venerdì, dicembre 30, 2011

Al peggio non c’è mai fine. Ma ce la faremo

È diventata un’espressione celebre piuttosto recentemente, quando la regina Elisabetta II d’Inghilterra la usò per definire un’annata particolarmente nefasta per la sua famiglia: “Annus horribilis”. Tra parentesi, si intitola così uno degli ultimi libri di Giorgio Bocca, il grande giornalista recentemente scomparso. Ma non userò questa espressione, no. Per un motivo puramente scaramantico: c’è un proverbio che recita “al peggio non c’è mai fine”. Certo che, forse non orribile, ma duro e drammatico lo è stato certamente, questo 2011 che domani ci lascia. La crisi mondiale ha martellato la nostra economia, le nostre produzioni, i nostri servizi, la nostra finanza pubblica, le nostre finanze private. Abbiamo subito manovre su manovre, ci siamo chiesti perché dovevano pagare i costi della crisi solo i soliti noti, perché non si cercasse di stanare, con serietà e rigore, chi non ha mai pagato? Domande – per ora – senza risposta. Abbiamo assistito alla messa in questione di realtà che sembravano rocce intoccabili: l’Europa, l’euro. Per quanto riguarda la scena istituzionale, le Province. Silvio Berlusconi, travolto da una crisi rispetto alla quale dava segnali di impotenza, ha perso la premiership. Le liti tra le forze politiche di maggioranza erano ormai all’ordine del giorno, c’era una frattura insanabile tra il capo del governo ed il ministro dell’economia – con tanto di minacce incrociate, neppure tanto velate. Abbiamo osservato le prime mosse del governo Monti, un governo “tecnico”, appeso ad alchimie parlamentari e sostenuto più dalla paura che dalla convinzione. La Lega si è sfilata e grida, come se avesse passato tutti questi anni all’opposizione. E cosa ha fatto, il governo “tecnico”? Interventi su tassazione, pensioni, eccetera. Ancora non sappiamo niente di preciso sulle – annunciate – misure per la crescita. Ci speriamo davvero. È stato l’anno dello strapotere delle agenzie di rating, dello spread, degli speculatori, e anche del picco della disoccupazione giovanile. È quasi imbarazzante, dire ai propri figli: studia, impegnati, lavora. Pare che lo strapotere dei furbi non abbia limiti, e a chi furbo non è, per convinzione etica o per caso, restano paure e incertezze. I giovani rimangono la speranza per la rinascita di questo paese, ora ancor di più dal momento che rifiutano l’informazione delle Tv e si sono impadroniti della rete. Come nel voto primaverile ai referendum e alle amministrative, eventi che hanno rilanciato la voglia di partecipazione, di far sentire la propria voce; hanno alimentato la speranza di cambiamento. Non solo la speranza: ma la precisa cognizione che, quando c’è da decidere consapevolmente del proprio futuro, la partecipazione politica non è morta, anzi. Forse lo è nelle varie buvette, transatlantici, corridoi dei passi perduti, anticamere dei ministeri, delle istituzioni ad ogni livello: non quando c’è da decidere della nostra Terra, della nostra acqua. E qui giungono altre dolenti note. Anche qui a Cremona, liti nella maggioranza di governo della città. Anche qui, una rottura ormai pare consumata tra Pdl e la Lega cremasca in Provincia. L’occasione, proprio l’acqua. Il Sindaco ed il Presidente della Provincia hanno perso il loro smalto iniziale e ormai, danno l’impressione di navigare a vista. Io, che vengo da una città di mare, faccio loro tanti auguri: non è facile navigare così. L’opposizione, in questo quadro, ha vita più facile. Certo, se non riproduce le mosse “romane” e dei dintorni: qualcuno ha ancora in mano la conta delle varie posizioni, o anime, o correnti che dir si voglia, del Pd? Io ho un po’ perso il filo. Punto. Accapo.
Chiudo con le parole del presidente Napolitano: “Quel che preoccupa è il seminare motivi di sterile conflittualità e di complessivo disorientamento in un Paese che ha invece bisogno di confermare e rafforzare la fiducia in se stesso”.
Auguri di un sereno 2012. Ce la faremo, a dispetto dell’anno bisesto, dei Maya, dello spread e de li mortacci loro.

Daniele Tamburini

venerdì, dicembre 23, 2011

Intervista alla sociologa Chiara Saraceno: «I servizi non sono solo una spesa, ma anche un investimento»

di Daniele Tamburini

La manovra Monti tocca in profondità la vita e le condizioni di molti, ma in particolare delle donne. Un elemento per tutti: l’allungamento dell’età pensionabile. Questo riguarda ovviamente le donne inserite nel mercato regolare del lavoro, mentre a livello generale è rilevante (e lo è soprattutto nel Mezzogiorno) la mancanza di domanda stessa di lavoro, unita alla scarsità dei servizi di cura. E, sempre nel Mezzogiorno, sono concentrate le cosiddette “inattive”, ovvero coloro che non si presentano neppure nel mercato del lavoro. La situazione è molto pesante: ci sarebbe necessità di misure di sostegno, di servizi, di percorsi formativi importanti. Soprattutto, ha scritto Chiara Saraceno, ricadono sulle famiglie italiane tutti i problemi di cui, nella maggior parte dei paesi, si fa carico lo stato sociale: dalla povertà alla dipendenza in età anziana, dalla disoccupazione giovanile alla cura dei bambini piccoli quando la madre lavora. “Il ruolo della solidarietà famigliare, sempre importantissimo nel nostro welfare debole e squilibrato, è uscito indubbiamente rafforzato dalla riduzione dei trasferimenti agli enti locali, quindi delle risorse per i servizi alla persona, così come dalla riduzione dell’offerta educativa della scuola pubblica in termini di contenuti e di tempo. È stato rafforzato anche dal mancato adeguamento del sistema di protezione sociale a un mercato del lavoro flessibile, dove la precarietà e la disoccupazione colpiscono soprattutto i giovani”. Su questi temi, abbiamo rivolto alcune domande alla professoressa Chiara Saraceno. Già docente ordinario di sociologia della famiglia presso la facoltà di scienze politiche di Torino, attualmente è professore di ricerca al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino. E' stata presidente della Commissione di indagine sull'esclusione sociale dal 1999 al 2001. Dal 2000 al 2001 ha rappresentato l'Italia nel Social Protection Committee della UE. Collaboratrice di “la voce.info”, si occupa di temi che riguardano la famiglia, i rapporti tra le generazioni, i rapporti e le disuguaglianze di genere, la povertà e sistemi di welfare. 
Professoressa Saraceno, tra le conseguenze della crisi e delle risposte predisposte dal Governo, e dai precedenti Governi, ha indubbiamente un peso particolare la situazione delle donne. A loro, infatti, si demanda la cura del cosiddetto welfare familiare, ma precarietà lavorativa, da un lato, e lo spostamento dell'età pensionabile, dall'altro, paiono stringere in maniera sempre più pressante i tempi di vita delle donne. Qual è il suo parere? 
L' innalzamento dell'età pensionistica per le donne, come per gli uomini, dovrebbe essere accompagnata da una riforma degli ammortizzatori sociali che garantisca il reddito a lavoratori anziani che perdono il lavoro e non ne trovano facilmente un altro, specie nella congiuntura attuale. Per quanto riguarda specificamente le donne, dovrebbe essere accompagnata da un rafforzamento dei servizi alla persona. Invece tali servizi, già insufficienti, rischiano di essere ulteriormente ridotti a causa dei tagli dei trasferimenti agli enti locali. Occorrerebbe pensare che i servizi non sono solo una spesa, ma anche un investimento: creano domanda di lavoro, consentono alle donne di stare nel mercato del lavoro e sono un fattore di equalizzazione delle opportunità per i bambini e le persone non autosufficienti».
Si fa spesso riferimento all'Europa, per dire che era necessario riallineare, per esempio, i tempi delle pensioni. Ma qual è, in realtà, il quadro dei servizi europei per le donne e per le famiglie?
«Il quadro europeo è molto differenziato. Ma possiamo osservare che l'Italia ha uno dei congedi genitoriali meno generosi, specie dal punto di vista della remunerazione, e un tasso di copertura offerto dai servizi per la
prima infanzia tra i più bassi in Europa, anche se con forti differenze territoriali. In ogni caso l'Europa, con l'agenda sociale per il 2020 e anche con la famosa lettera di quest'estate, ci chiede di sostenere l'occupazione femminile anche con misure di conciliazione».
Le donne, comunque, sanno esprimere una grande forza, anche e soprattutto in tempo di crisi. Ma a questa forza va dato spazio e voce. Possiamo pensare, non diremmo in termini ottimistici, ma comunque che la forza delle donne e la loro capacità di creare legami e relazioni possa essere una strada per uscire dal tunnel?
«Non condivido una visione salvifica delle donne. Penso che avere molte più donne nei posti dove si decide arricchisca i punti di vista, le prospettive, gli interessi di cui tenere conto, modificando posizioni cristallizzate e unilaterali. Ma anche tra le donne ci sono posizioni e punti di vista

Il potere politico è arrogante quando vuol convincere che l’interesse di pochi corrisponda all’interesse di tutti

