sabato, gennaio 28, 2012

L’importanza di ricordare, sempre. intervista a Michele Sarfatti, direttore del Cdec

Veenerdì  27 ricorre il Giorno della Memoria. Una legge del 2000, fortemente voluta da Furio Colombo, ha
inteso ricordare, il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, e coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Lo sterminio coinvolse anche l’etnia rom e sinti, comunisti, testimoni di Geova, omosessuali, disabili, dissidenti tedeschi e pentecostali; la deportazione si accanì contro prigionieri di guerra, anche italiani, quelli che non vollero piegarsi al Mussolini di Salò. Milioni di persone. La cura della memoria, per una civiltà che intenda definirsi tale, è fondamentale. In questo caso, memoria significa rispetto e amore verso chi ha subito sofferenze inenarrabili, ma anche un monito, perché occorre sempre vigilare. Avvenimenti che sembrano lontanissimi da noi potrebbero ripresentarsi. Lo scriveva Primo Levi: se è accaduto una volta, può accadere di nuovo. A questo proposito abbiamo posto alcune domande allo storico Michele Sarfatti, direttore del Cdec – Centro di documentazione ebraica contemporanea, che ha sede a Milano.
Dottor Sarfatti, perché è importante la legge che ha istituito il Giorno della Memoria?
«E’ importante perché fornisce un punto di incontro alle persone che vogliono coltivare la memoria, tenendola viva. E’ altrettanto importante, però, che non sia un obbligo, ma un’adesione volontaria, altrimenti la ricorrenza perderebbe il suo significato. Si tratta di compiere un percorso, individuale o collettivo, per riflettere su quanto è accaduto. Dunque la legge è buona cosa, purché sia interpretata correttamente».
L’argomento è enorme, e ovviamente non si può sintetizzare in poche righe, ma che cosa fu la Shoah?
«Fu uno sterminio scientificamente progettato da una parte della popolazione del continente europeo ai danni di un’altra parte di tale popolazione. I “decisori” della Shoah furono pochi ma innumerevoli furono i collaboratori e gli esecutori. Si tratta dunque di un problema collettivo: erano europei tanto i persecutori quanto le vittime, e quindi si è trattato di una situazione di disagio creatasi all’interno del nostro continente. Fu un fenomeno scientifico, moderno e totalitario nella sua progettazione, mentre nell’esecuzione convissero due differenti modalità: una tecnologica e moderna, ossia l’uccisione degli ebrei nelle camere a gas, metodologia che richiese studi e progettazioni e che riguardò in particolare gli ebrei italiani; l’altra, che coinvolse maggiormente ebrei russi e polacchi, fu invece una modalità antica e primitiva: quella degli eccidi di massa, nei boschi, nelle pianure o dentro le stesse sinagoghe, a cui veniva dato fuoco. Due modi diversi di
raggiungere lo stesso obiettivo, ossia eliminare delle grandi quantità di persone in poco tempo».
Si dice che in Italia la cura della memoria non abbia grande diffusione: lei che ne pensa?
«Non credo sia così. La percezione che abbiamo è che la diffusione della memoria in Italia sia notevole. Non è vissuta solo da una nicchia di persone, anzi: sono parecchi gli italiani che condividono il ricordo. Accanto a loro poi ci sono anche quelli che vogliono essere indifferenti alla cosa, e non mancano neppure i negazionisti,
che hanno una memoria gestita in modo malsano. Anche l’opinione pubblica presta molta attenzione a questa ricorrenza: basta fare caso a quanti periodici e quotidiani in questi giorni offrono film, libri e altro legati all’argomento. Questo dimostra che la richiesta di informazioni è sempre alta. Quello che si nota, invece, è che periodicamente cambiano i centri di interesse: quest’anno ad esempio è molto presente il tema del negazionismo».
 In che rapporto sta il Giorno della Memoria con altre celebrazioni successivamente create (come il Giorno del ricordo)?
«Il Giorno della Memoria non può essere in concorrenza o alternativa con altri ricordi, anche perché si trova su un altro piano: nessun’altra vicenda del ‘900, fortunatamente, ha avuto le caratteristiche della Shoah. Abbiamo visto altre violenze di massa ma nulla a quei livelli. Naturalmente tutte le vicende di questo tipo meritano di essere ricordate; nella misura in cui ci definiamo italiani assumiamo più di noi tutto il peso delle vicende legate alla nostra storia. Compreso tutto quello che è successo nell’area di confine tra Italia e Jugoslavia, come le foibe. Non si può pensare di rinunciare a un pezzo di storia, perché sarebbe una sorta di
amputazione intellettuale. Tra l’altro, quello delle foibe fu un episodio complesso, giacché tali violenze erano iniziate già negli anni ’20. Fu proprio da scontri nazionalisti di quel tipo che poi si arrivò alla Shoah: quella mentalità del considerarsi meglio degli altri e la voglia di risolvere i problemi con il sangue furono all’origine di tutto».
Il suo Centro lavora molto con le scuole. C’è sensibilità su questi argomenti, tra docenti e studenti?
«Direi di sì. Da un lato lo vedo quando vado a parlare nelle scuole, dall’altro nell’ambito del concorso nazionale, che si ripete ogni anno per tutte le scuole di ogni ordine e grado, legato proprio ai temi della Shoah. Faccio parte della giuria, e ogni anno vedo grande partecipazione e impegno da parte dei giovani. Si vede la voglia di approfondire e conoscere il tema».

