venerdì, gennaio 20, 2012

Le agenzie di rating, ma chi sono costoro? L’economista Giacomo Vaciago: «Non si sono fatte regole che conciliassero la proprietà privata con l’interesse pubblico»

di Daniele Tamburni
Il declassamento dell'Italia da parte dell'agenzia di rating Standard & Poor's, insieme a buona parte dei Paesi dell’eurozona, ha portato scompiglio e preoccupazione nel mondo della finanza europea, tanto più che circola la notizia di un prossimo declassamento anche da parte dell’agenzia Fitch. Lo stesso governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, nei giorni scorsi ha definito «gravissima» la situazione, spingendosi a dichiarare che «bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating o quanto meno imparare a fare meno affidamento sui loro giudizi» Anche il commissario dell'Unione europea, Olli Rehn, ha accusato le agenzie di rating di essere uno strumento del potere economico statunitense. Abbiamo chiesto un commento a Giacomo Vaciago, professore ordinario di politica economica e direttore dell'Istituto di Economia e Finanza nell'Università Cattolica di Milano.
Nei giorni scorsi, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato ulteriormente l’Italia, a livello BBB+. Può spiegarcene la portata concreta e che cosa significa questo per il nostro Paese?
«Facciamo una premessa. Le agenzie di rating hanno il compito di valutare la qualità di un titolo sulla base di alcune variabili: il bilancio dell'emittente, le sue aspettative economiche, la situazione del Paese, ecc. Queste società, che operano da circa un secolo, valutano centinaia di migliaia di titoli, di Stati, imprese e banche. Le principali sono Standard & Poor's, Moody (che in due detengono circa l'80% del totale dei titoli da valutare) e Fitch (che detiene circa il 5%). Il declassamento dell'Italia è dunque lo specchio di un paese che soffre, questo è palese. I giudizi delle agenzie di rating vanno rispettati e molti fondi di investimento - ad esempio alcuni fondi pensione - per statuto possono investire solo in titoli tripla A e questo fa si che quando esce un downgrading come quello nei confronti dell’Italia o della Francia, le conseguenze sono che questi paesi dovranno pagare tassi sempre più alti per poter vendere i propri titoli (un titolo con livello più elevato paga interessi inferiori rispetto a chi è collocato più in basso). Dunque il declassamento ha portato a un'impennata degli interessi, e quindi del costo del credito. Questo è un problema serio per un paese come il nostro che, come confermano gli ultimi dati, è già in piena fase di recessione».
Quanto sono attendibili i giudizi di queste agenzie?
«Sicuramente non sono infallibili, tanto che nel corso degli anni hanno già fatto parecchi errori: non si sono accorte, ad esempio, che la Grecia imbrogliava da anni, né che Lehman Brothers stava per fallire. Sarebbe necessario un organismo che valuti la loro attendibilità. Il problema è che anche quando sbagliano, provocano conseguenze devastanti. Si verifica un effetto denominato snow-ball: si inizia con una palla di neve, poi diventa una valanga. Nel momento in cui un paese subisce il giudizio negativo è più probabile che succeda ciò che le agenzie hanno previsto e cioè che la situazione peggiori, visto che l’outlook negativo danneggia il paese che lo riceve. Infatti, sulle semplici indiscrezioni di un declassamento dell’Italia da parte di
S&Poor’s, il nostro spread Btp-Bund è aumentato. Se salgono i tassi di interesse, non solo il Tesoro paga di più, ma anche le aziende italiane pagheranno ildebito più caro».
Spieghiamo qualcosa di queste agenzie di rating: cosa rappresentano? Da chi sono governate? per quale motivo hanno tanto potere?
«Le abbiamo fatte diventare importanti nel momento in cui si è voluto promulgare una serie di leggi che hanno dato un forte peso al loro giudizio, ufficializzando le pagelle che esse danno ai titoli che possono essere oggetto di acquisto. Questo potere però è venuto senza un'adeguata riflessione sulle conseguenze, quando c'era la necessità di semplificare il sistema e di valutare la bontà dei titoli. Inizialmente erano un po' come le graduatorie fatte dai numerosi enti di ricerca, come l'ultima che è uscita sul gradimento dei sindaci.  Quest'ultime però non hanno un grande peso. Le valutazioni delle agenzie di rating invece hanno un peso enorme, perché portano a conseguenze dirette davvero forti».
In queste vicende, si adombrano conflitti di interesse molto consistenti all'interno del potere finanziario ed economico: lei cosa ne pensa?
«Da più parti sono state mosse critiche in questo senso, anche perché le agenzie di rating sono enti di matrice americana a controllo anglosassone. A questo proposito si era auspicato che l’Ue promovesse le sue di società di rating in modo che fossero più controllabili. Poi però non se ne fece nulla. A Bruxelles è ancora aperto un dibattito per sottoporre a una vigilanza le stesse agenzie. Quello che ci si chiede è: chi dà il rating alle agenzie di rating? Per quanto riguarda i conflitti di interesse, in ogni caso, si possono solo sospettare, ma non ci sono chiare evidenze di ciò. Ad esempio la notizia del downgrading dell'Italia era trapelata prima che venisse fatto l'annuncio ufficiale, ed è probabile che qualcuno ci possa aver guadagnato...».
Si può quindi sostenere che queste agenzie abbiano un ruolo al di sopra delle parti ed una visione oggettiva delle cose?
«Per essere una realtà davvero "super partes", dovrebbero essere pubbliche. Invece, nonostante il peso che hanno le loro valutazioni, sono comunque soggetti privati. Moody, S&P e le altre sono figlie delle liberalizzazioni degli anni ottanta, quando era in voga lo slogan: “privato è meglio”. A quell'epoca si è privatizzato tutto in modo indiscriminato, senza prima fare delle regole che conciliassero la proprietà privata con l'interesse pubblico. E ora se ne pagano le conseguenze».
S&P ha declassato non solo l’Italia, ma anche altre realtà europee: è un attacco all'Eurozona? Quali potranno essere le conseguenze?
«Questo declassamento di diverse aree dell'Europa rappresenta un modo di lavorare abbastanza diffuso, basato sull'assunto che essendo gli stati europei realtà interdipendenti, per fare una valutazione corretta bisogna guardare all'intero. In sostanza, se in certi paesi vi sono problemi, essi si riflettono anche nelle realtà che hanno legami economici con tali paesi. Ad esempio l’Austria ha perso il rating tripla A di Standard & Poor a causa dei suoi legami con la vicina Italia, suo secondo più grande partner commerciale, e per l’Ungheria, dove le banche del paese alpino, sono i più grandi istituti di credito. Nessun attacco all'Europa, quindi, ma solo una valutazione il più possibile complessiva. Tutto ciò, in ogni caso, complica notevolmente la vita ai governi europei: non siamo ancora in vista di uno spaccamento, ma sicuramente la situazione non è delle migliori».
Da tutto questo, chi uscirà più forte e chi, invece, ne sarà indebolito?
«La maggiore evidenza è che i paesi periferici soffrono la situazione, mentre la Germania ne gode. Paradossalmente, infatti, la Germania è favorita dagli altri downgrading. L’out look negativo di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, il 19 settembre, ha giovato alla Germania che si è indebitata senza tassi d’interesse. Il costo del debito tedesco si è ridotto in questi mesi e questo fa bene alla sua economia. Dunque S&P per ora ha fatto un favore alla Merkel, con la conseguenza di qualche disoccupato in meno in Germania e qualche disoccupato in più in Italia o Francia».

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