La ministra Fornero ha scoperto che, in Italia, si guadagna poco. E male. Siamo, sotto questo aspetto, al 22° posto nella classifica dei 34 Paesi industrializzati. In compenso, “godiamo”, si fa per dire, di un alto prelievo fiscale e contributivo, di almeno 11 punti superiore rispetto alle medie OCSE. Non male. Ci dicono che è alto il costo del lavoro per unità di prodotto: cioè, esiste un grave deficit di produttività. Non siamo competitivi. Ed è qui che si dovrebbe, ci dicono ancora, intervenire per favorire la ripresa. Intervenire sì, ma seriamente. La parola “serietà”, però, non trova casa tanto facilmente qui da noi. Qui da noi in Italia, qui da noi a Cremona. Facciamo un esempio: è serio che si voglia proseguire imperterriti sulla strada della società mista per la gestione dell’acqua? Scusate, forse ci ripetiamo, ma non c’è stato un referendum che ha detto no, l’acqua deve essere pubblica? Non si scherza con la democrazia. Il potere politico diventa arrogante, quando non rispetta le scelte popolari; quando se ne infischia delle maggioranze, quando vuol convincere che l’interesse di pochi faccia l’interesse di tutti. Il fatto è che le persone brave nel riuscire a far credere, sono poi quelle che eleggiamo. Quelli meno bravi si riconoscono subito: basta osservarli con attenzione. Come certi sindaci che, costretti per dovere di appartenenza politica a schierarsi a favore della gestione mista, una volta intervistati, non riescono a nascondere il proprio imbarazzo. Il presidente Salini invece è molto bravo, e nell’intervista che pubblichiamo, prende spunto dal forte ridimensionamento delle Province – quasi una sparizione – previsto dalla manovra Monti, per dire: le risorse pubbliche, ormai, sono talmente scarse, che è impensabile pensare alla gestione pubblica di beni e servizi. Sono talmente scarse che – pare si possa leggere tra le righe – è inevitabile che certi enti spariscano, e venga favorito, in taluni casi, il privato. Non siamo d’accordo. Io non ho visto grandi vantaggi nella privatizzazione dei servizi pubblici. Voi? Noi tutti speriamo, invece, che la crisi e l’assenza di risorse possano risolversi per il meglio ed è per questo che tenacemente lavoriamo e ostinatamente ci impegniamo con tutte le nostre energie. Le ferite alla democrazia, quelle no, non si risolvono. E’ ora di dire basta.
Buon Natale a tutti.
Daniele Tamburini

venerdì, dicembre 16, 2011

Intervista a Maurizio Landini, segretario generale della Fiom: «Bisogna intervenire sulle ragioni che hanno determinato la crisi» «Colpiti quelli che la crisi la pagano da sempre»

di Daniele Tamburini 
Signor Landini, una domanda sulla manovra Monti: la Cgil, ma anche le altre sigle sindacali, dicono che, ancora una volta, pagano i soliti noti. Vuol spiegarci perché ?
«La manovra decisa dal Governo di Monti colpisce i soliti noti, quelli che la crisi la pagano già da anni. Abbiamo assistito da tempo ad una redistribuzione senza precedenti della ricchezza a danno di chi lavora. Se chi lavora onestamente è povero, non arriva a fine mese, vuol dire che l’ingiustizia sociale ha raggiunto limiti intollerabili. In più c’è tutto il problema dei giovani e del lavoro precario. La manovra non affronta i problemi e i motivi che hanno determinato questa crisi, è fortemente iniqua perché fa cassa andando a colpire le pensioni, i redditi da lavoro. Inoltre ha un effetto depressivo, che non rilancia i consumi interni e, quindi, la produzione. E, intanto, la cassa integrazione aumenta, come anche il numero di aziende che chiudono. Io credo che non ci fosse bisogno di fare questo disastro. Sono totalmente contrario, perché dire che si cancellano le pensioni di anzianità e che uno dopo 41 anni di lavoro non ha diritto di andare in pensione e se ci va viene penalizzato, credo che sia un cosa che non sta in piedi.
Quali altre misure potrebbero essere adottate?
«Bisogna ricostruire una giustizia sociale che è venuta meno. Anche nell'emergenza, il Governo poteva fare altre scelte. Chi impediva di istituire una patrimoniale, di far pagare di più a chi possiede di più, di affrontare con durezza l'evasione fiscale, di ridurre gli stipendi dei parlamentari e dei manager? E’ normale varare una manovra così pesante e, contemporaneamente, dare a Guarguaglini una buona uscita di 5,5 milioni di euro? E’ il momento di far pagare chi non l’ha mai fatto. Secondo i dati ufficiali, nel nostro Paese l'evasione raggiunge i 120 miliardi di euro. La manovra del Governo è recessiva e non mette in campo azioni che siano in grado di mettere al centro l’obiettivo del lavoro, dell’occupazione e di un nuovo modello di sviluppo».
Veniamo nello specifico al suo comparto, cioè la Fiom, e la lotta, che oramai dura da tempo, contro il cosiddetto "modello Marchionne", imposto dalla Fiat. Lei dice: i diritti dei lavoratori e i diritti sindacali non sono comprimibili. Marchionne è uscito da Confindustria, ha disdettato il contratto in essere e minaccia, nei fatti, di lasciare l'Italia. Come è possibile uscire da questa impasse?
«L’estensione del modello Pomigliano a tutto il gruppo Fiat e ai suoi 86mila lavoratori rappresenta un attacco
ai diritti, alle libertà e alla democrazia perché sancisce la cancellazione del Contratto nazionale e l’esclusione della Fiom-Cgil, il sindacato maggiormente rappresentativo in Fiat e in tutto il settore manifatturiero, dal gruppo. Non è l’azienda che può scegliersi il sindacato, sono i lavoratori che si scelgono i loro rappresentanti. Il tutto avviene senza aver ricevuto alcun mandato dai lavoratori. Nessuno ha chiesto ai dipendenti dell’Iveco, della Ferrari, della Maserati se volevano uscire dal Contratto nazionale e peggiorare le
loro condizioni. Inoltre, Fim e Uilm hanno ceduto al ricatto della Fiat, accettando di ridursi a sindacati aziendali e corporativi, abdicando così alla loro storia di sindacati confederali. Pensiamo che il Governo non possa stare a guardare perché l'accordo non dice nulla degli investimenti nel più grande gruppo industriale del nostro Paese e perché mette in discussione le libertà sindacali garantite dalla Costituzione. Con questa manovra, così come sta facendo la Fiat, non si affronta il problema della crescita e degli investimenti. La Fiat sta cancellando i contratti, non fa investimenti, aumenta la cassa integrazione e chiude stabilimenti».
Come vede il futuro del nostro Paese?
«Tutti gli esperti dicono che il 2012 sarà un anno peggiore di questo. Bisogna intervenire sulle ragioni che hanno determinato la crisi, ripensare un nuovo modello di sviluppo che sia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale. Ripensare sia le produzioni, che il prodotto. In questi anni le imprese per anni hanno usato i profitti per fare speculazioni e non investimenti. E’ necessario invertire questa tendenza puntando sullo sviluppo e sulla ricerca, anche partendo dall’Università. Inoltre, è fondamentale rimettere al centro il contratto nazionale come elemento di unità e di tutela, anche delle stesse imprese. Altro punto fondamentale è ripensare il sistema del welfare, combattendo la precarietà. Altrimenti, la competizione si giocherà sulle
condizioni di lavoro invece che sulla qualità dei prodotti».

Non chiedete a Monti una politica di sinistra.

Il governo Monti ha fatto presto, specie se si considerano i tempi della politica italiana: nonostante le proteste, le sconfessioni, i veti incrociati, la manovra è stata partorita e presto sarà presentata per il voto in Parlamento, forse con la fiducia. Nel frattempo, ne abbiamo sentite di tutti i colori. Alcune cose le capisco: per esempio, è ovvio che i sindacati condannino quella parte, che è davvero pesante, riguardante gli interventi sulle pensioni. Loro fanno il loro mestiere, che è quello di tutelare chi lavora. E anche Monti fa il suo mestiere, che è quello, in questo momento, di rimettere insieme i cocci di un’Italia messa proprio male. A questo proposito, mi viene in mente Manzoni che parlava della misera sorte di un vaso di coccio stretto tra vasi di ferro; ma se un vaso di coccio urta contro altri, fatti di altrettanto coccio, il risultato è lo stesso: va in frantumi. Fuor di metafora, se in Europa non ce n’è uno che stia davvero bene, questo però non vuol dire che mal comune faccia mezzo gaudio, anzi. E il mestiere di Monti, intanto, non era e non poteva essere quello di fare riforme epocali, ad esempio la patrimoniale. Alcuni mi dicono: ”Monti mi sta deludendo, dovrebbe essere più duro e intransigente… “Intanto, Monti risponde ad un Parlamento che è sempre quello, votato dal Paese, espressione di realtà sociali, economiche e politiche ben precise. Non chiedete a Monti di fare una manovra di “sinistra”, non è la persona giusta. Se mai i partiti di sinistra dovessero vincere le prossime elezioni, a loro dovrete chiedere. Ripeto: la maggioranza degli italiani ha votato questo parlamento, e Monti deve ovviamente tenerne conto. Ma, se il mandato popolare è sacrosanto, allora lo deve essere in tutti i campi e in tutti i pronunciamenti. Se un referendum molto partecipato si è espresso chiaramente contro la gestione privatistica dell’acqua, vorremmo dire al presidente Salini che non è molto corretto, forse, cercare di aggirare tale scelta, chiara e univoca. Si adombrano già sospetti: “A chi giova?” E dunque, a ciascuno il suo: a Monti le misure da presentare ad un Parlamento che, fino a pochissime settimane fa, sosteneva il centro destra di Silvio Berlusconi, a Salini il compito di rispettare le scelte del popolo sovrano e di 102 sindaci.

