di Daniele Tamburini
Il Paese non può aspettare oltre: una sorta di mantra, ormai, che tutti ripetono, con temi sempre più allarmati. Per uscire dalla crisi forse più seria degli ultimi cento anni, c’è bisogno di risposte certe e veloci, di provvedimenti seri, concreti, reali, che non siano solo frutto di alchimie contabili, ma che diano un avvio vero al risanamento dei conti pubblici ed a politiche di ripresa. Si chiedono risorse certe, investimenti, misure di sviluppo. Si chiede, ormai un po’ da tutte le parti, di non frugare solo nelle tasche dei “soliti noti”, della gente che lavora, che paga le tasse e la cui capacità di contribuzione è ormai arrivata al limite. I ceti medi e popolari sempre più impoveriti, l’emergere di fenomeni di forte disagio sociale, la “resistenza delle famiglie”, vero zoccolo duro della nostra società, che sta scricchiolando, la rabbia dei disoccupati e dei cassaintegrati, e poi i giovani, di cui si dice “una generazione senza futuro”. È di queste ore, inoltre, il segnale di una crisi politica, palpabile ma – ancora – non dichiarata. È evidente che non bastino manovre di corto respiro o provvedimenti tampone, ma che serva davvero un nuovo inizio. Ma in quale direzione? Si sa che le situazioni di crisi possono portare nuove aperture, ma anche grandi rischi. Come possiamo uscirne? Abbiamo chiesto cosa ne pensi al professor Giacomo Vaciago, docente di economia all’Università Cattolica di Milano, autore di molte pubblicazioni e studioso attento della realtà politico-economica del nostro tempo.
Il Paese non può aspettare oltre: una sorta di mantra, ormai, che tutti ripetono, con temi sempre più allarmati. Per uscire dalla crisi forse più seria degli ultimi cento anni, c’è bisogno di risposte certe e veloci, di provvedimenti seri, concreti, reali, che non siano solo frutto di alchimie contabili, ma che diano un avvio vero al risanamento dei conti pubblici ed a politiche di ripresa. Si chiedono risorse certe, investimenti, misure di sviluppo. Si chiede, ormai un po’ da tutte le parti, di non frugare solo nelle tasche dei “soliti noti”, della gente che lavora, che paga le tasse e la cui capacità di contribuzione è ormai arrivata al limite. I ceti medi e popolari sempre più impoveriti, l’emergere di fenomeni di forte disagio sociale, la “resistenza delle famiglie”, vero zoccolo duro della nostra società, che sta scricchiolando, la rabbia dei disoccupati e dei cassaintegrati, e poi i giovani, di cui si dice “una generazione senza futuro”. È di queste ore, inoltre, il segnale di una crisi politica, palpabile ma – ancora – non dichiarata. È evidente che non bastino manovre di corto respiro o provvedimenti tampone, ma che serva davvero un nuovo inizio. Ma in quale direzione? Si sa che le situazioni di crisi possono portare nuove aperture, ma anche grandi rischi. Come possiamo uscirne? Abbiamo chiesto cosa ne pensi al professor Giacomo Vaciago, docente di economia all’Università Cattolica di Milano, autore di molte pubblicazioni e studioso attento della realtà politico-economica del nostro tempo.
- Professor Vaciago, cominciamo da qui: in Italia si annunciano da mesi misure, impopolari e di grande impatto sociale, ma che, comunque, pare non servano a rassicurare i mercati e a dare tregua al nostro Paese. Colpa dei mercati? Colpa del Governo? Oppure, non si tratta di colpa, ma di una situazione complessiva a cui si sta comunque rispondendo in maniera inadeguata?
«Mario Draghi lo sta dicendo da sei anni: il nostro paese non cresce. A fronte di questo il debito pubblico resta sempre lo stesso, ma in assenza di una crescita esso non è più sostenibile. Dunque è inutile che chi sta al Governo continui a nascondersi dietro l’assioma che “prima era sostenibile”. Dobbiamo metterci in testa che se il paese non cresce e non si fa niente per ridurre il debito, esso diventa un problema. Il Governo dice di aver già fatto tutto quello che era possibile fare, ma la realtà è che non ha combinato assolutamente niente. Addirittura sembra che l’Italia da tempo non abbia neppure una guida. E quanto viene fatto è astratto e irrealizzabile. Le Finanziarie di Tremonti sono “mattoni” da 90 pagine: una produzione di carta inutile, specialmente se si considera che la percentuale di attuazione è bassissima. Un Governo si giudica non per quello che fa durante il viaggio, ma per la destinazione; qui invece è come viaggiare su un treno che alla meta non ci arriva mai. Nel frattempo vengono “fatti fuori” tutti coloro che non sono riusciti a salire sul treno, come i precari, i disoccupati, i giovani che non trovano lavoro».
