. Come dire: la Basilicata esiste, la prova è il basilico. Non è più tempo di avanspettacolo, ma di tessere la trama di un film corale, serio, che può essere anche avvincente e coinvolgente. Ce la faremo.

sabato, novembre 19, 2011

Intervista al professor Paolo Manasse: «Ci salveremo solo se la politica appoggerà Monti»

di Daniele Tamburini
Avremo modo di riflettere e discutere sulla fine del governo Berlusconi, nei suoi effetti immediati e nella prospettiva storica di un'esperienza che ha sicuramente segnato il suo tempo. Ma ora, occorre agire. Velocemente. Il momento è "delicatissimo e cruciale", come ha ottimamente sintetizzato il presidente Giorgio Napolitano. Cosa fare? Quali interventi dovranno essere prioritari? Lo chiediamo al professor Paolo Manasse, docente di politica economica presso l'Università di Bologna e collaboratore del periodico on line lavoce.info. 
Professor Manasse, la situazione economica del nostro Paese è molto difficile, aggravata da una forte e per certi versi inedita crisi politica, dagli esiti comunque incerti. Quali sono le misure più urgenti da assumere? 
«La base d'azione è racchiusa nella famosa lettera che la Commissione europea ha inviato al Governo italiano. Si dovrà partire dalla riforma delle pensioni di anzianità, eliminando i numerosi privilegi di parecchi pensionati, che vanno a scapito dei giovani. Altro punto su cui lavorare deve essere la riforma del contratto del lavoro: si dovranno aumentare le garanzie dei precari, togliendone a quei lavoratori che ne hanno troppe. Ciò si potrà realizzare ad esempio concordando un contratto pubblico unico, che inquadri tutti i lavoratori e che preveda garanzie crescenti con l'avanzare degli anni di lavoro. In questo modo tutti i lavoratori avrebbero la stessa dignità e si eliminerebbe il divario tra le generazioni. Poi ci sono le riforme a costo zero, come togliere le rendite di posizione di cui godono parecchie categorie professionali, dagli avvocati ai giornalisti: categorie che sono vere e proprie caste e limitano l'ingresso dei giovani a questi settori. Bisogna puntare anche sulle privatizzazioni, soprattutto delle società di servizi, che spesso sono gestite male e con tariffe molto elevate, favorendo la concorrenza e l'abbassamento dei prezzi. E' da riformare il sistema delle tasse, partendo dalla caccia all'evasione fiscale. I mezzi ci sono, tanto più che la maggior parte delle transazioni è rintracciabile. Inoltre l'agenzia delle entrate ha il potere di controllare i conti correnti dei contribuenti senza dover chiedere permessi alla magistratura, e questo velocizza i controlli. L'economia sommersa è stimata a un valore pari al 20% del Pil, e farla emergere permetterebbe di migliorare la situazione del debito pubblico. Con tutte questi provvedimenti, l'Italia potrebbe riprendere efficacemente il consolidamento dei propri conti pubblici, e iniziare a percorrere un sentiero di crescita. 
La sua opinione sulle misure richieste dalla U.E.? 
«Sono esattamente le cose che l'Italia dovrebbe chiedere a sé stessa e che la classe politica avrebbe dovuto realizzare già da 20 anni per il bene del Paese, ma che nessuno ha mai voluto fare. Quelle misure sono anche l'unico modo per tornare a crescere e non cadere in quel default che si fa sempre più vicino ».
Per contrastare la crisi occorrono misure strutturali, ma anche valorizzazione di competenze e professionalità. Invece, assistiamo spesso ad un vero e proprio "spreco di capitale umano", a cominciare dai giovani. E'
così?
«L'Italia non è un paese per giovani. Essi sono penalizzati sotto molti punti di vista. A partire dal mondo del lavoro, visto che il 30% di loro è disoccupato, ma anche dal punto di vista dell'istruzione, visto che chi sceglie di studiare non ha un guadagno molto superiore rispetto a chi non lo fa. Per non parlare dei salari
da fame, della precarizzazione selvaggia che ha prodotto disuguaglianze tra le generazioni, con stage e lavori sottopagati e senza i diritti che ogni lavoratore dovrebbe avere. E quando andranno in pensione, esse saranno irrisorie, mentre oggi ci sono persone che percepiscono molto più dei contributi che hanno pagato».
A suo parere, l'incarico al professor Monti è un fatto che permetterà un nuovo percorso per il Paese?
«Il problema è proprio questo: per mettere in atto le riforme necessarie bisogna sacrificare gli interessi di determinate categorie, e quindi di numerosi elettori. Dunque l'unico che può fare il "lavoro sporco" è chi non ha necessità di essere rieletto, e che quindi non deve accontentare nessuno. Bisognerà quindi vedere quanto i partiti saranno disposti ad appoggiare un Governo che dovrà chiedere sacrifici. C'è una frazione del centrodestra che non è molto disponibile ad appoggiare un nuovo premier, e che lo considera alla stregua di un usurpatore. Inoltre bisognerà vedere quanto saranno disponibili a mandar giù certe misure che per gli stessi partiti sono un sacrificio, sia a destra che a sinistra. Essi dovranno saper ingoiare questi rospi, che sono necessari. Se invece la politica vorrà portare avanti il boicottaggio del governo tecnico, farà colare a picco il Paese. Credo che ormai questa sia l'ultima spiaggia per l'Italia. Il centrodestra ha fallito nella sua opera di ammodernamento del Paese, e il centrosinistra è diviso. Se Monti non riuscirà a fare queste riforme nessuno comprerà più i nostri titoli, e non avremo più i soldi per rimborsare gli interessi, che sono sempre più alti. Tutto ciò porterà a grossi problemi per le banche, e di conseguenza anche per le aziende, scatenando una grande crisi economica e sociale».
Dunque il default non è un'ipotesi poi così lontana... 
«No, anzi, è una possibilità molto vicina per noi. Se la Bce smettesse di comprare i titoli italiani difficilmente l'Italia troverebbe altri creditori».
Una valutazione: c'è speranza che l'Italia possa ripartire? Ce la possiamo fare?
«La speranza di ripartire c'è, perché abbiamo dei buoni fondamentali, come una solida base produttiva e un tessuto industriale valido. Questo ci permette di avere buone speranze. Però ci sono anche cose che ci fanno male, come questo debito pubblico elevatissimo. Dunque tutto sta, come ho detto prima, alle riforme strutturali: se riusciremo a farle, e a mettere in atto i tagli necessari nel modo più equo possibile, ce la faremo sicuramente. Questo però sarà possibile solo se Monti verrà supportato dalla politica».
Tra i ministri recentemente nominati c'è anche Elsa Fornero, che ha assunto l'incarico di ministro del lavoro e che fa parte del gruppo de lavoce.info. Può dirci qualcosa di lei?
«L'ho incontrata diverse volte, e ritengo che sia un'economista molto preparata, esperta di welfare e sistema pensionistico, E' una donna che ha già avuto diversi incarichi importanti, in passato, e ritengo sia una persona qualificata e con buone competenze professionali.