Viviamo in un eterno presente

Ricordo bene la grande risonanza che ebbe, nel 1973, tutta la vicenda del colpo di stato in Cile. Erano altri tempi, c'era l'internazionalismo. Il golpe fu preceduto da uno sciopero dei camionisti che paralizzò il Paese. Non voglio fare parallelismi, ci mancherebbe, anche perché, qui, di un Allende non c'è traccia. Ma certo colpisce che un gruppo di persone possa ipotecare così la vita quotidiana di un Paese. Avranno le loro ragioni, la crisi li colpisce duro, ma questo vale per tutti. Per rivendicare qualcosa a livello personale o di categoria si fa un gran male a un mucchio di gente. Ognuno ha il diritto di protestare, di scioperare; ma non si può impedire a chi intende lavorare, per necessità o perché semplicemente non è contrario alle scelte del governo, di farlo. Vogliamo cercare insieme un futuro? Questo non è, secondo me, l'atteggiamento giusto. Già, il futuro. Il futuro è seriamente ipotecato. I nostri giovani vivono tra l'assenza di futuro e la carenza di conoscenza del passato. Vivono, dice qualcuno, in un eterno presente. Come i precedenti governi, per i quali l’orizzonte più lontano era la successiva scadenza elettorale. Da un lato, l'assenza di futuro impedisce di progettare e sperimentare; dall’altro, la mancata conoscenza del passato non permette di valutare nel modo giusto le cose. Allora accade che diventi un eroe un onesto e fermo comandante di capitaneria che richiama semplicemente al dovere, non all'eroismo, il comandante della nave Concordia. L'eterno presente che stiamo vivendo è confinato in una dimensione ristretta, ristretta e pericolosa. Dobbiamo avere la forza di continuare a progettare e immaginare un futuro diverso; noi ci stiamo provando. Del resto, anche la grammatica prevede vari tempi di passato e di futuro, ma un solo presente.

Daniele Tamburini

venerdì, gennaio 20, 2012

Le agenzie di rating, ma chi sono costoro? L’economista Giacomo Vaciago: «Non si sono fatte regole che conciliassero la proprietà privata con l’interesse pubblico»