Daniele Tamburini

venerdì, dicembre 09, 2011

La manovra in pillole… anzi, in supposte

“Gli italiani capiranno”. Certo che capiscono, presidente Monti. Capiscono, e pagano: qualcuno di più, qualcuno di meno, mentre, ancora in troppi, non pagano affatto. Gli italiani capiscono da tanto tempo. Intanto, lo spread rimane altalenante. Ha detto ancora Monti: “I mercati sono delle bestie feroci utili, ma sbilanciate... Dobbiamo domare i mercati, non demonizzarli”. Ci chiediamo, a questo punto, se in prima linea come domatore debba starci, tanto per fare un esempio, chi ha lavorato una vita e magari percepisce oggi 1.400 euro di pensione, e vede bloccato il meccanismo di rivalutazione. Davvero uno spettacolo plastico: da una parte i mercati mondiali della globalizzazione, dall’altra, il piccolo pensionato da 1.400 euro il mese, con cui, spesso, aiuta figli e nipoti. Magari anziano e un po’ malandato. Non è male. Intanto, la manovra ha risuscitato l’unità sindacale: sono annunciate ore e giornate di scioperi unitari. È ovvio: comunque la si pensi, la stretta sulle pensioni comporta sacrifici durissimi. Ci sono uomini e donne che, da un giorno all’altro, si trovano a dover andare in pensione ben cinque anni dopo quanto avevano previsto. Non è poco. Lo dico io che, da questa manovra forse, ne avrò un piccolo vantaggio venendo meno quella che era definita “la finestra”. Si sa, soprattutto per le donne è dura: siamo in Italia, sappiamo bene come vanno le cose, sono le donne a sostenere il peso maggiore di figli, anziani, lavoro domestico eccetera. Sarà durissima. Certo, Monti non ha una maggioranza parlamentare sua, e Berlusconi è sempre lì, con tutti i suoi pesanti veti, soprattutto sulla patrimoniale: ma le spese per i caccia F35 e lo scandalo delle frequenze digitali TV, che valgono 16 miliardi, ma che vengono in pratica regalate, su questo forse, si può provare ad agire magari dicendo a chi protesta: “Abbiamo già dato, hai già avuto”. Invece, torniamo all’immagine iniziale: pensionato vs mercati. E l’elusione? E la corruzione? A proposito di corruzione: brutta storia quella della discarica di Cappella Cantone; attendiamo che la giustizia faccia il proprio corso… fino in fondo. Tornando alla manovra certo, come scrive il professor Manasse, non potevamo pretendere che, in diciotto giorni, Monti facesse ciò che i governanti, Berlusconi in testa, non hanno fatto in diciassette anni. Il giudizio finale sulla manovra? Dipenderà dai risultati. Intanto, per la supposta, conviene stare molli.

daniele.tamburini@fastpiu.it

«La patrimoniale? Ora è tardi» Pietro Modiano, presidente di Nomisma: «Sarebbe stata efficace se adottata in maniera preventiva»

di Daniele Tamburini
Metter i conti in ordine: è una priorità. Ma, soprattutto, è fondamentale far ripartire la crescita, del prodotto e della produttività. La manovra del governo Monti va in questa direzione? Le “lacrime e sangue” che contiene, saranno efficaci? Lo abbiamo chiesto all’economista Pietro Modiano.
Modiano ha ricoperto incarichi di vertice in istituti e fondazioni bancarie e, dallo scorso anno, è presidente di “Nomisma”, società di studi economici che ha sede a Bologna, fondata nel 1981 da Nerio Nesi e Francesco Bignardi, allora presidente e direttore generale di BNL, i quali affidarono a Romano Prodi il compito di organizzarne scientificamente il lavoro di ricerca. Nel corso degli anni, “Nomisma” si è affermata come un’esperienza di punta nel campo della ricerca economica e sociale, capace di una visione interdisciplinare che contempli in modo ampio e organico la complessità delle questioni economiche del nostro tempo. Un vero “think tank”, fucina di professionalità e talenti di eccellenza. Pietro Modiano ha lanciato pubblicamente, mesi fa, con molta determinazione, l’idea di una imposta sui grandi patrimoni: una soluzione strutturale, che andrebbe a toccare la parte più abbiente della società, con un impatto recessivo molto modesto ma capace di dare una forte spinta positiva al rapporto debito-Pil. Ma la patrimoniale, anche nell’emergenza, non è entrata nell’agenda del Governo. Su questo, e su altri temi all’ordine del giorno, abbiamo rivolto alcune domande al dottor Modiano:
Vorrei partire da un elemento presente nel nome della società che presiede, evidenziato sulla pagina web: “Nomisma” – scrivete – è parola che, nel greco antico, indica il valore reale delle cose. Qual è il valore reale delle cose, oggi, nel nostro Paese? Fuor di metafora, quali sono gli elementi ancora sani, robusti, concreti, a cui appellarci per far fronte alla crisi?
«Una su tutte, la manifattura italiana, a differenza di quanto comunemente si pensi. Essa negli ultimi dieci anni ha retto molto bene la concorrenza, se non della Cina sicuramente di tutti i concorrenti europei più diretti, mantenendo su un buon livello la propria quota di mercato rispetto agli altri paesi: basti pensare che siamo secondi solo alla Germania, che aveva imposto una manifattura di grande successo. Ha retto bene alla trasformazione dei modelli di competitività, e continua a dimostrare una grande vitalità. Un settore, dunque, che per noi rappresenta un punto di forza significativo, che si trasforma continuamente nello sviluppo della qualità.»
Il governo Monti è una innegabile rottura con il passato recente. Dopo settimane di incertezze e forti tensioni, ora viene proposta una manovra sulla quale la discussione è accesa, ma che pare incontrare apprezzamento in Europa, nelle Borse e sui mercati. Le critiche, soprattutto dalle parti sociali, si concentrano sulla scarsa equità della manovra stessa, che tocca pesantemente, tra le altre cose, le pensioni, quindi il sistema del welfare. Lei cosa ne pensa?
«Premettiamo una cosa: stiamo parlando di una manovra che pesa per meno di due punti sul Pil. Certo, è notevole, ma ne abbiamo viste di peggio, anche recentemente. Il problema di questa manovra è, appunto, che va ad aggiungersi alle altre due ancora più restrittive, che si sono susseguite quest’anno. L’equità è un concetto fondamentale: una manovra per quanto restrittiva non deve essere troppo pesante, e i sacrifici devono essere distribuiti in modo equo, e questo aspetto mi sembra rispettato, in particolar modo per quanto riguarda la tassa sui capitali che hanno usufruito dello scudo fiscale, da un lato, e la rinuncia all’aumento dell’addizionale Irpef, dall’altra. Scelte che dimostrano che non si può penalizzare solo chi paga le tasse. Naturalmente, è ovvio che per recuperare 21 miliardi aggiuntivi la manovra deve colpire un po’ tutta la società. Nel complesso, sono convinto che questa squadra di governo sia attenta e tempestiva, e abbia i numeri per lavorare bene.»
Veniamo al tema dell’imposta patrimoniale, che lei ha lanciato. Come mai, pur in presenza di molte voci a favore, lo stesso Monti non ha voluto o potuto inserire una patrimoniale come quella da lei delineata? Parafrasando il titolo di un film, chi ha paura della patrimoniale?
«In realtà le voci a favore sono state poche, molte più quelle contrarie. Sulla base di motivazioni anche serie, devo dire, come ad esempio il fatto che una patrimoniale una tantum avrebbe potuto creare un effetto recessivo. A questo proposito avevamo provveduto a conteggiare i possibili effetti, e la recessione sui consumi sarebbe comunque stata limitata. Capisco comunque la prudenza di chi governa. Ricordiamo anche che una misura simile sarebbe stata tanto più efficace quanto preventiva. Infatti ne avevo parlato a luglio, quando lo spread era a 200 punti: in quella situazione sì che sarebbe stata una misura efficace, per togliere benzina dalla speculazione e permettere di fare le riforme con un po’ di tranquillità. Fatto invece nel fuoco della speculazione, un provvedimento del genere sarebbe stato più rischioso che efficace, tanto più che il problema da un livello puramente italiano si è nel frattempo spostato su un piano europeo. Aggiungo infine che un’imposta patrimoniale fortemente progressiva richiederebbe una disponibilità di dati non facile da costruire».
Lei ha recentemente dichiarato che il Paese ha bisogno di luoghi in cui le competenze si uniscano, si aprano alle novità e che ciò si traduca in azioni per le imprese, per le comunità locali e per la politica nazionale. Le misure previste dalla manovra vanno in questa direzione?
«In realtà questo non sarebbe compito della politica, ma delle classi dirigenti, che dovrebbero prendersi questa responsabilità. In questi anni ci sono mancati i luoghi di decisioni asettici e non partigiani sul futuro del Paese. Questo ha contribuito a creare leggende metropolitane come il fatto che la manifattura italiana fosse destinata a scomparire. O l’assenza di previsioni di lungo periodo sulla finanza pubblica. Temi su cui la mancanza di una riflessione scientifica e condivisa ha creato solo problemi. La speranza, ora, è che sia finita quest’epoca di contrapposizione frontale, che non serve a niente. Ora quello che occorre al Paese sono reazioni condivise. Un passaggio che l’Italia ancora non ha fatto, e fatica a portare avanti, come invece è accaduto in molti altri paesi che, usciti da un periodo traumatico, hanno saputo creare una politica condivisa. L’Italia è ancora sprovvista di istituzioni gerarchiche e grandi poli in cui la società civile possa riconoscersi».
I talenti compressi e ignorati dei giovani sono uno dei problemi più gravi del nostro Paese. Che ne pensa?
«La situazione è grave. Il rischio è che almeno un paio di generazioni potrebbero non avere voce in capitolo sul futuro del Paese. L’allungamento dell’età pensionabile, del resto, non favorisce certo l’ingresso delle giovani generazioni nel mondo del lavoro. Anche la graduale scomparsa delle grandi imprese pubbliche e private riduce le possibilità di un giovane di fare carriera, in quanto nelle aziende piccole la carriera è qualcosa di molto ridotto».
Vi sono soluzioni a questa situazione?
«Purtroppo è una malattia complessa, e come sempre in questi casi non vi sono ricette semplici. Servirebbe una classe dirigente più aperta ai giovani, e un paese che ricominci a crescere, creando istituzioni riconosciute a livello internazionale. Bisogna motivare queste generazioni a restare nel nostro Paese. La frammentazione di tutto in piccole cose, come accade in Italia, è nemica della meritocrazia e riduce la capacità di ripresa sociale e il dinamismo».
Dottor Modiano, le faccio la stessa difficile domanda che ho rivolto a tutti gli intervistati: il nostro Paese ce la farà?
«Il Paese ce la sta già facendo. Siamo usciti ancora una volta da una situazione che sembrava senza sbocchi, e abbiamo trovato la strada della coesione nazionale e della consapevolezza complessiva. Naturalmente siamo solo all’inizio, ma ora un po’ di ottimismo mi sento di esprimerlo, cosa che invece qualche mese fa avrei detto impossibile. Il passo successivo sarà tradurre questa coesione nazionale in energia per lo sviluppo collettivo. E non sarà facile».