venerdì, novembre 18, 2011

Ritrovare un orizzonte, ritrovare il senso dello Stato

A meno di un inopinato cambio di stile, il governo Monti sembra quanto di più lontano possa esserci dalla politica spettacolo a cui ci siamo assuefatti, chi più chi meno, negli ultimi anni. Una cosa è certa: in questa squadra di governo le competenze non mancano certo. Qualcuno già parla di forti contatti con i cosiddetti “poteri forti”, qualcun altro si chiede che cosa possa cambiare con un premier che è uomo assai vicino a quel potere - o strapotere – della finanza che molte responsabilità ha nella crisi attuale, italiana, europea e mondiale. Certo è che competenza ed esperienza non mancano. E finalmente, abbiamo tre donne in altrettanti ministeri di gran peso e prestigio: giustizia, interni, welfare e lavoro. Ha detto il neo premier che si tratta di «personalità femminili». Beh, questo è senz’altro un segno di grande discontinuità con un recente passato. È il governo delle istituzioni, quantomeno della istituzione per eccellenza, la Presidenza della Repubblica. L’anziano Presidente Napolitano ha affrontato una fase difficilissima e tesa con le energie ed il piglio di un trentenne: chapeau. Nel passaggio al Senato, il premier Monti ha parlato di crescita e di sviluppo, si è soffermato sui giovani e sulle donne. Un governo di “impegno nazionale”. Ha sintetizzato così il programma la neoministro al welfare e lavoro Elsa Fornero: risanamento, crescita ed equità. E ha aggiunto: “Non useremo l’accetta”. È ovvio, il governo di un Paese moderno e democratico non può avere un segno dispotico e populista. A questo proposito, Non è un bel segnale che Berlusconi abbia dichiarato che Monti è (praticamente) sotto tutela, per non dire ricatto: “dura quanto vogliamo noi, decideremo anche in base ai sondaggi”. Ora, non credo che alla Bce, per continuare a comprare i nostri titoli di Stato, interessino più di tanto i sondaggi. E neppure alle aziende, ai giovani che hanno idee ma non sanno come realizzarle, agli imprenditori che vorrebbero rischiare ed investire, ma che peregrinano tra le banche per cercare credito, agli operai ed ai tecnici che vorrebbero tornare nelle loro fabbriche, a tutti coloro che vorrebbero lavorare, anche duramente, ma avere un orizzonte, uno sguardo sul futuro. Berlusconi continua a parlare di riforma della giustizia e di intercettazioni: forse anche questi temi interessano relativamente l’Europa, le nostre parti sociali, e, penso, anche la popolazione. Monti ha detto che occorre ritrovare il senso dello Stato: quello Stato che non è né delle banche né della piazza, né della destra né della sinistra, ma che è tutti noi.