di Daniele Tamburni
Il declassamento dell'Italia da parte dell'agenzia di rating Standard & Poor's, insieme a buona parte dei Paesi dell’eurozona, ha portato scompiglio e preoccupazione nel mondo della finanza europea, tanto più che circola la notizia di un prossimo declassamento anche da parte dell’agenzia Fitch. Lo stesso governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, nei giorni scorsi ha definito «gravissima» la situazione, spingendosi a dichiarare che «bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating o quanto meno imparare a fare meno affidamento sui loro giudizi» Anche il commissario dell'Unione europea, Olli Rehn, ha accusato le agenzie di rating di essere uno strumento del potere economico statunitense. Abbiamo chiesto un commento a Giacomo Vaciago, professore ordinario di politica economica e direttore dell'Istituto di Economia e Finanza nell'Università Cattolica di Milano.
Nei giorni scorsi, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato ulteriormente l’Italia, a livello BBB+. Può spiegarcene la portata concreta e che cosa significa questo per il nostro Paese?
«Facciamo una premessa. Le agenzie di rating hanno il compito di valutare la qualità di un titolo sulla base di alcune variabili: il bilancio dell'emittente, le sue aspettative economiche, la situazione del Paese, ecc. Queste società, che operano da circa un secolo, valutano centinaia di migliaia di titoli, di Stati, imprese e banche. Le principali sono Standard & Poor's, Moody (che in due detengono circa l'80% del totale dei titoli da valutare) e Fitch (che detiene circa il 5%). Il declassamento dell'Italia è dunque lo specchio di un paese che soffre, questo è palese. I giudizi delle agenzie di rating vanno rispettati e molti fondi di investimento - ad esempio alcuni fondi pensione - per statuto possono investire solo in titoli tripla A e questo fa si che quando esce un downgrading come quello nei confronti dell’Italia o della Francia, le conseguenze sono che questi paesi dovranno pagare tassi sempre più alti per poter vendere i propri titoli (un titolo con livello più elevato paga interessi inferiori rispetto a chi è collocato più in basso). Dunque il declassamento ha portato a un'impennata degli interessi, e quindi del costo del credito. Questo è un problema serio per un paese come il nostro che, come confermano gli ultimi dati, è già in piena fase di recessione».
Quanto sono attendibili i giudizi di queste agenzie?
«Sicuramente non sono infallibili, tanto che nel corso degli anni hanno già fatto parecchi errori: non si sono accorte, ad esempio, che la Grecia imbrogliava da anni, né che Lehman Brothers stava per fallire. Sarebbe necessario un organismo che valuti la loro attendibilità. Il problema è che anche quando sbagliano, provocano conseguenze devastanti. Si verifica un effetto denominato snow-ball: si inizia con una palla di neve, poi diventa una valanga. Nel momento in cui un paese subisce il giudizio negativo è più probabile che succeda ciò che le agenzie hanno previsto e cioè che la situazione peggiori, visto che l’outlook negativo danneggia il paese che lo riceve. Infatti, sulle semplici indiscrezioni di un declassamento dell’Italia da parte di
S&Poor’s, il nostro spread Btp-Bund è aumentato. Se salgono i tassi di interesse, non solo il Tesoro paga di più, ma anche le aziende italiane pagheranno ildebito più caro».
Spieghiamo qualcosa di queste agenzie di rating: cosa rappresentano? Da chi sono governate? per quale motivo hanno tanto potere?
«Le abbiamo fatte diventare importanti nel momento in cui si è voluto promulgare una serie di leggi che hanno dato un forte peso al loro giudizio, ufficializzando le pagelle che esse danno ai titoli che possono essere oggetto di acquisto. Questo potere però è venuto senza un'adeguata riflessione sulle conseguenze, quando c'era la necessità di semplificare il sistema e di valutare la bontà dei titoli. Inizialmente erano un po' come le graduatorie fatte dai numerosi enti di ricerca, come l'ultima che è uscita sul gradimento dei sindaci.  Quest'ultime però non hanno un grande peso. Le valutazioni delle agenzie di rating invece hanno un peso enorme, perché portano a conseguenze dirette davvero forti».
In queste vicende, si adombrano conflitti di interesse molto consistenti all'interno del potere finanziario ed economico: lei cosa ne pensa?
«Da più parti sono state mosse critiche in questo senso, anche perché le agenzie di rating sono enti di matrice americana a controllo anglosassone. A questo proposito si era auspicato che l’Ue promovesse le sue di società di rating in modo che fossero più controllabili. Poi però non se ne fece nulla. A Bruxelles è ancora aperto un dibattito per sottoporre a una vigilanza le stesse agenzie. Quello che ci si chiede è: chi dà il rating alle agenzie di rating? Per quanto riguarda i conflitti di interesse, in ogni caso, si possono solo sospettare, ma non ci sono chiare evidenze di ciò. Ad esempio la notizia del downgrading dell'Italia era trapelata prima che venisse fatto l'annuncio ufficiale, ed è probabile che qualcuno ci possa aver guadagnato...».
Si può quindi sostenere che queste agenzie abbiano un ruolo al di sopra delle parti ed una visione oggettiva delle cose?
«Per essere una realtà davvero "super partes", dovrebbero essere pubbliche. Invece, nonostante il peso che hanno le loro valutazioni, sono comunque soggetti privati. Moody, S&P e le altre sono figlie delle liberalizzazioni degli anni ottanta, quando era in voga lo slogan: “privato è meglio”. A quell'epoca si è privatizzato tutto in modo indiscriminato, senza prima fare delle regole che conciliassero la proprietà privata con l'interesse pubblico. E ora se ne pagano le conseguenze».
S&P ha declassato non solo l’Italia, ma anche altre realtà europee: è un attacco all'Eurozona? Quali potranno essere le conseguenze?
«Questo declassamento di diverse aree dell'Europa rappresenta un modo di lavorare abbastanza diffuso, basato sull'assunto che essendo gli stati europei realtà interdipendenti, per fare una valutazione corretta bisogna guardare all'intero. In sostanza, se in certi paesi vi sono problemi, essi si riflettono anche nelle realtà che hanno legami economici con tali paesi. Ad esempio l’Austria ha perso il rating tripla A di Standard & Poor a causa dei suoi legami con la vicina Italia, suo secondo più grande partner commerciale, e per l’Ungheria, dove le banche del paese alpino, sono i più grandi istituti di credito. Nessun attacco all'Europa, quindi, ma solo una valutazione il più possibile complessiva. Tutto ciò, in ogni caso, complica notevolmente la vita ai governi europei: non siamo ancora in vista di uno spaccamento, ma sicuramente la situazione non è delle migliori».
Da tutto questo, chi uscirà più forte e chi, invece, ne sarà indebolito?
«La maggiore evidenza è che i paesi periferici soffrono la situazione, mentre la Germania ne gode. Paradossalmente, infatti, la Germania è favorita dagli altri downgrading. L’out look negativo di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, il 19 settembre, ha giovato alla Germania che si è indebitata senza tassi d’interesse. Il costo del debito tedesco si è ridotto in questi mesi e questo fa bene alla sua economia. Dunque S&P per ora ha fatto un favore alla Merkel, con la conseguenza di qualche disoccupato in meno in Germania e qualche disoccupato in più in Italia o Francia».

