sabato, settembre 08, 2012
Intervista al professor Francesco Sylos Labini: «Occorrono investimenti pubblici per la ricerca»
Tra pochi giorni inizieranno il nuovo anno scolastico e il nuovo anno accademico. Scuola e università: pare quasi una banalità sostenere che un Paese che intenda inserirsi nella sfida della complessità contemporanea abbia grande necessità di una scuola e di un’università funzionanti, come e forse più delle materie prime e dell’energia. Eppure, questa sorta di “banalità” non riesce ad avere risposte adeguate, nel nostro Paese. Da noi, ormai, non si contano più gli interventi di riforma legislativa, cresciuti su se stessi spesso in maniera caotica, operati in modo rigorosamente bipartisan dai vari governi che si sono succeduti, anche se di orientamento politico diverso. Eppure, si tratta di interventi che hanno scontentato tutti, in modo davvero unanime: dai docenti ai ricercatori, ai genitori, agli studenti. Uno stato di disagio diffuso, alimentato anche dai tagli progressivi ai fondi destinati all’istruzione, dalla questione del precariato, dallo stato dell’edilizia scolastica e degli atenei, dalla scelta dei sistemi di reclutamento e di valutazione. Le ultime, accese polemiche si sono verificate al recente annuncio di un “concorsone” a cattedre per gli insegnanti delle scuole. Ne parliamo con Francesco Sylos Labini, ricercatore presso il Cnr, visiting professor presso il Dipartimento di Fisica della Università Cattolica degli Studi di Brescia, dove insegna Astrofisica, autore (con Stefano Zapperi) del volume “I ricercatori non crescono sugli alberi”.
Professore, so che non è facile, ma proviamo: come definirebbe la nostra scuola e la nostra Università?
«La nostra università sta vivendo, in questi anni, una situazione molto critica: ancora diverse parti funzionano bene, ma i legislatori e la politica stanno facendo di tutto per distruggerle. Già prima del ministro Gelmini, il sistema universitario non godeva di buona salute; poi è arrivata lei con una riforma terribile, peggiorando la situazione. Infine, ora, il ministro Profumo sta dando il colpo di grazia all'università. Tutto questo accade perché in Italia manca la consapevolezza culturale e politica del fatto che una società avanzata come la nostra abbia il dovere di finanziare università e ricerca. Ricordiamo ad esempio quando Berlusconi era in carica come presidente del Consiglio: gli chiesero le motivazioni dei tagli alla ricerca e lui rispose “perché dobbiamo pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe migliori del mondo?”. Questo dimostra che i docenti e i ricercatori sono visti solo come i "baroni" che sistemano mogli, amanti e figli, o come degli scienziati che risolvono problemi astrusi. Accanto a tutto ciò, in Italia abbiamo una classe imprenditoriale che non ha la cultura della ricerca e dell'innovazione. Si tratta infatti di investimenti ad alto rischio e che hanno un ritorno solo sul lungo periodo, mentre il privato vuole vedere risultati concreti nell'immediato. E' questo uno dei motivi per cui il compito di fare questo tipo di investimenti dovrebbe spettare prioritariamente allo Stato».
Il ministro Profumo sostiene che il Governo stia procedendo ad una valutazione oggettiva e corretta della qualità delle nostre Università e dei suoi docenti …
«Innanzitutto, voglio far notare che l'Agenzia di valutazione che era stata istituita con la riforma Gelmini, e che sta lavorando ancora adesso, utilizza criteri di valutazione che non esistono in nessun altro paese al mondo. Dare un giudizio al settore universitario è un'operazione molto delicata, che tocca la libertà del ricercatore, e se fatto male può causare danni a interi settori di ricerca; per questo dovrebbe essere svolta da persone veramente preparate. Invece l'Agenzia italiana è affidata a gente incapace e irresponsabile. Con il rischio che scompaiano un paio di generazioni di ricercatori, cosa che peraltro sta già accadendo, un po' perché le Università non hanno risorse per assumere, un po' perché i pochi che verranno assunti verranno scelti con criteri che a livello internazionale sono stati screditati. Questa perdita comporterà, purtroppo un buco in alcuni campi di ricerca, per cui le competenze attuali non potranno venir trasmesse e verranno irrimediabilmente perdute. Oggi vi sono campi in cui la ricerca italiana è ancora vincente, ma rischiamo di perdere anche quelli».