Daniele Tamburini

venerdì, novembre 11, 2011

Finisce la fascinazione cessa l’incantamento. Ora via nani, ballerine e ruffiani

È davvero finita un’epoca? L’annuncio delle dimissioni di Silvio Berlusconi, dopo che sarà approvata l’ulteriore manovra correttiva che ci chiede l’Europa, apre scenari di grande incertezza, almeno per quanto riguarda l’economia, ma una cosa è certa: così non si può andare avanti. La misura delle cose l’hanno data i mercati un paio di giorni fa: spread con i bund tedeschi diminuito e borsa in rialzo appena sono circolate le prime voci su una rinuncia del premier. Tonfo a piazza Affari e lo spread che vola, alla smentita. È così. Il “cerchio magico” in cui il Cavaliere è sembrato muoversi per anni pare volatilizzato. Certo che non è finito, è un uomo di grande potere, grandi risorse economiche e anche grande intuito politico, lo ha dimostrato in molte occasioni: ma è finita la fascinazione, è cessato l’incantamento in cui si è mosso per tanto tempo. Sono stati grandi picconatori, strano a dirsi, proprio quei mercati e quei movimenti finanziari che sono stati il suo mondo per anni. La finanza creativa era sì figlia di Tremonti, ma padre putativo ne era proprio Berlusconi. Ci si è messa la crisi mondiale, d’accordo, ma la solidità italiana, la ricchezza italiana – che sono un dato vero, nonostante la situazione pesantissima delle aziende, degli enti pubblici, dei privati cittadini – potevano reagire meglio. Crisi di credibilità ineluttabile, incontrollabile, si è detto. Ci sono stati altri momenti di forte crisi, anche politica ed istituzionale, pensiamo ai primi anni Novanta, ma i nostri politici (i Ciampi, gli Amato, i Barucci) andavano in Europa e nessuno sogghignava, nessuno si dava di gomito. Pensate: siamo arrivati ben al di sopra della quota 500 dello spread con i bund tedeschi, quando, agli inizi di settembre, si paventava la quota 400 come soglia del non ritorno, e nel 2008 correvano commenti allarmatissimi perché, a fine anno, tale quota era pari a 92. Attenzione: lo spread non è un numero, significa perdita di posti di lavoro, aziende che chiudono, banche in sofferenza, aumento delle tasse… È stata colpa solo di Berlusconi? Certamente no. Ma quando si comanda, ci si assumono onori ed oneri del comando, lo sappiamo. Un intero Paese, un intero sistema ha balbettato, stretto tra chi era ingessato in tanti impasse politici e gestionali di varia natura, e chi, purtroppo, ha cercato in tutti i modi di approfittare della situazione, forte del detto che nel torbido si pesca meglio. Ma l’Italia è capace dello scatto di orgoglio che invocano in tanti. Lo promuoverà Mario Monti, probabile prossimo premier, magari coadiuvato da Giuliano Amato? Monti è assai stimato, uomo colto, bocconiano, europeista doc, due volte commissario europeo, fautore del libero mercato, delle liberalizzazioni e del rigore dei conti pubblici. L’Europa è il suo orizzonte, senza “se” e senza “ma”. Lo ha pure dichiarato, "Di poteri forti non ne conosco. Tranne uno, l'Europa". Certo che dovremo avere tempo e modo di discutere, passata finalmente la nottata, del nuovo rapporto tra sovranità nazionale e scelte dettate dai mercati e dalla politica sopranazionale. Per adesso, speriamo di guadagnare nuovamente fiducia. Una fiducia che si incunei non solo nello spread, ma nelle coscienza di tanti onesti lavoratori che accetterebbero pure di stringere ancora la cinghia, di fare ancora sacrifici, ma, appunto, perché la nottata finalmente passi e si intraveda la luce dell’alba. Una cosa però la pretendiamo, pulizia: via nani, ballerine e ruffiani.