Andrea Morrone, costituzionalista e presidente del Comitato referendario, commenta la bocciatura dei referendum per la modifica della legge elettorale. Alle elezioni voteremo con il “porcellum”?

Siamo di fronte ad una situazione, a dir poco, paradossale. Abbiamo, in Italia, una legge elettorale definita un po’ da tutti “porcellum”, a partire da coloro che l’hanno voluta. Approvata nel 2006, poco prima delle elezioni politiche, ha sostituito il vecchio «Mattarellum» e ha introdotto un sistema proporzionale, con soglie di sbarramento e liste bloccate. In pratica, si vota esclusivamente per il partito. Il risultato elettorale determina il numero di seggi conquistati da ogni forza politica; deputati e senatori vengono abbinati ai seggi conquistati in base alla posizione del loro nome nella lista bloccata (l'elettore non può cioè esprimere una preferenza: questo è forse il punto di maggior “sofferenza”). Per la sola elezione della Camera è previsto anche un premio di maggioranza. Il nome «porcellum» deriva da una dichiarazione dell'allora ministro delle Riforme, il leghista Roberto Calderoli, che in un periodo successivo all'approvazione della legge da lui stesso promossa ebbe a definirla una «porcata». La Corte costituzionale, giorni fa, ha dichiarato l’inammissibilità di due quesiti presentati dal comitato promotore del referendum sulla legge elettorale, su cui erano state raccolte più di un milione di firme: sia quello che chiedeva l'abrogazione totale della legge Calderoli sia quello che ne chiedeva l'abrogazione per parti. Il paradosso è questo: una legge aspramente criticata, in virtù della quale, comunque la si pensi, è innegabile che vi sia una sottrazione di potere decisionale rispetto al corpo elettorale. Votando un partito ed esercitando un mio diritto costituzionale, non posso, nei fatti, scegliere le donne o gli uomini che, in Parlamento, rappresenteranno quel partito e quindi il mio voto. L’art. 48 della nostra Costituzione dice: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto”. Quanto alla libertà, ci pare che questa legge elettorale ne costituisca una seria ipoteca.
(d.t.)