Alla luce di tutto questo, qual è lo stato della ricerca nel nostro Paese?
«Innanzitutto bisogna sfatare il mito delle posizioni in classifica dell'università italiana rispetto agli altri paesi. Vi sono infatti classifiche internazionali in cui risultiamo sempre agli ultimi posti, ma esse non si basano solo sulla qualità dell'insegnamento, ma anche su parecchi indicatori infrastrutturali, in cui in effetti l'Italia va molto male. Nelle classifiche effettuate invece solo sulla base delle pubblicazioni e delle citazioni, che sono poi i veri parametri di misurazione per la qualità della ricerca, l'Italia è settima nel mondo, con un sistema universitario che si attesta quindi come efficiente, specialmente in determinati settori, come matematica, biologia, fisica, scienze informatiche. Un'efficienza dimostrata dal fatto che quando i nostri giovani laureati fanno concorsi all'estero li vincono molto spesso. Tuttavia questa tendenza positiva rischia di invertirsi, proprio perché in Italia non si investe nella ricerca, e dunque i ricercatori emigrano. Con tutto ciò non possiamo negare che nel nostro Paese vi siano delle inefficienze e delle persone che davvero non lavorano, ma sono legate prioritariamente al settore delle professioni, come medicina o legge. Questo perché vi sono docenti con il doppio lavoro, che tengono le cattedre ma poi non insegnano ».
La valutazione, la meritocrazia, la trasparenza… concetti che vengono continuamente ribaditi. Viene il sospetto che parlarne tanto dissimuli l’incapacità o la non volontà di procedere in questa direzione. Quali strumenti sarebbero necessari?
«Non c'è nulla da inventare, in realtà: tutto è già stato sperimentato. Basterebbe andare a guardare come funzionano le cose in paesi simili al nostro, come la Francia o l'Inghilterra, e vedere in che modo lì hanno risolto tali problemi, a partire dalla valutazione. Perché in Italia si devono inventare dei criteri che non esistono altrove? Ad esempio, sarebbe sufficiente responsabilizzare le scelte: chi decide di assumere una persona, dovrebbe anche essere responsabile dei risultati da essa ottenuti, e del suo comportamento».
Da Scilipoti a Giggino a’ purpett
Il mondo è bello perché è vario: lo diceva sempre mio nonno. Un detto che è
stato sempre vero, ma mai, forse, come in questi ultimi anni. Abbiamo visto
succedersi tutto e il contrario di tutto. Gli eccessi di politica e
l’antipolitica. Gli sprechi e la crisi. Mi dicono che in molte amministrazioni
pubbliche si stiano invitando i dipendenti (che, magari, già lo fanno per
educazione propria) a non sprecare, a spegnere la luce nelle stanze non usate, a
stampare su carta il meno possibile. Molto bene. Però diciamocelo: quante auto
blu vediamo ancora in giro, nonostante le “strette” più volte annunciate?
Ragionare così non è antipolitica, ma lotta al privilegio. Tornando alla grande
varietà del mondo: abbiamo il linguaggio politichese di un D’Alema e di un
Alfano, e le urla invasate di Grillo. Ma non solo: pensiamo all’”eroe” del
giorno, Giggino a' purpett, cioè l’onorevole Luigi Cesaro, il deputato,
presidente della Provincia di Napoli. Coinvolto anche in una indagine sulla
camorra. Bene, in occasione del vertice mondiale dell'Onu sulle città, l’on.