Daniele Tamburini

Intervista a Marina Calloni: «Le giovani generazioni tornano protagoniste»

di Daniele Tamburini
Era già emerso dalle lotte per la scuola e l'università: dopo anni in cui si parlava del disimpegno giovanile nei confronti della vita pubblica, si afferma un nuovo protagonismo delle giovani generazioni. In tutto il Paese è un fiorire di laboratori, iniziative, esperienze sui social networks, modi nuovi di affrontare le cose. E, nelle alluvioni di questi giorni, abbiamo visto i giovani, nuovi "angeli del fango", in prima linea nei soccorsi alle persone e alle cose, ma anche per preservare cultura e memoria. Abbiamo chiesto il suo parere a Marina Calloni, professore ordinario in filosofia politica e sociale presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Professoressa Calloni, le giovani generazioni vengono spesso definite come "senza futuro". Perché?
Senza dubbio, i dati confermano la difficoltà per le generazioni di giovani adulti di pensare ad un’idea di futuro e alla propria vita nel tempo: il 29,3% delle persone fra i 15 e i 24 anni sono infatti disoccupati e quasi metà delle donne non gode di un lavoro retribuito (48,6%); molte si rassegnano o accettano di rimanere in ruoli subalterni. Come si può avere una casa propria o avere un figlio in queste condizioni? Il futuro individuale è infatti dato da un’idea di una propria progressione esistenziale e sociale, cosa che risulta essere difficile, anche perché i giovani hanno l’impressione di non poter avere una vita migliore dei loro genitori. Si sentono di vivere solo nell’oggi. 
Eppure, in realtà i giovani non si sono certo adagiati e sembra che si stia affermando un nuovo protagonismo sulla scena pubblica... 
Come sempre i dati ci aiutano a comprendere le varie pieghe della realtà, a spiegarcela completamente. Non ci parlano ad esempio della ricchezza della società civile, dell’enorme capitale sociale e culturale che abbiamo, delle diverse tradizioni dell’associazionismo e del volontariato, delle trasformazioni culturali in atto. In questi anni i giovani hanno infatti trovato nuovi modi di aggregazione, mobilitazione e di comunicazione tramite i social network. Ciò permette risposte e azioni veloci con deliberazioni su questioni di interesse comune. Le nuove forme di protagonismo giovanile partono appunto da nuove forme di sfera pubblica e dalla richiesta di ricoprire un ruolo attivo, non solo di aiuto in situazioni di emergenza, ma di progettazione rispetto ad un Paese che va ripensato. E ciò lo possono fare grazie alle esperienze e alle competenze che hanno acquisito tanto a livello educativo, quanto attraverso le miriadi di lavoretti precari che sono costretti a fare.
Mi ha colpito la dichiarazione di un giovane che spalava fango, nella Genova alluvionata: la città è nostra, occorre dare una mano. Sembra quasi una reazione a una certa, diffusa irresponsabilità politica e istituzionale. Lei cosa ne pensa?
La virtù civica, l’interesse per il proprio territorio, la necessità di difenderlo e di contrapporsi alle derive di una politica non più interessata al bene comune, fa in effetti parte della tradizione localistica delle città italiane, a partire dal Medioevo. Tuttavia, viene in un certo qual senso qui riproposta la consueta distinzione fra una società civile responsabile e una politica istituzionale incapace. Dobbiamo viceversa fare in modo che la politica corrisponda ai reali interessi territoriali e ambientali, espressi dalle diverse comunità a livello locale, nazionale, ma anche trans-nazionale, dal momento che tutti i fenomeni, da quelli politici a quelli finanziari e climatici sono fra di loro interconnessi nell’attuale scenario globale. Mi pare però che il passaggio da un’idea di bene comune a una più vasta concezione di “beni comuni” (come ha dimostrato il referendum sull’acqua, che ha visto una grande mobilitazione di giovani) vada in questa direzione. E le generazioni più giovani possono giocare qui un ruolo determinante.
La maggior parte di queste iniziative non è "organizzata": perdura, per esempio, lo scarso appeal delle forme
politiche ufficiali. E' d'accordo?
Bisogna in effetti procedere verso forme organizzate e integrate per la salvaguardia e la valorizzazione del territorio. Non dimentichiamoci che fra i principi fondamentali, nell’art 9, la Costituzione Italiana del 1948 riconosce come uno dei compiti prioritari della Repubblica “la tutela del paesaggio, del patrimonio storico e artistico della Nazione.” Considerando che questa indicazione non è presente nella Dichiarazione universale dei Diritti Umani del 1948 o in altre costituzioni del tempo, bisogna allora convenire che i costituenti non solo erano ben consapevoli dell’enorme ricchezza (non materiale) che l’Italia aveva sua disposizione, bensì erano stati lungimiranti nel prevedere l’enorme l’importanza che la questione ambientale, artistica e culturale avrebbe acquistato nel tempo. Proprio per questo, ritengo che giovani debbano essere impegnati non solo in situazioni di emergenza, ma inclusi sistematicamente come ideatori di nuove progettualità e impieghi, a partire dall’enorme patrimonio lasciatoci dal lavoro di generazioni passate e da come erano riusciti a costruire paesaggi “naturali” e ambienti urbani dall’estrema bellezza. Penso che la nostra sopravvivenza e possibilità di occupazione, parta proprio da qui, dal rispetto e dalla valorizzazione culturale dell’ambiente e del territorio. E qui i giovani potranno riappropriarsi di un’idea di futuro, in una catena di solidarietà che li lega alle generazioni passate.