La notizia del pronunciamento della Corte Costituzionale ha sollevato molte perplessità e delusione. Ne abbiamo parlato con il professor Andrea Morrone, presidente del Comitato referendario, nonché professore ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna.
Professor Morrone, la Consulta ha bocciato i due referendum da voi proposti sull’abrogazione della legge elettorale vigente, il cosiddetto “porcellum”. Ce ne puòspiegare le motivazioni?
«Difficile dirlo. Bisognerà aspettare di leggere le motivazioni della Consulta. Noi avevamo sottoposto alla Corte Costituzionale una proposta per eliminare il vuoto che consegue a ogni referendum abrogativo. Un vuoto che non può essere mantenuto. La nostra ipotesi era quindi di abrogare la legge Calderoli in modo totale o parziale, ripristinando la normativa previgente, ossia la legge detta “Mattarellum”. Evidentemente la Corte Costituzionale ha deciso che questa non fosse una strada percorribile».
Può spiegarmi la questione del vuoto legislativo?
«Nel 1987 la Corte Costituzionale stabilì delle leggi speciali per abrogare le leggi elettorali: possono essere abrogate solo per sostituzione, ossia deve restare in piedi una legislazione sostitutiva. La novità del nostro referendum era che la nuova normativa non sarebbe stata ricavata dalla legge che si andava abrogando, ma si sarebbe individuata recuperando le vecchie disposizioni. Del resto la legge di Calderoli non disciplina completamente le elezioni di Camera e Senato, ma semplicemente sostituisce la formula elettorale della legge "Mattarellum"».
Quali sono, a suo parere, le criticità maggiori presenti nella cosiddetta legge “porcellum”?
«Nell'indire il referendum siamo partiti con lo slogan: "bisogna restituire lo scettro ai cittadini". Questo già dice tutto. La legge Calderoli ha determinato un'involuzione rispetto al passato: prima il cittadino poteva scegliere coloro che avrebbero composto la maggioranza di Governo, votando i singoli candidati. La legge Calderoli, nel 2005, ha introdotto la proporzionale con preferenza bloccata e premio di maggioranza. Questo sistema complica le cose, perché c'è il rischio che un candidato vinca alla Camera e non al Senato. Ma la cosa più grave è la lista bloccata: gli elettori possono scegliere il partito ma non possono votare i propri rappresentanti; devono invece accettare passivamente tutti i candidati della lista. Così in questi anni abbiamo votato In questo modo si ottiene un Parlamento di nominati ma non di eletti. Molte realtà provinciali non hanno avuto neppure un rappresentante».
Ci può spiegare, in maniera ovviamente schematica, quale sarebbe, a suo parere, un sistema elettorale adeguato al nostro Paese?
«Non esiste un modello ideale. Dobbiamo partire dall'obiettivo che vogliamo perseguire, e da lì costruire le regole che lo rappresentino meglio. Dietro il referendum infatti vi erano degli scopi ben precisi: vogliamo che l'Italia abbia un sistema bipolare in cui i due poli, composti da più partiti, possano alternativamente contendersi il Governo del Paese. Una democrazia nella quale i cittadini possano scegliere i propri rappresentanti e la maggioranza di Governo. Per realizzare questi obiettivi si possono utilizzare i più svariati sistemi elettorali. Questo è il problema, in Italia: ci siamo sempre concentrati più sulla regola che sugli obiettivi. E ognuno vorrebbe che venissero scelte le regole che più gli fanno comodo. Così il terzo polo, ad esempio, vorrebbe il ritorno di un sistema con la presenza di più poli, dove però l'ago della bilancia è spostato sempre verso il centro». 
Dunque il punto di maggior criticità della legge in vigore viene identificato spesso nella impossibilità di esprimere preferenze: l’elettore si trova rappresentato da un deputato in virtù del posto ricoperto da quest’ultimo nella lista, posto deciso a tavolino. Quali sono stati i motivi di questa scelta del legislatore?
«E' stata fatta una scelta politica a favore dei gruppi dirigenti ora presenti in questo Paese. Calderoli doveva tenere insieme le anime del centrodestra. Da un lato Casini, che voleva un sistema proporzionale, dall'altro Fini, che pretendeva le liste bloccate - che in realtà interessavano anche alla Lega, che così poteva utilizzare i candidati delle aree in cui era più forte, senza dover obbligatoriamente esprimere candidati del territorio - e infine Berlusconi, che chiedeva il premio di maggioranza. Ma questa legge fu fatta anche per impedire a Prodi di vincere con il doppio premio elettorale, e quindi impedendo a coalizioni disgiunte come la sua di poter vincere. Al di là di questo, il problema vero della legge Calderoli è che la lista bloccata piace a tutti i dirigenti di partito, di qualsiasi colore politico: in questo modo infatti, possono nominare le proprie persone di fiducia senza farle passare dal giudizio degli elettori. Questa legge elettorale, proprio per questo, ha determinato grandi fratture interne nei partiti, perché accontentando la dirigenza si è estromessa la base dei partiti, impedendo loro di esprimere candidati validi e preparati».
Pensa che questo Parlamento sia in grado di fare una riforma elettorale che dia conto del disagio espresso ormai da moltissimi cittadini?
«Assolutamente no. Non è stato in grado di portare avanti la riforma in tutti questi anni, ho seri dubbi che possa riuscirci ora, tanto più che il premier Mario Monti ha problemi più urgenti a cui dedicarsi. Del resto, se i mercati internazionali non hanno fiducia nel nostro Paese è perché non ritengono la classe dirigente adeguata a far fronte alle difficoltà italiane in Europa. Ma la fiducia manca anche a livello interno: la gente che ha firmato per il referendum ritiene inaffidabile l'intera classe politica, tanto a destra quanto a sinistra. Neppure lo stesso Napolitano si fida dei politici italiani, tanto che ha preferito nominare un docente come Presidente del Consiglio. Gli stessi partiti non sono così convinti di cambiare questa legge: Bossi ha detto che non c'è il tempo per farlo, Berlusconi sostiene che va bene così. Casini e D’Alema asseriscono che prima si devono fare le riforme costituzionali. L'Italia dei Valori rifiuta qualsiasi riforma. Sono convinto che alla fine andremo a votare con la legge Calderoli».