Cesaro, davanti a una platea di autorità internazionali, ha fatto un intervento,
che sta spopolando su youtube, definito da qualcuno “degno di Totò”. Sì, ma di
Totò quando recitava le sue macchiette migliori. In realtà, una cosa penosa, da
nascondersi dalla vergogna. Inutile: finché avremo degli incompetenti nei posti
di potere, difficilmente potremo fare sostanziosi passi in avanti. Speriamo di
avere la possibilità alle prossime elezioni di poter scegliere coloro che ci
dovrebbero rappresentare. Abbiamo un governatore italiano della Bce, Draghi, che
si sta battendo con intelligenza e determinazione per la salvezza dell’euro e
delle economie europee; abbiamo un premier, Monti, che, comunque la si pensi, è
ascoltato e rispettato. Ma, allo stesso tempo, siamo stati la patria del bunga
bunga, di Scilipoti e ora di Giggino a' purpett. Così non può andare. Un mondo
vario in questo modo, non va.
sabato, settembre 01, 2012
Intervista al professor Sdogati: «Contenere il deficit, un pretesto per privatizzare il patrimonio pubblico»
"La crisi dei debiti pubblici non è crisi economica, bensì crisi della politica"
di Daniele Tamburini
Agosto è appena finito, ma, nonostante le molte tensioni politiche ed
economiche che lo hanno attraversato, non si è verificata la temutissima crisi
devastante sui mercati e sul rendimento dei nostri titoli di Stato. Certo, lo
spread con i titoli tedeschi ha un andamento altalenante. Certo, diversi
soggetti, in Germania, stanno dirigendo una selva di duri colpi nei confronti di
Mario Draghi, il governatore della Banca Centrale Europea, reo di aver
dichiarato, a inizio agosto, che la Bce era disposta ad agire, se necessario,
con misure eccezionali contro la crisi, anche mediante l’acquisto sul mercato
del debito pubblico dei Paesi in difficoltà. Uno per tutti, il presidente della
Bundesbank, Jens Weidmann, ha criticato questa idea, definendola, in
un'intervista al settimanale Der Spiegel, come «un finanziamento degli Stati con
una stampatrice di banconote ». Di più: il finanziamento della Bce potrebbe
indurre alcuni Paesi «all'assuefazione, come se fosse una droga». Una critica
assai pesante, quindi. Sullo sfondo, la imminente campagna elettorale tedesca,
l’incertezza politica in Italia, le prossime elezioni negli USA, il cambio di
guardia politico in Francia, la situazione drammatica della Grecia, la
recessione europea e il rallentamento dell’economia globale eccetera. Una
situazione di grande complessità, in cui il nostro Paese cerca di procedere
faticosamente, sperando di intravedere una luce in fondo al tunnel: luce che,
peraltro, è stata annunciata dal governo, in testa il premier Monti. Parliamo di
questi temi con il professor Fabio Sdogati, docente di Economia Internazionale
presso il Politecnico di Milano, autore di molte pubblicazioni sul tema e del
sito www. scenarieconomici.com.
Professor Sdogati, come mai questo agosto è
stato meno “infuocato” del previsto, sul piano economico-finanziario?
Lungi da
me dire che era prevedibile, ma certo è spiegabile. Si ricorderà certamente il
periodo che io ho definito della ‘diarchia Merkel-Sarkozy’, un periodo in cui i
paesi membri dell’area euro erano divisi in buoni e cattivi, formiche e cicale,
sciocchezze del genere. Poi, da novembre scorso in avanti, sono arrivati Monti
e, da poco, Hollande. E la diarchia, che comunque stava perdendo Sarkozy per
ragioni di politica interna francese, cominciava a perdere sistematicamente di
potere. Il lavoro che il Presidente Monti ha fatto, e sta facendo, sul piano
internazionale è preziosissimo. La sua capacità di smussare, ricucire,
ricomporre, intravedere terreni di compromesso è veramente notevole, e sta dando
frutti visibili. Ciò che voglio dire è che i cosiddetti ‘mercati’, che altro non
sono che le banche, gli intermediari finanziari, i fondi di investimento, stanno
cominciando ad intravedere l’emergere di una leadership europea progressivamente
sempre meno succube ai loro voleri, come era vero invece ai tempi della
diarchia, e dunque le attività speculative stanno rallentando per ampiezza e
intensità. La situazione politica internazionale e quella interna ai singoli
Stati che peso ha in questa fase? Sostengo dall’autunno del 2009 che la
cosiddetta ‘crisi dei debiti pubblici’ è non crisi economica, bensì crisi della
politica. Abbiamo un’Unione Europea che, a causa degli egoismi nazionalisti dei
governanti dei paesi membri, ha smesso di progredire sulla strada
dell’integrazione e dell’unità. L’aver voluto distogliere l’attenzione dalla
globalità della crisi alla cosiddetta ‘crisi greca’ ci ha fatto perdere tempo
prezioso e opportunità preziose per il rilancio dell’economia europea.