sabato, novembre 05, 2011

Chi può faccia; chi sa di non potere…

Si può. Si può ancora. L’Italia ha le risorse, l’inventiva, le capacità, la ricchezza. Si può fare, come diceva il protagonista di un vecchio film. Ma ci vogliono coraggio e intelligenza da parte di chi può decidere. Si temono le misure impopolari? Ma cosa c’è di più impopolare della crescita zero, della fuga dei cervelli, del tasso di disoccupazione giovanile ormai al 30%, dell’inflazione in ripresa, sospinta dall’aumento dell’IVA? Eppure il Paese va avanti. Ce ne ricorderemo, di questi anni. Compreso il fatto che il Paese vivo, solido, arrabbiato ma attivo, non ha tirato i remi in barca e va avanti. Nelle industrie in crisi, dove le maestranze lottano per il loro posto di lavoro e per la loro dignità, e gli imprenditori si fanno in quattro, tra stretta creditizia e crisi del mercato, per tirare avanti. Nella scuola e nelle amministrazioni pubbliche, dove anni di disattenzione e di scarsa lungimiranza, fatta anche di sprechi e di risorse male impiegate, e l’attuale contrazione stanno portando al default, per usare un termine di moda, eppure chi ci lavora resiste tenace. Nel mondo della cultura e dello spettacolo, tra i negozianti che cercano di reinventare tutti i giorni un’offerta che possa stare sul mercato. Occorre un colpo d’ala, ha detto il presidente emerito Ciampi, come nelle grandi crisi degli ultimi anni, come quando agganciammo l’Europa e l’euro. Adesso, tutti temono il referendum greco, che forse – o forse no – è stato cancellato. Io invece penso che sarebbe un gesto di democrazia. Penso che se un Governo sa spiegare al proprio popolo perché si fanno i sacrifici, i modi con cui si cerca di ripartirli equamente e quale obiettivo condiviso si vuole raggiungere, quel popolo risponda positivamente. Ma appunto: si deve operare con un disegno lungimirante e non con spot. Invece, "l'impressione è che nessuno abbia le idee chiare, cioè abbia soluzioni: si naviga a vista con grande incertezza". Lo ha detto il Sir, l'agenzia dei vescovi. Occorre dare il senso dell’equità, e non insistere sui soliti noti. Lo dice molto bene il professor Vaciago, parlando della necessità di un’imposta patrimoniale, nell’intervista qui accanto: “Con la patrimoniale si va a tassare il passato, ossia chi ha già fatto soldi tempo fa,
invece di tassare il futuro, ossia chi vuole mettersi in gioco per crescere”. Dalla crisi non si esce se non con idee nuove e forti. Dice ancora Ciampi: “È un tempo difficile, è un tempo per riforme ai limiti della temerarietà. Chi può lo faccia, chi sa di non potere, ne tragga le conseguenze”. Di coraggio e amore per il bene comune ci hanno dato esempio, tra gli altri, i volontari che si sono prodigati in Lunigiana e in Liguria. Quei ragazzi che si passavano le carte di archivio ed i libri alluvionati, per salvare memoria e cultura, oltre che persone e cose, sono davvero la nostra speranza.

Daniele Tamburini

Intervista al professor Giacomo Vaciago. Tassare il passato per sperare nel futuro

di Daniele Tamburini
Il Paese non può aspettare oltre: una sorta di mantra, ormai, che tutti ripetono, con temi sempre più allarmati. Per uscire dalla crisi forse più seria degli ultimi cento anni, c’è bisogno di risposte certe e veloci, di provvedimenti seri, concreti, reali, che non siano solo frutto di alchimie contabili, ma che diano un avvio vero al risanamento dei conti pubblici ed a politiche di ripresa. Si chiedono risorse certe, investimenti, misure di sviluppo. Si chiede, ormai un po’ da tutte le parti, di non frugare solo nelle tasche dei “soliti noti”, della gente che lavora, che paga le tasse e la cui capacità di contribuzione è ormai arrivata al limite. I ceti medi e popolari sempre più impoveriti, l’emergere di fenomeni di forte disagio sociale, la “resistenza delle famiglie”, vero zoccolo duro della nostra società, che sta scricchiolando, la rabbia dei disoccupati e dei cassaintegrati, e poi i giovani, di cui si dice “una generazione senza futuro”. È di queste ore, inoltre, il segnale di una crisi politica, palpabile ma – ancora – non dichiarata. È evidente che non bastino manovre di corto respiro o provvedimenti tampone, ma che serva davvero un nuovo inizio. Ma in quale direzione? Si sa che le situazioni di crisi possono portare nuove aperture, ma anche grandi rischi. Come possiamo uscirne? Abbiamo chiesto cosa ne pensi al professor Giacomo Vaciago, docente di economia all’Università Cattolica di Milano, autore di molte pubblicazioni e studioso attento della realtà politico-economica del nostro tempo.