sabato, dicembre 03, 2011

LA CRISI COME POSSIBILE VOLANO DI CAMBIAMENTO? Intervista a David Benassi, docente di sociologia dell’Università Bicocca

di Daniele Tamburini
C'è crisi e crisi. Ci sono le cosiddette crisi di crescita, quelle che fanno da possibile volano ad una ristrutturazione, ad una revisione, ad un nuovo percorso. D’altronde, il senso originario di “crisi” lo si riscontra proprio nelle azioni del giudicare, del discernere, del valutare e, quindi, del separare. In una crisi è importante separare il grano dal loglio, cogliere ciò che è essenziale e ciò che è superfluo, datato, quando non dannoso. Ma la crisi può innestare, viceversa, un meccanismo depressivo, di blocco e desolazione. È a questo che dobbiamo reagire, cogliendone le potenzialità positive. Ma in quale modo? Lo abbiamo chiesto a David Benassi, docente presso la facoltà di sociologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Professor Benassi, la crisi ha aperto scenari per alcuni versi inediti. Mesi fa non era raro ascoltare interventi che sostenevano una tesi: non tutto il male viene per nuocere, la crisi impone di ripensare i rapporti di produzione, le relazioni sociali, le abitudini familiari, rinunciando a sprechi e fasti, tornando alla sobrietà ed alla misura. Secondo lei, c’è del vero? E ci sono segni dell’inversione di tendenza?
In effetti in passato alcuni grandi mutamenti sono stati favoriti, se non causati, da momenti di profonda crisi:
in un certo senso è come se nelle fasi di crisi venisse "sterilizzato" il potere dei gruppi sociali interessati al mantenimento dello status quo. La costruzione del welfare state britannico dopo la seconda guerra mondiale fu ispirato dal famoso rapporto Beveridge, a sua volta chiara espressione del clima sociale creato dalla partecipazione della popolazione inglese alla seconda guerra mondiale. Per venire all'Italia, la riforma della sanità nel 1978 o le straordinarie manovre di risanamento fiscale dei primi anni '90 furono possibili grazie a situazioni di grave crisi sociale economica. La crisi attuale potrà essere un momento di rinnovamento della società italiana nel momento in cui verranno eliminate le numerose iniquità e asimmetrie sociali diffuse a tutti i livelli. In particolare, molti gruppi sociali godono di rendite di posizione ereditate decenni or sono che non hanno più alcuna ragion d'essere, e che anzi soffocano le capacità di rinnovamento sociale, economico e culturale. Eliminare queste rendite di posizione è il primo e più importante passo che è necessario fare, e
che la crisi in effetti può favorire. 
Altro tema da ripensare: il ruolo delle istituzioni e dei partiti. Partiamo dalle prime sembrano messe sotto scacco, in tutta Europa e non solo, dai movimenti dei mercati, del capitale finanziario, dalle agenzie di rating, che dettano l’agenda ai Governi..
Sicuramente la sovranità nazionale come era intesa nel '900 è sotto pressione da parte di spinte sovranazionali molto forti: lo stesso tentativo di costruire un'entità politica europea alla quale io singoli Stati hanno delegato alcune delle proprie prerogative può essere visto come un tentativo di costruire un soggetto politico più forte per resistere a queste pressioni. Anche in questo caso, personalmente non penso che sia necessariamente negativo: si indebolisce la capacità delle strutture statali di controllare i propri cittadini, i quali possono aprirsi a influenze politiche e culturali più ampie. E' però anche vero che l'"anarchia" del sistema, cioè la difficoltà a regolare alcuni processi globali, tende a crescere, con possibili rischi di degenerazione di fenomeni destabilizzanti. Il contagio del collasso finanziario da un paese all'altro, in assenza di istituzioni sovranazionali sufficientemente forti in grado di intervenire, è un esempio evidente di questi rischi.
Invece, cosa sono i partiti, oggi?  Una cosa pare emergere: i partiti non sembrano più in grado di esprimere, o di mediare, ciò che si muove a livello profondo nella società. Non a caso, gli “indignados” cercano altri veicoli di espressione. Lei cosa ne pensa?
Il partito è una forma di organizzazione e rappresentanza degli interessi che ha svolto una funzione determinante, in Italia come negli altri paesi democratici, fondamentale soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Mi sembra altrettanto chiaro che è oggi del tutto inadeguato ad aggregare una domanda di rappresentanza sempre più frammentata e mutevole. Almeno nella loro forma classica, credo non abbiano un grande futuro. Vedo però anche il rischio della deriva demagogica di movimenti puramente di protesta, che non hanno quindi una capacità di elaborazione di una proposta politica profonda e operativa. Non sono molto ottimista sulla capacità delle strutture democratiche di rinnovarsi profondamente, ma mi auguro che in qualche modo ci si riesca.
Le rivolgo una domanda difficile: ne usciremo?
Ne usciremo sicuramente, ciò che è importante è vedere come ne usciremo. Il rischio è quello di un declino più o meno lento (che per altro a mio parere è iniziato da tempo) che metta ai margini del mondo dinamico e ricco. Spero che si riesca a innescare un rinnovamento che apra spazi di azione a favore delle generazioni più giovani. Mi sembra infatti evidente che le spinte al rinnovamento possano arrivare solo da coloro che non hanno interesse al mantenimento dello status quo. I giovani fino ad oggi hanno sopportato tutti i costi di questa situazione, non c’è che da augurarsi che riescano ad occupare posizioni chiave nella politica, nell’economia e nella società in generale. Solo così, a mio parere, sarà possibile immaginare un’Italia nuovamente in crescita.

venerdì, dicembre 02, 2011

2012, avevano ragione i Maya?

L’altro giorno ho fatto mente locale: siamo quasi nel 2012. Già 15 anni fa avevo letto un libro sull’ipotetica fine del mondo legata al compimento del calendario Maya. Mi viene da sorridere. Vi ricordate? Pagine di giornale dedicate a questa annunciata Apocalisse, serie opinioni di sociologi, massmediologi, religiosi, e fantasie varie di maghi e studiosi dell’occulto. Chi avrebbe potuto pensare che saremmo arrivati non dico alla fine del mondo, ma insomma, ad una modificazione talmente profonda della realtà a noi consueta, tale da poter sembrare davvero una piccola fine del mondo? Ma davvero, citando una canzone ripresa dal Liga, è la fine del mondo per come lo conosciamo? Siamo a rischio recessione ammonisce, oggi, il neo ministro Corrado Passera. E noi cosa percepiamo, quotidianamente? Una forte contrazione dei consumi, stili di vita obbligatamente diversi, derivanti dalla notevole diminuzione di denaro in circolazione. E, a livelli più alti? La finanza, le banche, le agenzie di rating che sembrano dominare anche sull’azione stessa dei governi. Ci si pongono ormai domande sul senso stesso delle parole democrazia e rappresentatività. L’Europa che non dà una grande prova di sé, e giungono al pettine molti nodi strutturali: avere un Parlamento europeo non è sufficiente, se questo non riesce ad esprimere un vero livello di governo. Allora, che cosa ci aspetta: esplosione o implosione? Una saturazione tale di rabbia e difficoltà che porterà a piazze in rivolta, o un lento affievolirsi, un declino triste, come quello di una stella supernova che si spegne? Ben poco di stellare si vede invece, in questi giorni, nella vita politica di Cremona: anche qui, esplosione o implosione? Crisi in Comune, uscita della Lega dalla maggioranza, il gran finale col botto, cioè le elezioni anticipate, o un lento continuo affievolirsi delle funzioni di governo locale, sempre sul filo del rasoio, il trascinarsi fino alle prossime amministrative? Si sta come d’autunno, sugli alberi le foglie.

