di Daniele Tamburini
Era già emerso dalle lotte per la scuola e l'università: dopo anni in cui si parlava del disimpegno giovanile nei confronti della vita pubblica, si afferma un nuovo protagonismo delle giovani generazioni. In tutto il Paese è un fiorire di laboratori, iniziative, esperienze sui social networks, modi nuovi di affrontare le cose. E, nelle alluvioni di questi giorni, abbiamo visto i giovani, nuovi "angeli del fango", in prima linea nei soccorsi alle persone e alle cose, ma anche per preservare cultura e memoria. Abbiamo chiesto il suo parere a Marina Calloni, professore ordinario in filosofia politica e sociale presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Era già emerso dalle lotte per la scuola e l'università: dopo anni in cui si parlava del disimpegno giovanile nei confronti della vita pubblica, si afferma un nuovo protagonismo delle giovani generazioni. In tutto il Paese è un fiorire di laboratori, iniziative, esperienze sui social networks, modi nuovi di affrontare le cose. E, nelle alluvioni di questi giorni, abbiamo visto i giovani, nuovi "angeli del fango", in prima linea nei soccorsi alle persone e alle cose, ma anche per preservare cultura e memoria. Abbiamo chiesto il suo parere a Marina Calloni, professore ordinario in filosofia politica e sociale presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Professoressa Calloni, le giovani generazioni vengono spesso definite come "senza futuro". Perché?
Senza dubbio, i dati confermano la difficoltà per le generazioni di giovani adulti di pensare ad un’idea di futuro e alla propria vita nel tempo: il 29,3% delle persone fra i 15 e i 24 anni sono infatti disoccupati e quasi metà delle donne non gode di un lavoro retribuito (48,6%); molte si rassegnano o accettano di rimanere in ruoli subalterni. Come si può avere una casa propria o avere un figlio in queste condizioni? Il futuro individuale è infatti dato da un’idea di una propria progressione esistenziale e sociale, cosa che risulta essere difficile, anche perché i giovani hanno l’impressione di non poter avere una vita migliore dei loro genitori. Si sentono di vivere solo nell’oggi.
Eppure, in realtà i giovani non si sono certo adagiati e sembra che si stia affermando un nuovo protagonismo sulla scena pubblica...
Come sempre i dati ci aiutano a comprendere le varie pieghe della realtà, a spiegarcela completamente. Non ci parlano ad esempio della ricchezza della società civile, dell’enorme capitale sociale e culturale che abbiamo, delle diverse tradizioni dell’associazionismo e del volontariato, delle trasformazioni culturali in atto. In questi anni i giovani hanno infatti trovato nuovi modi di aggregazione, mobilitazione e di comunicazione tramite i social network. Ciò permette risposte e azioni veloci con deliberazioni su questioni di interesse comune. Le nuove forme di protagonismo giovanile partono appunto da nuove forme di sfera pubblica e dalla richiesta di ricoprire un ruolo attivo, non solo di aiuto in situazioni di emergenza, ma di progettazione rispetto ad un Paese che va ripensato. E ciò lo possono fare grazie alle esperienze e alle competenze che hanno acquisito tanto a livello educativo, quanto attraverso le miriadi di lavoretti precari che sono costretti a fare.
Mi ha colpito la dichiarazione di un giovane che spalava fango, nella Genova alluvionata: la città è nostra, occorre dare una mano. Sembra quasi una reazione a una certa, diffusa irresponsabilità politica e istituzionale. Lei cosa ne pensa?
La virtù civica, l’interesse per il proprio territorio, la necessità di difenderlo e di contrapporsi alle derive di una politica non più interessata al bene comune, fa in effetti parte della tradizione localistica delle città italiane, a partire dal Medioevo. Tuttavia, viene in un certo qual senso qui riproposta la consueta distinzione fra una società civile responsabile e una politica istituzionale incapace. Dobbiamo viceversa fare in modo che la politica corrisponda ai reali interessi territoriali e ambientali, espressi dalle diverse comunità a livello locale, nazionale, ma anche trans-nazionale, dal momento che tutti i fenomeni, da quelli politici a quelli finanziari e climatici sono fra di loro interconnessi nell’attuale scenario globale. Mi pare però che il passaggio da un’idea di bene comune a una più vasta concezione di “beni comuni” (come ha dimostrato il referendum sull’acqua, che ha visto una grande mobilitazione di giovani) vada in questa direzione. E le generazioni più giovani possono giocare qui un ruolo determinante.
La maggior parte di queste iniziative non è "organizzata": perdura, per esempio, lo scarso appeal delle forme
politiche ufficiali. E' d'accordo?
Bisogna in effetti procedere verso forme organizzate e integrate per la salvaguardia e la valorizzazione del territorio. Non dimentichiamoci che fra i principi fondamentali, nell’art 9, la Costituzione Italiana del 1948 riconosce come uno dei compiti prioritari della Repubblica “la tutela del paesaggio, del patrimonio storico e artistico della Nazione.” Considerando che questa indicazione non è presente nella Dichiarazione universale dei Diritti Umani del 1948 o in altre costituzioni del tempo, bisogna allora convenire che i costituenti non solo erano ben consapevoli dell’enorme ricchezza (non materiale) che l’Italia aveva sua disposizione, bensì erano stati lungimiranti nel prevedere l’enorme l’importanza che la questione ambientale, artistica e culturale avrebbe acquistato nel tempo. Proprio per questo, ritengo che giovani debbano essere impegnati non solo in situazioni di emergenza, ma inclusi sistematicamente come ideatori di nuove progettualità e impieghi, a partire dall’enorme patrimonio lasciatoci dal lavoro di generazioni passate e da come erano riusciti a costruire paesaggi “naturali” e ambienti urbani dall’estrema bellezza. Penso che la nostra sopravvivenza e possibilità di occupazione, parta proprio da qui, dal rispetto e dalla valorizzazione culturale dell’ambiente e del territorio. E qui i giovani potranno riappropriarsi di un’idea di futuro, in una catena di solidarietà che li lega alle generazioni passate.
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