- Professor Vaciago, cominciamo da qui: in Italia si annunciano da mesi misure, impopolari e di grande impatto sociale, ma che, comunque, pare non servano a rassicurare i mercati e a dare tregua al nostro Paese. Colpa dei mercati? Colpa del Governo? Oppure, non si tratta di colpa, ma di una situazione complessiva a cui si sta comunque rispondendo in maniera inadeguata?

«Mario Draghi lo sta dicendo da sei anni: il nostro paese non cresce. A fronte di questo il debito pubblico resta sempre lo stesso, ma in assenza di una crescita esso non è più sostenibile. Dunque è inutile che chi sta al Governo continui a nascondersi dietro l’assioma che “prima era sostenibile”. Dobbiamo metterci in testa che se il paese non cresce e non si fa niente per ridurre il debito, esso diventa un problema. Il Governo dice di aver già fatto tutto quello che era possibile fare, ma la realtà è che non ha combinato assolutamente niente. Addirittura sembra che l’Italia da tempo non abbia neppure una guida. E quanto viene fatto è astratto e irrealizzabile. Le Finanziarie di Tremonti sono “mattoni” da 90 pagine: una produzione di carta inutile, specialmente se si considera che la percentuale di attuazione è bassissima. Un Governo si giudica non per quello che fa durante il viaggio, ma per la destinazione; qui invece è come viaggiare su un treno che alla meta non ci arriva mai. Nel frattempo vengono “fatti fuori” tutti coloro che non sono riusciti a salire sul treno, come i precari, i disoccupati, i giovani che non trovano lavoro».

- Qualcuno paventa il default, cioè il fallimento, l’insolvenza. Qualcuno parla di fuoriuscita dall’euro, almeno temporanea. Un’altra ipotesi è quella del cosiddetto “default pilotato”, attuato volontariamente. Qual è la sua opinione?

«Non si è capito che l’euro non è una bandiera né una fregatura, come l’ha definito Berlusconi recentemente. La moneta unica doveva servire a costruire un’Europa unita, ma se i Governi non fanno nulla perché questo processo si attivi l’unione non avverrà mai, e l’area Euro finirà per sgretolarsi, come sta accadendo proprio ora. L’Euro è una costruzione fragile, che richiedeva passione e buon senso da parte dei governi nel realizzare progetti cooperativi. Purtroppo invece i governi stessi continuano a tirare sassate contro questa fragile facciata, e di questo passo non è impossibile andare incontro a una dissoluzione. Qualcuno si chiede chi ci guadagnerebbe, ma il problema è che non ci guadagnerebbe proprio nessuno, e si finirebbe per uscirne tutti danneggiati. Quanto al default volontario, per un paese come l’Italia sarebbe solo un disastro. In altri paesi si è scelta la via del default, ma il debito era verso l’estero. Nel nostro caso si parla di debito tutto italiano, e dunque da un default verrebbero colpiti principalmente i nostri risparmiatori».

-  Le faremo una domanda – apparentemente – ingenua. Parrebbe evidente che, in tempi di crisi profonda, si andassero a cercare le risorse laddove sono, quindi, anche tassando i grandi patrimoni. Ci può parlare della patrimoniale, e di cosa comporterebbe? E perché la parola pare un tabù? 

«La mia opinione è che da anni i nostri governi hanno sbagliato, laddove hanno voluto ridurre le imposte sul patrimonio, a partire dall’Ici sulla prima casa, e sono invece andati ad aumentare, errore grave, le tasse sulle imprese (Irap) e sulle famiglie (tassazione dei redditi di lavoro). Ora ci troviamo in una situazione in cui chi paga le tasse ne paga troppe e i più colpiti da ciò sono le aziende e i lavoratori onesti. Questo porta, di conseguenza, a un’assenza di crescita del paese. Le aziende virtuose vanno a crescere altrove, e in Italia nessuno arriva ad investire. Alla luce di tutto questo un Governo che abolisce l’Ici non ha capito assolutamente nulla. Ora , il tema della patrimoniale. E’ assolutamente indispensabile introdurre un’imposta patrimoniale, ma non straordinaria. Essa dovrà essere un’ordinaria imposta sul patrimonio, com’era l’Ici, che interessi anche la prima casa. Una tassa che peraltro sarebbe poco evadibile. Così facendo, si potrebbero ridurre le tasse su imprese e lavoratori, e questo automaticamente incrementerebbe le possibilità di crescita, come da tempo sta dicendo Bankitalia. Con la patrimoniale si va a tassare il passato, ossia chi ha già fatto soldi tempo fa, invece di tassare il futuro, ossia chi vuole mettersi in gioco per crescere. Chi ha già avuto molto dalla vita può permettersi di pagare. Peccato che qui in Italia si facciano le cose al contrario. Basti pensare al fatto che qui abbiamo abolito le imposte sull’eredità perché faceva comodo alla famiglia Berlusconi, mentre negli altri paesi questa è una delle principali tasse. Questo perché i figli devono guadagnarsi i propri soldi, e non partire già ricchi dalla nascita, facendo venir meno il principio dell’uguaglianza sociale. Per come sono le cose ora in Italia i figli degli operai non avranno mai le stesse opportunità di chi nasce ricco, e non avranno neppure grandi speranze, perché oggi le possibilità di successo di un ragazzo dipendono dalla famiglia in cui esso nasce. E ciò è ingiusto».