venerdì, novembre 25, 2011

Intervista al criminologo Ernesto Savona. UNA REAZIONE FOLLE, SPROPOSITATA

di Daniele Tamburini
Una storia di ordinaria follia. Ricordate: Charles Bukowski scrisse quei racconti in modo crudo e mirabile. Esplosioni di violenza, rabbia, e una grande tristezza di fondo: «Ero a terra, la fortuna m’aveva abbandonato un’altra volta […] ero troppo nervoso,[…] debole, stralunato; ero troppo depresso». E davvero, la vicenda dell’omicidio del signor Gremmi pare quasi letteraria, quasi scaturita da un autore dalla penna disperata e cinica. Balza subito agli occhi una sproporzione gigantesca: l’offesa (presunta), il torto (presunto) ricevuti, che scatenano la furia omicida. Eppure … vi ricordate di Michael Douglas, interprete straordinario del film “Un giorno di ordinaria follia”? preso dai suoi problemi quotidiani, familiari, di lavoro, esasperato dal traffico e dai mille intoppi che ogni giorno incontriamo, il protagonista del film si trasforma in un violento giustiziere, seminando terrore e morte. Fantascienza, penserà qualcuno. Eppure è accaduto, in un certo senso. Abbiamo chiesto un'analisi della vicenda a Ernesto Savona, ordinario di criminologia nell'Università Cattolica di Milano e direttore di Transcrime (Centro inter-universitario di ricerca sulla criminalità transnazionale dell'Università di Trento e dell'Università Cattolica di Milano). 
Quanto accaduto ci pone di fronte a una riflessione sulla violenza, che sembra sempre più dilagante... 
«In realtà al giorno d'oggi c'è meno violenza rispetto a un tempo. I delitti violenti vanno diminuendo nel corso degli anni, salvo concentrarsi in alcune fasce d'età, come i giovani, o in certi paesi. La verità è che oggi i mezzi di comunicazione sono talmente numerosi da creare un effetto moltiplicatore. Questo, unito al fatto che oggi siamo più vulnerabili, aumenta la percezione che si ha di vicende di questo tipo. Accade che stiamo diventando più civili ed educati; di conseguenza il ricorso alla violenza diventa residuale». 
Che dire della causa che ha scatenato la violenza, in questo caso? 
«La macchina è sempre stato un oggetto di grande valore simbolico, specialmente per gli uomini, che considerano l'auto spesso più importante della propria moglie. Dunque offendere una persona attaccandone l'auto porta a una reazione forte. Così come è accaduto nel caso specifico: la vittima ha aggredito l'auto dell'omicida, scatenandone la reazione. Basti vedere quanti Suv si vedono in giro ultimamente, acquistati non per necessità di raggiungere luoghi impervi, ma perché questo tipo di auto da un senso di potenza e sicurezza. Sono auto che si mettono in mostra tanto che di solito sono sempre parcheggiate in posti in cui sono ben visibili. Dunque, nel caso in oggetto, la persona si è sentita provocata nel proprio io, e ha reagito nel modo peggiore». 
In casi come questo è palese la sproporzione tra il motivo del contendere e la tragica conseguenza. Da cosa dipendono reazioni di questo tipo? 
«Per capire questi gesti bisogna inquadrare la persona, capire se esiste una certa propensione alla violenza e conoscere il background culturale in cui la persona vive, o se esistono dei precedenti analoghi. In casi come questo non esiste mai una proporzionalità tra causa ed effetto. L'omicida ha reagito in maniera eccessiva a una provocazione che lui ha vissuto come qualcosa di grave. E' una reazione "da manuale" da parte di chi si trova ferito nel proprio io: si cerca di recuperare la propria dignità da parte di chi l'ha lesa.>>
È possibile che, nella reazione dell’omicida, si possa ravvisare anche l’assenza di rispetto, di pietas verso chi è in situazione di debolezza? 
«Non in questo caso, visto che la discussione è nata tra due persone entrambe anziane, e quindi categoria debole. Gli avvocati punteranno su una reazione emotiva preterintenzionale. Tuttavia un gesto di questo tipo avrà probabilmente conseguenze penali notevoli, anche a causa dell'aggravante dei futili motivi». 
A proposito di futili motivi, quali anticorpi sociali possiamo attivare per prevenire vicende di questo tipo? 
«La prevenzione reale è più importante della condanna del colpevole. E l'unica prevenzione la può attuare solo la potenziale vittima, cercando di evitare di trovarsi in simili situazioni. Questo vale soprattutto quando si è in strada, in caso di incidente stradale o comunque in situazioni in cui si potrebbe arrivare a discutere; in casi come questi non si conosce la persona con cui ci si confronta, che potrebbe essere violenta. Per questo motivo, in un situazione di incertezza, è sempre meglio evitare l'alterco. Importante è cercare di capire la personalità di chi ci sta di fronte, e reagire con prudenza. Per questi motivi risulta particolarmente importante educare alla mentalità non violenta: se non c'è modo di recuperare la persona violenta, che è una mina vagante pronta ad esplodere, bisogna educare le potenziali vittime alla prudenza e ad evitare le provocazioni».

Intervista a Fabio Antoldi: "Bisogna stimolare un’imprenditoria innovativa»

Viviamo una crisi che molti economisti definiscono la peggiore da un secolo a questa parte. I problemi sono molti: il debito pubblico, la crisi occupazionale, che ovviamente riduce la capacità di spesa e quindi i margini di mercato, la situazione del credito e, ora, anche l’inflazione, in crescita dopo l’aumento dell’Iva. La crescita, sottolineato preoccupato il professor Antoldi nell’intervista che pubblichiamo, nel 2012 potrebbe essere pari a zero. In questo contesto, è chiaro che la preoccupazione sia forte, anche se non si manca di sottolineare, da parte delle associazioni di categoria e della stessa Camera di Commercio, la presenza di alcuni contesti di segno non del tutto negativo. «Il tessuto economico territoriale si caratterizza per un imprenditorialità legata al fattore produttivo tradizionale, e in particolare al manifatturiero» spiega Fabio Antoldi, docente di strategia e politica aziendale dell'Università Cattolica di Cremona e codirettore del Cersi (Centro di ricerca per lo sviluppo imprenditoriale). «I più grossi contributi arrivano dal metalmeccanico e dall'agroalimentare, parallelamente a una forte crescita del metallurgico. Togliendo quest'ultimo caso, dovuto per lo più allo sviluppo di un gruppo forte e internazionale, le altre due categorie nel territorio cremonese si caratterizzano per un'imprenditorialità mediopiccola e micro, che è quella che maggiormente sta soffrendo». Quali sono i problemi più grandi a cui le aziende vanno incontro?
«Tutte le aziende registrano una riduzione del fatturato, che è per lo più un problema italiano, visto che la piccola e micro impresa si basa sostanzialmente sul mercato interno. Vediamo una riduzione dei volumi, dei prezzi e anche dei margini di guadagno. E' un circolo vizioso che porta alla perdita di lavoro e alla cassa integrazione. Del resto recenti dati della Cisl dimostrano che, solo nel settore meccanico, ben 97 imprese sono in una situazione di crisi, per cui si può ipotizzare che in un prossimo futuro vi saranno altre perdite di lavoro. Partendo da questo dato è immaginabile che anche negli altri comparti potranno esservi problemi simili. Si prospetta dunque un periodo di calo di lavoro e licenziamenti, per un 2012 che sarà l'anno peggiore della crisi. Si ipotizza una crescita pari a zero, senza prospettive di aumento dei volumi di vendita. Una situazione non rosea, che richiede un intervento strutturale dal punto di vista italiano ed europeo».
In che modo si dovrà intervenire? il governo Monti è in grado di dare risposte? 
«Il problema economico è qualcosa di nazionale e globale. Per tale motivo le risposte devono arrivare prima di tutto dal sistema. Bisogna agire sulla fiscalità, sulla burocrazie sulla dimensione di impresa e sulle reti, sull'internazionalizzazione delle imprese, sul trinomio ricerca- sviluppo-innovazione. Gli ingredienti sono noti. Si confida che questo Governo libero dai vincoli dei governi che lo hanno preceduto, possa mettere in campo le riforme necessarie. Innanzitutto bisogna agire sulla riforma fiscale. Servono poi riforme legislative che permettano alle imprese una maggior elasticità e rapidità di movimento. Servono politiche di sostegno all'inserimento dei network di imprese italiane in sistemi internazionali. Bisogna puntare sul sostegno all'innovazione di prodotto e di processo attraverso la ricerca, l'indizione di appositi bandi e una maggior vicinanza tra imprese e università. Tutte azioni già note, ma che non si sono mai messe in pratica».
Si può fare qualcosa a livello locale? 
«Assolutamente: il territorio non può esimersi dall'assumersi le proprie responsabilità. Il motore della ricchezza del territorio sono le persone, che con il loro lavoro portano un contributo notevole. Ma un ruolo determinante lo hanno anche gli imprenditori: a noi manca quel motore imprenditoriale votato alla crescita, con idee giovani, innovative e frizzanti. Il nostro territorio è infatti caratterizzato da un'imprenditoria molto locale, tradizionale e decisamente non giovane. Per questo bisogna reagire, sfruttando la presenza delle università sul territorio. Serve una collaborazione tra privato, enti pubblici, atenei e banche territoriali in odo da favorire lo start up di imprese innovative. Questa è una frontiera su cui, a livello locale, si può lavorare da subito, per far nascere idee e imprese giovani ad elevato contenuto intellettuale, specialmente su settori innovativi: il nostro territorio, ad esempio, è votato all 'agrobusiness, settore in cui l'innovazione è centrale. Altro ambito su cui si può lavorare è l'information e communication tecnology. Insomma, servono aziende capaci di guardare all'internazionalizzazione e alla competitività. Per questo bisogna aiutare i giovani a crescere e diventare imprenditori. Cosa che adesso non accade, anzi: tutti i giovani con grande intelletto e capacità non hanno sbocchi lavorativi a Cremona, spesso sono disoccupati o devono andare altrove, con il risultato di una consistente perdita di cervelli, oltre ad essere il territorio con il più alto tasso di disoccupazione giovanile di tutta la Lombardia».
Cosa si sta muovendo in questa direzione? 
«C'è un progetto in fase di approntamento, che vede coinvolte la Cattolica e il Politecnico. Vogliamo favorire velocemente la nascita di un'imprenditorialità giovanile ad elevato tasso di competenza e propensione alla crescita. L'emergenza attuale è tamponare la perdita di lavoro e garantire una vita dignitosa a chi viene licenziato.>>

Non è più tempo di avanspettacolo

Nessuno di noi rimpiange la finanza allegra, la “finanza creativa”, o l’uso di mamma Stato per creare sacche di privilegi e “giacimenti” elettorali. Ma c’è un forte rischio: l’asfissia delle risorse. Inutile girare intorno alla questione: richiedere sacrifici ulteriori a chi ha già molto pagato rischia di essere pericoloso e controproducente. E, per altro verso, le amministrazioni locali sono talmente in sofferenza, che si rischia la cancellazione di intere porzioni dello Stato sociale. Si ha sempre più l’idea di un Paese di individui atomizzati, senza un’idea collettiva forte: tanto più necessaria oggi, in un momento in cui – come dicono anche i protagonisti della vita economica cremonese, che intervistiamo nelle pagine interne dello Speciale economia - coesione e sinergie sono necessarie come il pane. E, quanto ai grandi sistemi, tutti i commentatori più autorevoli dicono che, ormai, l’attacco della speculazione dei mercati non è più rivolta ad uno o all’altro Paese, quanto all’intera area dell’eurozona. Uno scenario difficile, anzi difficilissimo. Fa bene al cuore ascoltare, in questi giorni, in queste ore, i richiami alla coesione e all’unità del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Tre giorni fa, commentando lo straordinario successo che, in tutta Italia, hanno avuto le iniziative, svoltesi nell’arco dell’anno, per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, Napolitano ha detto che il Paese sa reagire al rischio di mortificazione e di arretramento nel contesto europeo e mondiale, e che le occasioni di riflessione e celebrazione sono state una conferma della profondità delle radici del nostro stare insieme come Italia unita. E che cosa, se non nel segno dell’unità, ha promosso la sua idea di dare la cittadinanza italiana ai bambini che, pur figli di genitori stranieri, nascono qui? Parlano la nostra lingua, studiano nelle nostre scuole, sono risorse preziose per il nostro domani. Unità, coesione, integrazione, sono parole che ben si sposano con gli appelli a fare sistema, a unire le risorse che provengono dal mondo economico e produttivo. Mal si sposano con la tesi di Gianluca Buonanno, sindaco di Varallo nonché deputato leghista, secondo il quale la Padania esiste e la prova di ciò è il grana Padano. Come dire: la Basilicata esiste, la prova è il basilico. Non è più tempo di avanspettacolo, ma di tessere la trama di un film corale, serio, che può essere anche avvincente e coinvolgente. Ce la faremo.