Nessuno

Chi mi conosce sa quanto ami le automobili, da sempre. Mi piacciono le auto e mi piace guidarle, da giovane ho partecipato a gare automobilistiche. Ma devo, dovrò farmene una ragione, almeno fintantoché non costruiranno auto non inquinanti: non possiamo più sostenere questi livelli e, soprattutto, questa qualità di mobilità. La nostra aria non lo tollera più. L’inquinamento è alle stelle, i valori delle PM10 sono preoccupanti: se ne sono accorti persino in Comune. Nell’inchiesta che pubblichiamo in questo numero, alcuni cittadini dicono, con ragioni fondate: bloccare il traffico è un provvedimento tampone, servirebbe ben altro; ad esempio, incentivare l’utilizzo dei mezzi pubblici. Certo che sì. Tra l’altro, il trasporto pubblico locale è stato tra i comparti più penalizzati, manovra dopo manovra. Però, è ormai palese, ormai inevitabile che dovremo cambiare abitudini. Pensiamoci un attimo: il prezzo della benzina è ulteriormente aumentato. Questo contribuisce a deprimere la mobilità, che è uno degli elementi dello sviluppo di un territorio. Allora, non sarebbe meglio investire proprio nella mobilità pubblica, rendendola più fruibile, magari gratuita: ci sono esempi in giro per il mondo, ne abbiamo parlato ampiamente, su queste pagine, qualche anno fa. Bisogna cominciare a lavorare per un modello di città da godere di più e meglio. Si parla di “città intelligenti”. È un concetto affascinante. Faccio un esempio: se hai bisogno di un certificato, non devi spostarti ma, collegandoti via internet ad uno sportello telematico, lo stampi direttamente in ufficio o a casa. A questo proposito, il Comune di Cremona ha già fatto molto. Ma molto rimane da fare. A leggere il rapporto Euromobility per il 2011, i numeri sono sconfortanti: trasporto pubblico locale ancora inefficiente nella maggior parte delle città italiane, e 8000 morti all’anno per le polveri sottili. Occorre cambiare mentalità, porsi l’obiettivo, e perseguirlo con determinazione sapendo di andare contro forti interessi: è inevitabile, non può che essere così. Ma chi è, oggi, disposto a farlo, sapendo che elettoralmente non paga?

