sabato, settembre 01, 2012

Intervista al professor Sdogati: «Contenere il deficit, un pretesto per privatizzare il patrimonio pubblico»

"La crisi dei debiti pubblici non è crisi economica, bensì crisi della politica"

di Daniele Tamburini
Agosto è appena finito, ma, nonostante le molte tensioni politiche ed economiche che lo hanno attraversato, non si è verificata la temutissima crisi devastante sui mercati e sul rendimento dei nostri titoli di Stato. Certo, lo spread con i titoli tedeschi ha un andamento altalenante. Certo, diversi soggetti, in Germania, stanno dirigendo una selva di duri colpi nei confronti di Mario Draghi, il governatore della Banca Centrale Europea, reo di aver dichiarato, a inizio agosto, che la Bce era disposta ad agire, se necessario, con misure eccezionali contro la crisi, anche mediante l’acquisto sul mercato del debito pubblico dei Paesi in difficoltà. Uno per tutti, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha criticato questa idea, definendola, in un'intervista al settimanale Der Spiegel, come «un finanziamento degli Stati con una stampatrice di banconote ». Di più: il finanziamento della Bce potrebbe indurre alcuni Paesi «all'assuefazione, come se fosse una droga». Una critica assai pesante, quindi. Sullo sfondo, la imminente campagna elettorale tedesca, l’incertezza politica in Italia, le prossime elezioni negli USA, il cambio di guardia politico in Francia, la situazione drammatica della Grecia, la recessione europea e il rallentamento dell’economia globale eccetera. Una situazione di grande complessità, in cui il nostro Paese cerca di procedere faticosamente, sperando di intravedere una luce in fondo al tunnel: luce che, peraltro, è stata annunciata dal governo, in testa il premier Monti. Parliamo di questi temi con il professor Fabio Sdogati, docente di Economia Internazionale presso il Politecnico di Milano, autore di molte pubblicazioni sul tema e del sito www. scenarieconomici.com. 
Professor Sdogati, come mai questo agosto è stato meno “infuocato” del previsto, sul piano economico-finanziario? 
Lungi da me dire che era prevedibile, ma certo è spiegabile. Si ricorderà certamente il periodo che io ho definito della ‘diarchia Merkel-Sarkozy’, un periodo in cui i paesi membri dell’area euro erano divisi in buoni e cattivi, formiche e cicale, sciocchezze del genere. Poi, da novembre scorso in avanti, sono arrivati Monti e, da poco, Hollande. E la diarchia, che comunque stava perdendo Sarkozy per ragioni di politica interna francese, cominciava a perdere sistematicamente di potere. Il lavoro che il Presidente Monti ha fatto, e sta facendo, sul piano internazionale è preziosissimo. La sua capacità di smussare, ricucire, ricomporre, intravedere terreni di compromesso è veramente notevole, e sta dando frutti visibili. Ciò che voglio dire è che i cosiddetti ‘mercati’, che altro non sono che le banche, gli intermediari finanziari, i fondi di investimento, stanno cominciando ad intravedere l’emergere di una leadership europea progressivamente sempre meno succube ai loro voleri, come era vero invece ai tempi della diarchia, e dunque le attività speculative stanno rallentando per ampiezza e intensità. La situazione politica internazionale e quella interna ai singoli Stati che peso ha in questa fase? Sostengo dall’autunno del 2009 che la cosiddetta ‘crisi dei debiti pubblici’ è non crisi economica, bensì crisi della politica. Abbiamo un’Unione Europea che, a causa degli egoismi nazionalisti dei governanti dei paesi membri, ha smesso di progredire sulla strada dell’integrazione e dell’unità. L’aver voluto distogliere l’attenzione dalla globalità della crisi alla cosiddetta ‘crisi greca’ ci ha fatto perdere tempo prezioso e opportunità preziose per il rilancio dell’economia europea. 
Che ne pensa delle inedite “promozioni” che sono arrivate, per l’Italia, dalle agenzie di rating? 
Per poter rispondere a questo quesito occorre aver chiaro che i giudizi delle agenzie sono prodotti in vendita. In questo essi assomigliano a qualunque prodotto e servizio offerto a mercato. Chi acquista i servizi delle agenzie di rating? Le imprese, ad esempio, che fanno valutare i propri titoli obbligazionari prima di emetterli; i fondi pensione e i fondi di investimento, i quali vogliono conoscere la valutazione delle agenzie prima di decidere se aggiungere un certo titolo al proprio portafoglio. E fin qui non c’è nulla di strano. Ciò che da potenza alle agenzie è il fatto che i gestori dei fondi sono obbligati a seguire le loro indicazioni, vale a dire ad acquistare soltanto quei titoli che sono caratterizzati da un certo rating minimo. E’ evidente come una variazione del rating di un certa obbligazione, pubblica o privata che sia, induce, grazie a questi automatismi, flussi di acquisti e di vendite di enorme valore finanziario. Ma non basta. Il vero problema, infatti, è che questi stessi meccanismi adottati dai fondi di investimento sono stati adottati dalle stesse banche centrali. Fino al maggio del 2011, ad esempio, la Bce dava credito soltanto a quelle banche che offrissero come collaterale, cioè come ‘garanzia’, titoli con un certo rating. In altre parole, le istituzioni hanno concesso alle agenzie, ovvero a degli enti privati, il modo di vincolare le proprie azioni. È questo il vero dramma, la vera capacità distruttiva dei giudizi delle agenzie. Per rispondere puntualmente al quesito: i giudizi negativi degli anni passati hanno contribuito molto a generare una recessione che sta devastando le economie del sud Europa –e che sta cominciando ad attaccare anche l’economia tedesca. Anche se dovessero aver cambiato direzione, il loro contributo alla ripresa sarà molto, molto marginale: poiché la sfiducia è stata ormai disseminata con grande cura; e dovranno passare anni prima che si torni alla situazione pre-2007. 