sabato, novembre 19, 2011

Intervista al professor Paolo Manasse: «Ci salveremo solo se la politica appoggerà Monti»

di Daniele Tamburini
Avremo modo di riflettere e discutere sulla fine del governo Berlusconi, nei suoi effetti immediati e nella prospettiva storica di un'esperienza che ha sicuramente segnato il suo tempo. Ma ora, occorre agire. Velocemente. Il momento è "delicatissimo e cruciale", come ha ottimamente sintetizzato il presidente Giorgio Napolitano. Cosa fare? Quali interventi dovranno essere prioritari? Lo chiediamo al professor Paolo Manasse, docente di politica economica presso l'Università di Bologna e collaboratore del periodico on line lavoce.info. 
Professor Manasse, la situazione economica del nostro Paese è molto difficile, aggravata da una forte e per certi versi inedita crisi politica, dagli esiti comunque incerti. Quali sono le misure più urgenti da assumere? 
«La base d'azione è racchiusa nella famosa lettera che la Commissione europea ha inviato al Governo italiano. Si dovrà partire dalla riforma delle pensioni di anzianità, eliminando i numerosi privilegi di parecchi pensionati, che vanno a scapito dei giovani. Altro punto su cui lavorare deve essere la riforma del contratto del lavoro: si dovranno aumentare le garanzie dei precari, togliendone a quei lavoratori che ne hanno troppe. Ciò si potrà realizzare ad esempio concordando un contratto pubblico unico, che inquadri tutti i lavoratori e che preveda garanzie crescenti con l'avanzare degli anni di lavoro. In questo modo tutti i lavoratori avrebbero la stessa dignità e si eliminerebbe il divario tra le generazioni. Poi ci sono le riforme a costo zero, come togliere le rendite di posizione di cui godono parecchie categorie professionali, dagli avvocati ai giornalisti: categorie che sono vere e proprie caste e limitano l'ingresso dei giovani a questi settori. Bisogna puntare anche sulle privatizzazioni, soprattutto delle società di servizi, che spesso sono gestite male e con tariffe molto elevate, favorendo la concorrenza e l'abbassamento dei prezzi. E' da riformare il sistema delle tasse, partendo dalla caccia all'evasione fiscale. I mezzi ci sono, tanto più che la maggior parte delle transazioni è rintracciabile. Inoltre l'agenzia delle entrate ha il potere di controllare i conti correnti dei contribuenti senza dover chiedere permessi alla magistratura, e questo velocizza i controlli. L'economia sommersa è stimata a un valore pari al 20% del Pil, e farla emergere permetterebbe di migliorare la situazione del debito pubblico. Con tutte questi provvedimenti, l'Italia potrebbe riprendere efficacemente il consolidamento dei propri conti pubblici, e iniziare a percorrere un sentiero di crescita. 
La sua opinione sulle misure richieste dalla U.E.? 
«Sono esattamente le cose che l'Italia dovrebbe chiedere a sé stessa e che la classe politica avrebbe dovuto realizzare già da 20 anni per il bene del Paese, ma che nessuno ha mai voluto fare. Quelle misure sono anche l'unico modo per tornare a crescere e non cadere in quel default che si fa sempre più vicino ».
Per contrastare la crisi occorrono misure strutturali, ma anche valorizzazione di competenze e professionalità. Invece, assistiamo spesso ad un vero e proprio "spreco di capitale umano", a cominciare dai giovani. E'
così?
«L'Italia non è un paese per giovani. Essi sono penalizzati sotto molti punti di vista. A partire dal mondo del lavoro, visto che il 30% di loro è disoccupato, ma anche dal punto di vista dell'istruzione, visto che chi sceglie di studiare non ha un guadagno molto superiore rispetto a chi non lo fa. Per non parlare dei salari
da fame, della precarizzazione selvaggia che ha prodotto disuguaglianze tra le generazioni, con stage e lavori sottopagati e senza i diritti che ogni lavoratore dovrebbe avere. E quando andranno in pensione, esse saranno irrisorie, mentre oggi ci sono persone che percepiscono molto più dei contributi che hanno pagato».
A suo parere, l'incarico al professor Monti è un fatto che permetterà un nuovo percorso per il Paese?
«Il problema è proprio questo: per mettere in atto le riforme necessarie bisogna sacrificare gli interessi di determinate categorie, e quindi di numerosi elettori. Dunque l'unico che può fare il "lavoro sporco" è chi non ha necessità di essere rieletto, e che quindi non deve accontentare nessuno. Bisognerà quindi vedere quanto i partiti saranno disposti ad appoggiare un Governo che dovrà chiedere sacrifici. C'è una frazione del centrodestra che non è molto disponibile ad appoggiare un nuovo premier, e che lo considera alla stregua di un usurpatore. Inoltre bisognerà vedere quanto saranno disponibili a mandar giù certe misure che per gli stessi partiti sono un sacrificio, sia a destra che a sinistra. Essi dovranno saper ingoiare questi rospi, che sono necessari. Se invece la politica vorrà portare avanti il boicottaggio del governo tecnico, farà colare a picco il Paese. Credo che ormai questa sia l'ultima spiaggia per l'Italia. Il centrodestra ha fallito nella sua opera di ammodernamento del Paese, e il centrosinistra è diviso. Se Monti non riuscirà a fare queste riforme nessuno comprerà più i nostri titoli, e non avremo più i soldi per rimborsare gli interessi, che sono sempre più alti. Tutto ciò porterà a grossi problemi per le banche, e di conseguenza anche per le aziende, scatenando una grande crisi economica e sociale».
Dunque il default non è un'ipotesi poi così lontana... 
«No, anzi, è una possibilità molto vicina per noi. Se la Bce smettesse di comprare i titoli italiani difficilmente l'Italia troverebbe altri creditori».
Una valutazione: c'è speranza che l'Italia possa ripartire? Ce la possiamo fare?
«La speranza di ripartire c'è, perché abbiamo dei buoni fondamentali, come una solida base produttiva e un tessuto industriale valido. Questo ci permette di avere buone speranze. Però ci sono anche cose che ci fanno male, come questo debito pubblico elevatissimo. Dunque tutto sta, come ho detto prima, alle riforme strutturali: se riusciremo a farle, e a mettere in atto i tagli necessari nel modo più equo possibile, ce la faremo sicuramente. Questo però sarà possibile solo se Monti verrà supportato dalla politica».
Tra i ministri recentemente nominati c'è anche Elsa Fornero, che ha assunto l'incarico di ministro del lavoro e che fa parte del gruppo de lavoce.info. Può dirci qualcosa di lei?
«L'ho incontrata diverse volte, e ritengo che sia un'economista molto preparata, esperta di welfare e sistema pensionistico, E' una donna che ha già avuto diversi incarichi importanti, in passato, e ritengo sia una persona qualificata e con buone competenze professionali.

venerdì, novembre 18, 2011

Ritrovare un orizzonte, ritrovare il senso dello Stato

A meno di un inopinato cambio di stile, il governo Monti sembra quanto di più lontano possa esserci dalla politica spettacolo a cui ci siamo assuefatti, chi più chi meno, negli ultimi anni. Una cosa è certa: in questa squadra di governo le competenze non mancano certo. Qualcuno già parla di forti contatti con i cosiddetti “poteri forti”, qualcun altro si chiede che cosa possa cambiare con un premier che è uomo assai vicino a quel potere - o strapotere – della finanza che molte responsabilità ha nella crisi attuale, italiana, europea e mondiale. Certo è che competenza ed esperienza non mancano. E finalmente, abbiamo tre donne in altrettanti ministeri di gran peso e prestigio: giustizia, interni, welfare e lavoro. Ha detto il neo premier che si tratta di «personalità femminili». Beh, questo è senz’altro un segno di grande discontinuità con un recente passato. È il governo delle istituzioni, quantomeno della istituzione per eccellenza, la Presidenza della Repubblica. L’anziano Presidente Napolitano ha affrontato una fase difficilissima e tesa con le energie ed il piglio di un trentenne: chapeau. Nel passaggio al Senato, il premier Monti ha parlato di crescita e di sviluppo, si è soffermato sui giovani e sulle donne. Un governo di “impegno nazionale”. Ha sintetizzato così il programma la neoministro al welfare e lavoro Elsa Fornero: risanamento, crescita ed equità. E ha aggiunto: “Non useremo l’accetta”. È ovvio, il governo di un Paese moderno e democratico non può avere un segno dispotico e populista. A questo proposito, Non è un bel segnale che Berlusconi abbia dichiarato che Monti è (praticamente) sotto tutela, per non dire ricatto: “dura quanto vogliamo noi, decideremo anche in base ai sondaggi”. Ora, non credo che alla Bce, per continuare a comprare i nostri titoli di Stato, interessino più di tanto i sondaggi. E neppure alle aziende, ai giovani che hanno idee ma non sanno come realizzarle, agli imprenditori che vorrebbero rischiare ed investire, ma che peregrinano tra le banche per cercare credito, agli operai ed ai tecnici che vorrebbero tornare nelle loro fabbriche, a tutti coloro che vorrebbero lavorare, anche duramente, ma avere un orizzonte, uno sguardo sul futuro. Berlusconi continua a parlare di riforma della giustizia e di intercettazioni: forse anche questi temi interessano relativamente l’Europa, le nostre parti sociali, e, penso, anche la popolazione. Monti ha detto che occorre ritrovare il senso dello Stato: quello Stato che non è né delle banche né della piazza, né della destra né della sinistra, ma che è tutti noi.