- Per finire, le faccio la stessa domanda che abbiamo già rivolto a diversi studiosi e politici: il nostro Paese ce la farà?

«L’Italia è un grande paese, e nel corso dei secoli ha avuto fasi positive e negative, andando su e giù ciclicamente. Nella sua storia ha avuto diverse fasi di “rinascita”. Prima, nel ‘400, con il Rinascimento; poi, nell’800, con il Risorgimento. E ancora negli anni 50-60 un’altra crescita, che è stata chiamata Miracolo. Ora ci troviamo in piena fase di decadenza, ma prima o poi avremmo un’altra rinascita; solo non so dire se sarà tra un anno, tra 10 o tra 100. Solo il tempo ce lo dirà».

mercoledì, novembre 02, 2011

Intervista a Carmen Leccardi, professore ordinario di sociologia della cultura alla Bicocca: "E’ precario anche il futuro. Ma i giovani restano la speranza "

La crisi che stiamo vivendo non è solo finanziaria ed economica: anche le dinamiche sociali stanno subendo grandi cambiamenti, modificando in profondità comportamenti ed equilibri consolidati. Ce ne parla Carmen Leccardi, docente ordinario di sociologia della cultura della facoltà di sociologia dell'università Milano Bicocca, e presidente del Comitato per le pari opportunità della facoltà stessa. 
Professoressa Leccardi, da molti anni lei studia i fenomeni culturali e sociali del nostro Paese. Abbiamo vissuto un mese di agosto per molti versi drammatico, ultimo episodio di una situazione di crisi, che è sì mondiale, ma che, nel nostro Paese, assume caratteri peculiari. Puntando l'attenzione solo sul dato economico, si rischia di perdere di vista quanto questo incida in termini di ricaduta sociale. Ce ne vuol parlare?
«Vorrei porre l'attenzione, prima di tutto, sulle modalità attraverso le quali la crisi attuale incide sulla rappresentazione del mondo sociale. La cosa principale che si nota è il venir meno della capacità di percepire il futuro come una risorsa da sfruttare attraverso forme di progetto. La crisi, infatti, toglie ai giovani
il diritto al futuro, ed essi smettono di credervi. Ancora più in generale, si avverte fortemente la precarizzazione dell'esistenza, con un passaggio da un orizzonte temporale ampio a uno più ristretto. In parole povere, oggi è difficilissimo pensare di fare progetti per il futuro, mentre si amplia la tendenza a guardare la vita giorno dopo giorno. Tutto questo rimette in discussione un modo di vivere che da secoli era nel nostro Dna. Soprattutto dal secondo dopoguerra, periodo in cui c'è sempre stata l'idea di una possibilità di ripresa e di crescita. Nella fase in cui ci troviamo ora, invece, diventa chiaro per tutti che bisogna ridefinire il nostro rapporto con il futuro. Tutto questo, naturalmente, ha ricadute su molti aspetti della vita: il modo di prendere decisioni, di organizzare la propria esistenza, di progettare una vacanza o un acquisto».
L’incertezza, quindi, si diffonde anche nella sfera dei rapporti interpersonali…
«Essa tende a rafforzare la solitudine della persona, allontanandola dai legami sociali. Ci si sente più soli e più vulnerabili, e questo porta al rischio di rendere ancora più frammentato il vivere collettivo. Da un lato la crisi ci getta in una condizione comune, che si traduce poi nella chiusura nella propria sfera individuale. Accanto a questo, mentre siamo attaccati da una recessione galoppante senza esserne stati gli artefici, veniamo caricati di istanze sociali per uscire da questa situazione, e questo ci fa sentire il peso della responsabilità. Tutto ciò tende a generare delle forme di depressione in quanto ci si sente responsabili della propria situazione e al contempo diventa difficile riuscire ad individuare responsabilità a carico di terze persone. Dunque la depressione che oggi è tanto diffusa è legata proprio alla responsabilità».
Lei analizza da tempo le forme della società, declinate in particolar modo attraverso i giovani e le donne. Sotto questo aspetto, quali sono le conseguenze della crisi?