Che ne
pensa delle inedite “promozioni” che sono arrivate, per l’Italia, dalle agenzie
di rating?
Per poter rispondere a questo quesito occorre aver chiaro che i
giudizi delle agenzie sono prodotti in vendita. In questo essi assomigliano a
qualunque prodotto e servizio offerto a mercato. Chi acquista i servizi delle
agenzie di rating? Le imprese, ad esempio, che fanno valutare i propri titoli
obbligazionari prima di emetterli; i fondi pensione e i fondi di investimento, i
quali vogliono conoscere la valutazione delle agenzie prima di decidere se
aggiungere un certo titolo al proprio portafoglio. E fin qui non c’è nulla di
strano. Ciò che da potenza alle agenzie è il fatto che i gestori dei fondi sono
obbligati a seguire le loro indicazioni, vale a dire ad acquistare soltanto quei
titoli che sono caratterizzati da un certo rating minimo. E’ evidente come una
variazione del rating di un certa obbligazione, pubblica o privata che sia,
induce, grazie a questi automatismi, flussi di acquisti e di vendite di enorme
valore finanziario. Ma non basta. Il vero problema, infatti, è che questi stessi
meccanismi adottati dai fondi di investimento sono stati adottati dalle stesse
banche centrali. Fino al maggio del 2011, ad esempio, la Bce dava credito
soltanto a quelle banche che offrissero come collaterale, cioè come ‘garanzia’,
titoli con un certo rating. In altre parole, le istituzioni hanno concesso alle
agenzie, ovvero a degli enti privati, il modo di vincolare le proprie azioni. È
questo il vero dramma, la vera capacità distruttiva dei giudizi delle agenzie.
Per rispondere puntualmente al quesito: i giudizi negativi degli anni passati
hanno contribuito molto a generare una recessione che sta devastando le economie
del sud Europa –e che sta cominciando ad attaccare anche l’economia tedesca.
Anche se dovessero aver cambiato direzione, il loro contributo alla ripresa sarà
molto, molto marginale: poiché la sfiducia è stata ormai disseminata con grande
cura; e dovranno passare anni prima che si torni alla situazione pre-2007.
Il
suo parere sull’attivazione dello scudo antispread? Alcuni (citiamo, tra gli
altri, Ricardo Levi) sostengono che ostinarsi nel rifiutarlo sia pericoloso...
Il cosiddetto ‘scudo antispread’ è uno tra i tanti strumenti di intervento
ideati per contenere la violenza con cui banche e fondi di investimento hanno
approfittato delle carenze nella governance dell’Unione Europea a partire
dall’agosto del 2007. E’ uno strumento complesso, nuovo, e ovviamente ciascun
governo nazionale lo vorrebbe (o non lo vorrebbe) veder operativo secondo i
propri interessi.
L’attivazione presupporrebbe veramente una perdita di
sovranità nazionale?