Daniele Tamburini

venerdì, novembre 11, 2011

Finisce la fascinazione cessa l’incantamento. Ora via nani, ballerine e ruffiani

È davvero finita un’epoca? L’annuncio delle dimissioni di Silvio Berlusconi, dopo che sarà approvata l’ulteriore manovra correttiva che ci chiede l’Europa, apre scenari di grande incertezza, almeno per quanto riguarda l’economia, ma una cosa è certa: così non si può andare avanti. La misura delle cose l’hanno data i mercati un paio di giorni fa: spread con i bund tedeschi diminuito e borsa in rialzo appena sono circolate le prime voci su una rinuncia del premier. Tonfo a piazza Affari e lo spread che vola, alla smentita. È così. Il “cerchio magico” in cui il Cavaliere è sembrato muoversi per anni pare volatilizzato. Certo che non è finito, è un uomo di grande potere, grandi risorse economiche e anche grande intuito politico, lo ha dimostrato in molte occasioni: ma è finita la fascinazione, è cessato l’incantamento in cui si è mosso per tanto tempo. Sono stati grandi picconatori, strano a dirsi, proprio quei mercati e quei movimenti finanziari che sono stati il suo mondo per anni. La finanza creativa era sì figlia di Tremonti, ma padre putativo ne era proprio Berlusconi. Ci si è messa la crisi mondiale, d’accordo, ma la solidità italiana, la ricchezza italiana – che sono un dato vero, nonostante la situazione pesantissima delle aziende, degli enti pubblici, dei privati cittadini – potevano reagire meglio. Crisi di credibilità ineluttabile, incontrollabile, si è detto. Ci sono stati altri momenti di forte crisi, anche politica ed istituzionale, pensiamo ai primi anni Novanta, ma i nostri politici (i Ciampi, gli Amato, i Barucci) andavano in Europa e nessuno sogghignava, nessuno si dava di gomito. Pensate: siamo arrivati ben al di sopra della quota 500 dello spread con i bund tedeschi, quando, agli inizi di settembre, si paventava la quota 400 come soglia del non ritorno, e nel 2008 correvano commenti allarmatissimi perché, a fine anno, tale quota era pari a 92. Attenzione: lo spread non è un numero, significa perdita di posti di lavoro, aziende che chiudono, banche in sofferenza, aumento delle tasse… È stata colpa solo di Berlusconi? Certamente no. Ma quando si comanda, ci si assumono onori ed oneri del comando, lo sappiamo. Un intero Paese, un intero sistema ha balbettato, stretto tra chi era ingessato in tanti impasse politici e gestionali di varia natura, e chi, purtroppo, ha cercato in tutti i modi di approfittare della situazione, forte del detto che nel torbido si pesca meglio. Ma l’Italia è capace dello scatto di orgoglio che invocano in tanti. Lo promuoverà Mario Monti, probabile prossimo premier, magari coadiuvato da Giuliano Amato? Monti è assai stimato, uomo colto, bocconiano, europeista doc, due volte commissario europeo, fautore del libero mercato, delle liberalizzazioni e del rigore dei conti pubblici. L’Europa è il suo orizzonte, senza “se” e senza “ma”. Lo ha pure dichiarato, "Di poteri forti non ne conosco. Tranne uno, l'Europa". Certo che dovremo avere tempo e modo di discutere, passata finalmente la nottata, del nuovo rapporto tra sovranità nazionale e scelte dettate dai mercati e dalla politica sopranazionale. Per adesso, speriamo di guadagnare nuovamente fiducia. Una fiducia che si incunei non solo nello spread, ma nelle coscienza di tanti onesti lavoratori che accetterebbero pure di stringere ancora la cinghia, di fare ancora sacrifici, ma, appunto, perché la nottata finalmente passi e si intraveda la luce dell’alba. Una cosa però la pretendiamo, pulizia: via nani, ballerine e ruffiani.

Daniele Tamburini

Intervista a Marina Calloni: «Le giovani generazioni tornano protagoniste»

di Daniele Tamburini
Era già emerso dalle lotte per la scuola e l'università: dopo anni in cui si parlava del disimpegno giovanile nei confronti della vita pubblica, si afferma un nuovo protagonismo delle giovani generazioni. In tutto il Paese è un fiorire di laboratori, iniziative, esperienze sui social networks, modi nuovi di affrontare le cose. E, nelle alluvioni di questi giorni, abbiamo visto i giovani, nuovi "angeli del fango", in prima linea nei soccorsi alle persone e alle cose, ma anche per preservare cultura e memoria. Abbiamo chiesto il suo parere a Marina Calloni, professore ordinario in filosofia politica e sociale presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Professoressa Calloni, le giovani generazioni vengono spesso definite come "senza futuro". Perché?
Senza dubbio, i dati confermano la difficoltà per le generazioni di giovani adulti di pensare ad un’idea di futuro e alla propria vita nel tempo: il 29,3% delle persone fra i 15 e i 24 anni sono infatti disoccupati e quasi metà delle donne non gode di un lavoro retribuito (48,6%); molte si rassegnano o accettano di rimanere in ruoli subalterni. Come si può avere una casa propria o avere un figlio in queste condizioni? Il futuro individuale è infatti dato da un’idea di una propria progressione esistenziale e sociale, cosa che risulta essere difficile, anche perché i giovani hanno l’impressione di non poter avere una vita migliore dei loro genitori. Si sentono di vivere solo nell’oggi. 
Eppure, in realtà i giovani non si sono certo adagiati e sembra che si stia affermando un nuovo protagonismo sulla scena pubblica... 
Come sempre i dati ci aiutano a comprendere le varie pieghe della realtà, a spiegarcela completamente. Non ci parlano ad esempio della ricchezza della società civile, dell’enorme capitale sociale e culturale che abbiamo, delle diverse tradizioni dell’associazionismo e del volontariato, delle trasformazioni culturali in atto. In questi anni i giovani hanno infatti trovato nuovi modi di aggregazione, mobilitazione e di comunicazione tramite i social network. Ciò permette risposte e azioni veloci con deliberazioni su questioni di interesse comune. Le nuove forme di protagonismo giovanile partono appunto da nuove forme di sfera pubblica e dalla richiesta di ricoprire un ruolo attivo, non solo di aiuto in situazioni di emergenza, ma di progettazione rispetto ad un Paese che va ripensato. E ciò lo possono fare grazie alle esperienze e alle competenze che hanno acquisito tanto a livello educativo, quanto attraverso le miriadi di lavoretti precari che sono costretti a fare.
Mi ha colpito la dichiarazione di un giovane che spalava fango, nella Genova alluvionata: la città è nostra, occorre dare una mano. Sembra quasi una reazione a una certa, diffusa irresponsabilità politica e istituzionale. Lei cosa ne pensa?
La virtù civica, l’interesse per il proprio territorio, la necessità di difenderlo e di contrapporsi alle derive di una politica non più interessata al bene comune, fa in effetti parte della tradizione localistica delle città italiane, a partire dal Medioevo. Tuttavia, viene in un certo qual senso qui riproposta la consueta distinzione fra una società civile responsabile e una politica istituzionale incapace. Dobbiamo viceversa fare in modo che la politica corrisponda ai reali interessi territoriali e ambientali, espressi dalle diverse comunità a livello locale, nazionale, ma anche trans-nazionale, dal momento che tutti i fenomeni, da quelli politici a quelli finanziari e climatici sono fra di loro interconnessi nell’attuale scenario globale. Mi pare però che il passaggio da un’idea di bene comune a una più vasta concezione di “beni comuni” (come ha dimostrato il referendum sull’acqua, che ha visto una grande mobilitazione di giovani) vada in questa direzione. E le generazioni più giovani possono giocare qui un ruolo determinante.
La maggior parte di queste iniziative non è "organizzata": perdura, per esempio, lo scarso appeal delle forme
politiche ufficiali. E' d'accordo?
Bisogna in effetti procedere verso forme organizzate e integrate per la salvaguardia e la valorizzazione del territorio. Non dimentichiamoci che fra i principi fondamentali, nell’art 9, la Costituzione Italiana del 1948 riconosce come uno dei compiti prioritari della Repubblica “la tutela del paesaggio, del patrimonio storico e artistico della Nazione.” Considerando che questa indicazione non è presente nella Dichiarazione universale dei Diritti Umani del 1948 o in altre costituzioni del tempo, bisogna allora convenire che i costituenti non solo erano ben consapevoli dell’enorme ricchezza (non materiale) che l’Italia aveva sua disposizione, bensì erano stati lungimiranti nel prevedere l’enorme l’importanza che la questione ambientale, artistica e culturale avrebbe acquistato nel tempo. Proprio per questo, ritengo che giovani debbano essere impegnati non solo in situazioni di emergenza, ma inclusi sistematicamente come ideatori di nuove progettualità e impieghi, a partire dall’enorme patrimonio lasciatoci dal lavoro di generazioni passate e da come erano riusciti a costruire paesaggi “naturali” e ambienti urbani dall’estrema bellezza. Penso che la nostra sopravvivenza e possibilità di occupazione, parta proprio da qui, dal rispetto e dalla valorizzazione culturale dell’ambiente e del territorio. E qui i giovani potranno riappropriarsi di un’idea di futuro, in una catena di solidarietà che li lega alle generazioni passate.