«Si creano difficoltà nelle relazioni interfamiliari, e in particolare tra la generazione adulta e quella dei giovani. Perché se da un lato la generazione adulta cerca di aiutare i giovani, dall'altro questi ultimi si sentono sempre più chiusi da questo ambiente familiare, e questo li porta ad isolarsi ancora di più dal resto del mondo, chiudendosi tra le mura domestiche. Tutto questo, in assenza di un nuovo "patto tra generazioni", porta al crearsi di situazioni difficili per i giovani, a cui manca la libertà di allontanarsi dal nucleo familiare, da un lato per l'assenza di risorse economiche, dall'altro per il venir meno della fiducia verso il futuro. Le cifre della disoccupazione appaiono spaventose ai giovani d'oggi, e questo finisce per mettere in forse tutte le generazioni future, in quanto non si vede una prospettiva di cambiamento che possa dare speranza a quei ragazzi che tra qualche anno formeranno la generazione dei giovani. Giovani che sono cresciuti circondati da un costante benessere, e che da sempre sono abituati a vivere una situazione di crescente aspettative. Ora questa inversione di tendenza rende necessaria una riconversione di tali aspettative, e questo non vale solo per i giovani, ma per tutti. Le nuove generazioni subiscono poi anche una ricaduta strutturale: la riduzione costante degli investimenti sta ricadendo pesantemente sull'istruzione, e la generazione degli attuali giovanissimi sarà quella che maggiormente ne risentirà: viene meno, infatti, l'unica vera risorsa che avrebbe potuto portare a un cambiamento».
E le donne?
«In questo quadro complessivo, la capacità di tenere insieme i tempi di lavoro, famiglia e vita privata diventa sempre più difficile per le donne, che tendono ad essere i soggetti che maggiormente devono pagare i costi più alti, anche dal punto di vista psicologico. Esse finiscono infatti per metabolizzare i meccanismi di conciliazione forzosa, sentendoli come proprie responsabilità. Da un lato si avverte la consapevolezza delle maggiori pari opportunità conquistate negli anni, dall'altro bisogna fare i conti con la realtà: l'impossibilità di definire un nuovo "contratto di genere" tra uomo e donna porta quest'ultima a portare sulle proprie spalle tutte le responsabilità». 
Si parla molto della necessità di difendere le famiglie, ma questa situazione incide
molto anche sulle dinamiche familiare.
«Le ricadute sono notevoli: per il genitore diventa difficile aiutare il figlio ad acquistare una casa, ad accendere un mutuo, a mantenerlo agli studi per lungo tempo... questo porta a una crescita delle disuguaglianze, e di conseguenza all'incremento dell'aggressività sociale». 
Prevale, tra le persone, l'incertezza, quando non la paura. La paura è un sentimento che blocca, mentre invece ci sarebbe un gran bisogno di movimento. Dovrebbero circolare iniziativa, idee, anche denaro, ma non solo. Secondo lei, come possiamo riacquistare fiducia?
«Avendo fatto, negli ultimi anni, numerose ricerche con i giovani, posso dire di aver trovato tra loro molte risorse, che permettono di accostarsi a questa crisi in maniera creativa, con l'intenzione di costruire progetti che riescano a soddisfare il loro bisogno di costruirsi un avvenire. Dunque si osserva una crescita in positivo
della capacità di rispondere alla precarizzazione dell'esistenza di cui parlavamo prima, cercando di sfruttare la situazione in maniera positiva. I giovani si abituano a cogliere al volo le occasioni, e imparano a dare progetti che siano reversibili. Dunque non ritengo vero che la paura stia bloccando le reazioni alla crisi. Anzi. Da parte dei giovani vediamo delle reazioni, che vanno valorizzate. Altra cosa importante è che si individuano nuove strategie di azione, e sono proprio i giovani ad essere portatori di queste capacità, specialmente dove si assiste a forme collettive di azione, che rappresentano una risposta forte a questa situazione. Lo dimostrano anche le mobilitazioni dei giovani stessi, che lo scorso autunno sono scesi in piazza, affermando con forza la loro opinione. Lo stesso è stato per le donne. E' su queste categorie che oggi bisogna scommettere, perché possono portare gli antidoti a questa forte crisi. Antidoti che possono diventare efficaci se si impara a guardare agli stessi con fiducia e a riconoscerli come tali. E' anche per questo che l'opinione pubblica deve dare il più possibile risalto e visibilità a questi fenomeni. Perché oggi sono questi la nostra unica speranza».