Il suo parere sull’attivazione dello scudo antispread? Alcuni (citiamo, tra gli altri, Ricardo Levi) sostengono che ostinarsi nel rifiutarlo sia pericoloso... 
 Il cosiddetto ‘scudo antispread’ è uno tra i tanti strumenti di intervento ideati per contenere la violenza con cui banche e fondi di investimento hanno approfittato delle carenze nella governance dell’Unione Europea a partire dall’agosto del 2007. E’ uno strumento complesso, nuovo, e ovviamente ciascun governo nazionale lo vorrebbe (o non lo vorrebbe) veder operativo secondo i propri interessi. 
L’attivazione presupporrebbe veramente una perdita di sovranità nazionale? 
Senza alcun dubbio! Ma non è forse questo che i padri fondatori dell’Unione Europea avevano in mente? Non è forse vero che il percorso iniziato con il Trattato di Parigi del 1951 doveva andare proprio in questa direzione, di potere nazionale decrescente e poteri crescenti degli organi comunitari? Questo era, ed è tutt’oggi, il sogno. E, ironia, oggi è anche una necessità: a meno che non si decida di morire schiacciati tra Cina da un lato e Stati Uniti dall’altro, divisi in tanti ‘paesini’ ciascuno con la sua ‘politichina’. Mi chiedo spesso: chi ha paura della scomparsa dello stato-nazione? Soltanto chi pensa di vivere nel migliore dei mondi possibili, cioè nel migliore dei paesi possibili. Un pensiero piuttosto infantile, non trova? 
Che ne pensa delle varie “ricette” per tagliare il debito pubblico: quella di Alfano, quella Amato-Bassanini, quella di Alberto Quadrio Curzio e Romano Prodi? Tutte basate, comunque, su una manovra che riguarda il patrimonio pubblico… 
Ho affrontato questo problema in due lavori separati: presentai il primo, datato 23 marzo, alla riunione degli alumni del Mip e del Corso di Laurea in Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano; presentai il secondo, datato 23 maggio, ad un incontro a Reggio Emilia. Entrambi i testi sono, ovviamente, disponibili su www.scenarieconomici.com La tesi che sostenevo in quei lavori è che la fanfara assordante circa la necessità di contenere il deficit corrente delle pubbliche amministrazioni altro non è, appunto, che una fanfara. Il cui scopo è chiarissimo da molto tempo a chi abbia voglia di vedere: distogliere l’attenzione dalle operazioni di privatizzazione del patrimonio pubblico. E non parlo, ovviamente, di quattro caserme diroccate o qualche chilometro di spiaggia, come si è dovuto sentire in passato: parlo di privatizzazione delle municipalizzate, della sanità, dell’istruzione. Dal mio punto di vista, tutte le proposte che Lei menziona si equivalgono, poiché in nessuna delle forme proposte, o proponibili, le privatizzazioni saranno in grado di attivare l’uscita dalla crisi. Quantomeno, non per anni a venire. Ciò che aiuterebbe enormemente, invece, è uno strumento che conosciamo da decenni e che ha sempre funzionato: spesa pubblica. Certo, concordo che le condizioni presenti non consentono a governi nazionali dell’area euro di agire individualmente in questo senso, né essi lo farebbero, vista l’ideologia cosiddetta ‘del libero mercato’ che prevale al loro interno e tra i loro consiglieri. Ma pensiamoci: una spinta di spesa pubblica coordinata a livello di tutta l’Unione Europea, come in fondo chiede anche la Commissione Europea, sarebbe un passo enorme tanto nella direzione dell’integrazione che in quella della crescita. Mi permetto di consigliare, a chi ne ha voglia e tempo, l’ultimo libro di Paul Krugman, premio Nobel per l’economia 2008, disponibile anche in italiano. 
Una domanda difficile, che però facciamo sempre: ce la faremo? E a quali prezzi? Davvero si intravede la luce, come dice il premier Monti? 
Credo che la risposta corretta al Suo quesito richieda che si chiarisca anzitutto chi siamo ‘noi’. E al contempo che cosa si intenda per ‘farcela.’ Se per ‘noi’ intendiamo l’esistenza dell’euro, la risposta è: assolutamente si, come è stato ribadito in termini categorici ancora soltanto pochi giorni dal Presidente van Rumpoy, e prima di lui dal Presidente Draghi, e da molte persone serie. L’euro non si discute. Punto. Se invece per ‘noi’ intendiamo l’Italia, allora occorre ricordare che la crisi non è uguale per tutti. La pagheranno relativamente poco i pensionati, la pagheranno durissimamente i giovani, e per decenni a venire; ne usciranno benissimo gli intermediari finanziari. Se poi per ‘farcela’ intendiamo il ritorno ad un tasso di crescita dell’economia accettabile, che consenta il riassorbimento della disoccupazione a livelli pre-2007, la risposta è certamente positiva: ma occorreranno anni e anni perché ciò accada. 
Grazie Professore.

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