- Qualcuno paventa il default, cioè il fallimento, l’insolvenza. Qualcuno parla di fuoriuscita dall’euro, almeno temporanea. Un’altra ipotesi è quella del cosiddetto “default pilotato”, attuato volontariamente. Qual è la sua opinione?
«Non si è capito che l’euro non è una bandiera né una fregatura, come l’ha definito Berlusconi recentemente. La moneta unica doveva servire a costruire un’Europa unita, ma se i Governi non fanno nulla perché questo processo si attivi l’unione non avverrà mai, e l’area Euro finirà per sgretolarsi, come sta accadendo proprio ora. L’Euro è una costruzione fragile, che richiedeva passione e buon senso da parte dei governi nel realizzare progetti cooperativi. Purtroppo invece i governi stessi continuano a tirare sassate contro questa fragile facciata, e di questo passo non è impossibile andare incontro a una dissoluzione. Qualcuno si chiede chi ci guadagnerebbe, ma il problema è che non ci guadagnerebbe proprio nessuno, e si finirebbe per uscirne tutti danneggiati. Quanto al default volontario, per un paese come l’Italia sarebbe solo un disastro. In altri paesi si è scelta la via del default, ma il debito era verso l’estero. Nel nostro caso si parla di debito tutto italiano, e dunque da un default verrebbero colpiti principalmente i nostri risparmiatori».
- Le faremo una domanda – apparentemente – ingenua. Parrebbe evidente che, in tempi di crisi profonda, si andassero a cercare le risorse laddove sono, quindi, anche tassando i grandi patrimoni. Ci può parlare della patrimoniale, e di cosa comporterebbe? E perché la parola pare un tabù?
«La mia opinione è che da anni i nostri governi hanno sbagliato, laddove hanno voluto ridurre le imposte sul patrimonio, a partire dall’Ici sulla prima casa, e sono invece andati ad aumentare, errore grave, le tasse sulle imprese (Irap) e sulle famiglie (tassazione dei redditi di lavoro). Ora ci troviamo in una situazione in cui chi paga le tasse ne paga troppe e i più colpiti da ciò sono le aziende e i lavoratori onesti. Questo porta, di conseguenza, a un’assenza di crescita del paese. Le aziende virtuose vanno a crescere altrove, e in Italia nessuno arriva ad investire. Alla luce di tutto questo un Governo che abolisce l’Ici non ha capito assolutamente nulla. Ora , il tema della patrimoniale. E’ assolutamente indispensabile introdurre un’imposta patrimoniale, ma non straordinaria. Essa dovrà essere un’ordinaria imposta sul patrimonio, com’era l’Ici, che interessi anche la prima casa. Una tassa che peraltro sarebbe poco evadibile. Così facendo, si potrebbero ridurre le tasse su imprese e lavoratori, e questo automaticamente incrementerebbe le possibilità di crescita, come da tempo sta dicendo Bankitalia. Con la patrimoniale si va a tassare il passato, ossia chi ha già fatto soldi tempo fa, invece di tassare il futuro, ossia chi vuole mettersi in gioco per crescere. Chi ha già avuto molto dalla vita può permettersi di pagare. Peccato che qui in Italia si facciano le cose al contrario. Basti pensare al fatto che qui abbiamo abolito le imposte sull’eredità perché faceva comodo alla famiglia Berlusconi, mentre negli altri paesi questa è una delle principali tasse. Questo perché i figli devono guadagnarsi i propri soldi, e non partire già ricchi dalla nascita, facendo venir meno il principio dell’uguaglianza sociale. Per come sono le cose ora in Italia i figli degli operai non avranno mai le stesse opportunità di chi nasce ricco, e non avranno neppure grandi speranze, perché oggi le possibilità di successo di un ragazzo dipendono dalla famiglia in cui esso nasce. E ciò è ingiusto».
- Per finire, le faccio la stessa domanda che abbiamo già rivolto a diversi studiosi e politici: il nostro Paese ce la farà?
«L’Italia è un grande paese, e nel corso dei secoli ha avuto fasi positive e negative, andando su e giù ciclicamente. Nella sua storia ha avuto diverse fasi di “rinascita”. Prima, nel ‘400, con il Rinascimento; poi, nell’800, con il Risorgimento. E ancora negli anni 50-60 un’altra crescita, che è stata chiamata Miracolo. Ora ci troviamo in piena fase di decadenza, ma prima o poi avremmo un’altra rinascita; solo non so dire se sarà tra un anno, tra 10 o tra 100. Solo il tempo ce lo dirà».
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