Daniele Tamburini

venerdì, gennaio 13, 2012

I nomi a volte sono presagi

Ci sono delle tragedie che non sono frutto di fatalità o del destino cinico e baro: per esempio, gli incidenti sulla strada. L’anno è iniziato malissimo, qui a Cremona, con quattro decessi. Occorre rispettare le regole, nella vita, sul lavoro e sulla strada. In tempi difficili, gli “hard times”, può crescere la tentazione della deregulation anche nel seguire le norme che governano la convivenza tra le persone: bisogna contrastarla. Non è fatalità neppure il continuo sforamento della soglia della presenza di polveri sottili nell’aria che respiriamo. Dice il Comune che occorrono politiche di area vasta, ma qui, di vasto, c’è solo il pericolo che cresce, giorno dopo giorno, per i nostri polmoni. È vero, complici della situazione sono le condizioni atmosferiche, ma, appunto, certe condizioni sono, qua da noi, una costante a memoria d’uomo. Ci vorranno sicuramente politiche di area vasta, ma qualche provvedimento serio potrebbe essere preso, o no? Ma torniamo alle regole. Il Governo ritiene necessario dare il via ad un pacchetto di liberalizzazioni: alcuni sono favorevoli, altri contrari, in una inevitabile e democratica dialettica tra posizioni ed interessi diversi. Ma, nel pacchetto di misure annunciato, ecco che esce fuori nuovamente il tema dell’acqua. Ma non avevamo votato ad un referendum? Ma, anche qui da noi, nella Provincia di Cremona, non si è svolta una battaglia durissima tra la giunta Salini, la minoranza del suo Consiglio e la maggioranza dei Sindaci del territorio, perché la Provincia aveva deliberato in senso contrario agli esiti del referendum? E ora, che accadrà? Altra musica, altro giro di valzer? Ripeto: ma non avevamo votato? Sembra che votare e decidere non vada per la maggiore: sarà questo l’atteggiamento che sta dietro alla bocciatura, da parte della Consulta, dei referendum sulla legge elettorale? E intanto, per ora, dobbiamo tenerci il porcellum: una porcata, appunto. Nomina sunt omina, i nomi a volte sono presagi!

Daniele Tamburini

venerdì, gennaio 06, 2012

Se la gente lavora, guadagna; se guadagna, spende; se spende, qualcuno ci guadagna

Il 2012 si apre con la notizia che, a Cortina d’Ampezzo, a seguito di ispezioni della Guardia di Finanza condotte a fine anno, l’incasso degli esercizi commerciali è salito del 400 %. Ma non basta: su 251 auto di grossa cilindrata, e sulle 133 intestate a persone fisiche, ben 42 appartengono a persone che, negli ultimi due anni, hanno dichiarato 1.800 euro lordi al mese. Non c’è che dire: gente “risparmiosa”. Quello che non va, in questo Paese, sono le situazioni di privilegio quasi medievale. Ma non castale. Faccio un esempio. Il commerciante al dettaglio di Cremona deve stare molto attento a rilasciare sempre ricevuta o scontrino fiscale: e, si badi bene, è giustissimo. Ma il commerciante di Cortina (o di Porto Cervo o di Capri o … fate voi), quando accade che ci siano controlli che lo obbligano ad emettere ricevuta, aumenta il fatturato del 400%. Delle due, l’una: o la presenza della Guardia di Finanza eccita talmente i consumi, che gli incassi crescono vertiginosamente (magari ci sono finanzieri tipo star di Hollywood … chissà), oppure qualcosa non quadra. Il blitz intelligente e mirato di Cortina dà veramente l’idea del volume di privilegio intoccabile (finora?) che c’è nel nostro Paese. Il contribuente onesto si indigna, giustamente. Gli chiedono ulteriori sacrifici, e poi si leggono notizie del genere. Allora, ben vengano i controlli, mirati e “chirurgici”. Chi è onesto non deve temerli. Recuperare tante risorse dall’evasione e dall’elusione. Ma non basta. Con serietà e lungimiranza, proprie di chi ha responsabilità importanti, Antonio Piva dice, nell'intervista che pubblichiamo in questa stessa pagina: occorrono coesione, compattezza, innovazione, apertura internazionale. Cremona andrà a presentarsi in una vetrina d’eccezione, a New York. Se non ci apriamo ancora di più ai mercati internazionali, non ce la faremo. Senza dimenticare una vera, grande, enorme emergenza: il lavoro. Forse c’è molto da cambiare, nei meccanismi del mercato del lavoro, ma pure qui il discorso è quello delle tasse: non si risolve la questione precarizzando sempre di più il lavoratore debole, ma creando meccanismi che incentivino ad assumere. Se la gente lavora, guadagna; se guadagna, spende; se la gente spende, qualcuno ci guadagna. E così’ via. Adesso, invece, prevale la paura. Lo dice anche una nostra inchiesta. È pericoloso. Combattiamo la paura.

Daniele Tamburini