Senza alcun dubbio! Ma non è forse questo che i padri
fondatori dell’Unione Europea avevano in mente? Non è forse vero che il percorso
iniziato con il Trattato di Parigi del 1951 doveva andare proprio in questa
direzione, di potere nazionale decrescente e poteri crescenti degli organi
comunitari? Questo era, ed è tutt’oggi, il sogno. E, ironia, oggi è anche una
necessità: a meno che non si decida di morire schiacciati tra Cina da un lato e
Stati Uniti dall’altro, divisi in tanti ‘paesini’ ciascuno con la sua
‘politichina’. Mi chiedo spesso: chi ha paura della scomparsa dello
stato-nazione? Soltanto chi pensa di vivere nel migliore dei mondi possibili,
cioè nel migliore dei paesi possibili. Un pensiero piuttosto infantile, non
trova?
Che ne pensa delle varie “ricette” per tagliare il debito pubblico:
quella di Alfano, quella Amato-Bassanini, quella di Alberto Quadrio Curzio e
Romano Prodi? Tutte basate, comunque, su una manovra che riguarda il patrimonio
pubblico…
Ho affrontato questo problema in due lavori separati: presentai il
primo, datato 23 marzo, alla riunione degli alumni del Mip e del Corso di Laurea
in Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano; presentai il secondo, datato
23 maggio, ad un incontro a Reggio Emilia. Entrambi i testi sono, ovviamente,
disponibili su www.scenarieconomici.com La tesi che sostenevo in quei lavori è
che la fanfara assordante circa la necessità di contenere il deficit corrente
delle pubbliche amministrazioni altro non è, appunto, che una fanfara. Il cui
scopo è chiarissimo da molto tempo a chi abbia voglia di vedere: distogliere
l’attenzione dalle operazioni di privatizzazione del patrimonio pubblico. E non
parlo, ovviamente, di quattro caserme diroccate o qualche chilometro di
spiaggia, come si è dovuto sentire in passato: parlo di privatizzazione delle
municipalizzate, della sanità, dell’istruzione. Dal mio punto di vista, tutte le
proposte che Lei menziona si equivalgono, poiché in nessuna delle forme
proposte, o proponibili, le privatizzazioni saranno in grado di attivare
l’uscita dalla crisi. Quantomeno, non per anni a venire. Ciò che aiuterebbe
enormemente, invece, è uno strumento che conosciamo da decenni e che ha sempre
funzionato: spesa pubblica. Certo, concordo che le condizioni presenti non
consentono a governi nazionali dell’area euro di agire individualmente in questo
senso, né essi lo farebbero, vista l’ideologia cosiddetta ‘del libero mercato’
che prevale al loro interno e tra i loro consiglieri. Ma pensiamoci: una spinta
di spesa pubblica coordinata a livello di tutta l’Unione Europea, come in fondo
chiede anche la Commissione Europea, sarebbe un passo enorme tanto nella
direzione dell’integrazione che in quella della crescita. Mi permetto di
consigliare, a chi ne ha voglia e tempo, l’ultimo libro di Paul Krugman, premio
Nobel per l’economia 2008, disponibile anche in italiano.
Una domanda difficile,
che però facciamo sempre: ce la faremo? E a quali prezzi? Davvero si intravede
la luce, come dice il premier Monti?
Credo che la risposta corretta al Suo
quesito richieda che si chiarisca anzitutto chi siamo ‘noi’. E al contempo che
cosa si intenda per ‘farcela.’ Se per ‘noi’ intendiamo l’esistenza dell’euro, la
risposta è: assolutamente si, come è stato ribadito in termini categorici ancora
soltanto pochi giorni dal Presidente van Rumpoy, e prima di lui dal Presidente
Draghi, e da molte persone serie. L’euro non si discute. Punto. Se invece per
‘noi’ intendiamo l’Italia, allora occorre ricordare che la crisi non è uguale
per tutti. La pagheranno relativamente poco i pensionati, la pagheranno
durissimamente i giovani, e per decenni a venire; ne usciranno benissimo gli
intermediari finanziari. Se poi per ‘farcela’ intendiamo il ritorno ad un tasso
di crescita dell’economia accettabile, che consenta il riassorbimento della
disoccupazione a livelli pre-2007, la risposta è certamente positiva: ma
occorreranno anni e anni perché ciò accada.
Grazie Professore.
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