sabato, novembre 05, 2011

Chi può faccia; chi sa di non potere…

Si può. Si può ancora. L’Italia ha le risorse, l’inventiva, le capacità, la ricchezza. Si può fare, come diceva il protagonista di un vecchio film. Ma ci vogliono coraggio e intelligenza da parte di chi può decidere. Si temono le misure impopolari? Ma cosa c’è di più impopolare della crescita zero, della fuga dei cervelli, del tasso di disoccupazione giovanile ormai al 30%, dell’inflazione in ripresa, sospinta dall’aumento dell’IVA? Eppure il Paese va avanti. Ce ne ricorderemo, di questi anni. Compreso il fatto che il Paese vivo, solido, arrabbiato ma attivo, non ha tirato i remi in barca e va avanti. Nelle industrie in crisi, dove le maestranze lottano per il loro posto di lavoro e per la loro dignità, e gli imprenditori si fanno in quattro, tra stretta creditizia e crisi del mercato, per tirare avanti. Nella scuola e nelle amministrazioni pubbliche, dove anni di disattenzione e di scarsa lungimiranza, fatta anche di sprechi e di risorse male impiegate, e l’attuale contrazione stanno portando al default, per usare un termine di moda, eppure chi ci lavora resiste tenace. Nel mondo della cultura e dello spettacolo, tra i negozianti che cercano di reinventare tutti i giorni un’offerta che possa stare sul mercato. Occorre un colpo d’ala, ha detto il presidente emerito Ciampi, come nelle grandi crisi degli ultimi anni, come quando agganciammo l’Europa e l’euro. Adesso, tutti temono il referendum greco, che forse – o forse no – è stato cancellato. Io invece penso che sarebbe un gesto di democrazia. Penso che se un Governo sa spiegare al proprio popolo perché si fanno i sacrifici, i modi con cui si cerca di ripartirli equamente e quale obiettivo condiviso si vuole raggiungere, quel popolo risponda positivamente. Ma appunto: si deve operare con un disegno lungimirante e non con spot. Invece, "l'impressione è che nessuno abbia le idee chiare, cioè abbia soluzioni: si naviga a vista con grande incertezza". Lo ha detto il Sir, l'agenzia dei vescovi. Occorre dare il senso dell’equità, e non insistere sui soliti noti. Lo dice molto bene il professor Vaciago, parlando della necessità di un’imposta patrimoniale, nell’intervista qui accanto: “Con la patrimoniale si va a tassare il passato, ossia chi ha già fatto soldi tempo fa,
invece di tassare il futuro, ossia chi vuole mettersi in gioco per crescere”. Dalla crisi non si esce se non con idee nuove e forti. Dice ancora Ciampi: “È un tempo difficile, è un tempo per riforme ai limiti della temerarietà. Chi può lo faccia, chi sa di non potere, ne tragga le conseguenze”. Di coraggio e amore per il bene comune ci hanno dato esempio, tra gli altri, i volontari che si sono prodigati in Lunigiana e in Liguria. Quei ragazzi che si passavano le carte di archivio ed i libri alluvionati, per salvare memoria e cultura, oltre che persone e cose, sono davvero la nostra speranza.

Daniele Tamburini

Intervista al professor Giacomo Vaciago. Tassare il passato per sperare nel futuro

di Daniele Tamburini
Il Paese non può aspettare oltre: una sorta di mantra, ormai, che tutti ripetono, con temi sempre più allarmati. Per uscire dalla crisi forse più seria degli ultimi cento anni, c’è bisogno di risposte certe e veloci, di provvedimenti seri, concreti, reali, che non siano solo frutto di alchimie contabili, ma che diano un avvio vero al risanamento dei conti pubblici ed a politiche di ripresa. Si chiedono risorse certe, investimenti, misure di sviluppo. Si chiede, ormai un po’ da tutte le parti, di non frugare solo nelle tasche dei “soliti noti”, della gente che lavora, che paga le tasse e la cui capacità di contribuzione è ormai arrivata al limite. I ceti medi e popolari sempre più impoveriti, l’emergere di fenomeni di forte disagio sociale, la “resistenza delle famiglie”, vero zoccolo duro della nostra società, che sta scricchiolando, la rabbia dei disoccupati e dei cassaintegrati, e poi i giovani, di cui si dice “una generazione senza futuro”. È di queste ore, inoltre, il segnale di una crisi politica, palpabile ma – ancora – non dichiarata. È evidente che non bastino manovre di corto respiro o provvedimenti tampone, ma che serva davvero un nuovo inizio. Ma in quale direzione? Si sa che le situazioni di crisi possono portare nuove aperture, ma anche grandi rischi. Come possiamo uscirne? Abbiamo chiesto cosa ne pensi al professor Giacomo Vaciago, docente di economia all’Università Cattolica di Milano, autore di molte pubblicazioni e studioso attento della realtà politico-economica del nostro tempo.

- Professor Vaciago, cominciamo da qui: in Italia si annunciano da mesi misure, impopolari e di grande impatto sociale, ma che, comunque, pare non servano a rassicurare i mercati e a dare tregua al nostro Paese. Colpa dei mercati? Colpa del Governo? Oppure, non si tratta di colpa, ma di una situazione complessiva a cui si sta comunque rispondendo in maniera inadeguata?

«Mario Draghi lo sta dicendo da sei anni: il nostro paese non cresce. A fronte di questo il debito pubblico resta sempre lo stesso, ma in assenza di una crescita esso non è più sostenibile. Dunque è inutile che chi sta al Governo continui a nascondersi dietro l’assioma che “prima era sostenibile”. Dobbiamo metterci in testa che se il paese non cresce e non si fa niente per ridurre il debito, esso diventa un problema. Il Governo dice di aver già fatto tutto quello che era possibile fare, ma la realtà è che non ha combinato assolutamente niente. Addirittura sembra che l’Italia da tempo non abbia neppure una guida. E quanto viene fatto è astratto e irrealizzabile. Le Finanziarie di Tremonti sono “mattoni” da 90 pagine: una produzione di carta inutile, specialmente se si considera che la percentuale di attuazione è bassissima. Un Governo si giudica non per quello che fa durante il viaggio, ma per la destinazione; qui invece è come viaggiare su un treno che alla meta non ci arriva mai. Nel frattempo vengono “fatti fuori” tutti coloro che non sono riusciti a salire sul treno, come i precari, i disoccupati, i giovani che non trovano lavoro».

- Qualcuno paventa il default, cioè il fallimento, l’insolvenza. Qualcuno parla di fuoriuscita dall’euro, almeno temporanea. Un’altra ipotesi è quella del cosiddetto “default pilotato”, attuato volontariamente. Qual è la sua opinione?

«Non si è capito che l’euro non è una bandiera né una fregatura, come l’ha definito Berlusconi recentemente. La moneta unica doveva servire a costruire un’Europa unita, ma se i Governi non fanno nulla perché questo processo si attivi l’unione non avverrà mai, e l’area Euro finirà per sgretolarsi, come sta accadendo proprio ora. L’Euro è una costruzione fragile, che richiedeva passione e buon senso da parte dei governi nel realizzare progetti cooperativi. Purtroppo invece i governi stessi continuano a tirare sassate contro questa fragile facciata, e di questo passo non è impossibile andare incontro a una dissoluzione. Qualcuno si chiede chi ci guadagnerebbe, ma il problema è che non ci guadagnerebbe proprio nessuno, e si finirebbe per uscirne tutti danneggiati. Quanto al default volontario, per un paese come l’Italia sarebbe solo un disastro. In altri paesi si è scelta la via del default, ma il debito era verso l’estero. Nel nostro caso si parla di debito tutto italiano, e dunque da un default verrebbero colpiti principalmente i nostri risparmiatori».

-  Le faremo una domanda – apparentemente – ingenua. Parrebbe evidente che, in tempi di crisi profonda, si andassero a cercare le risorse laddove sono, quindi, anche tassando i grandi patrimoni. Ci può parlare della patrimoniale, e di cosa comporterebbe? E perché la parola pare un tabù? 

«La mia opinione è che da anni i nostri governi hanno sbagliato, laddove hanno voluto ridurre le imposte sul patrimonio, a partire dall’Ici sulla prima casa, e sono invece andati ad aumentare, errore grave, le tasse sulle imprese (Irap) e sulle famiglie (tassazione dei redditi di lavoro). Ora ci troviamo in una situazione in cui chi paga le tasse ne paga troppe e i più colpiti da ciò sono le aziende e i lavoratori onesti. Questo porta, di conseguenza, a un’assenza di crescita del paese. Le aziende virtuose vanno a crescere altrove, e in Italia nessuno arriva ad investire. Alla luce di tutto questo un Governo che abolisce l’Ici non ha capito assolutamente nulla. Ora , il tema della patrimoniale. E’ assolutamente indispensabile introdurre un’imposta patrimoniale, ma non straordinaria. Essa dovrà essere un’ordinaria imposta sul patrimonio, com’era l’Ici, che interessi anche la prima casa. Una tassa che peraltro sarebbe poco evadibile. Così facendo, si potrebbero ridurre le tasse su imprese e lavoratori, e questo automaticamente incrementerebbe le possibilità di crescita, come da tempo sta dicendo Bankitalia. Con la patrimoniale si va a tassare il passato, ossia chi ha già fatto soldi tempo fa, invece di tassare il futuro, ossia chi vuole mettersi in gioco per crescere. Chi ha già avuto molto dalla vita può permettersi di pagare. Peccato che qui in Italia si facciano le cose al contrario. Basti pensare al fatto che qui abbiamo abolito le imposte sull’eredità perché faceva comodo alla famiglia Berlusconi, mentre negli altri paesi questa è una delle principali tasse. Questo perché i figli devono guadagnarsi i propri soldi, e non partire già ricchi dalla nascita, facendo venir meno il principio dell’uguaglianza sociale. Per come sono le cose ora in Italia i figli degli operai non avranno mai le stesse opportunità di chi nasce ricco, e non avranno neppure grandi speranze, perché oggi le possibilità di successo di un ragazzo dipendono dalla famiglia in cui esso nasce. E ciò è ingiusto».

- Per finire, le faccio la stessa domanda che abbiamo già rivolto a diversi studiosi e politici: il nostro Paese ce la farà?

«L’Italia è un grande paese, e nel corso dei secoli ha avuto fasi positive e negative, andando su e giù ciclicamente. Nella sua storia ha avuto diverse fasi di “rinascita”. Prima, nel ‘400, con il Rinascimento; poi, nell’800, con il Risorgimento. E ancora negli anni 50-60 un’altra crescita, che è stata chiamata Miracolo. Ora ci troviamo in piena fase di decadenza, ma prima o poi avremmo un’altra rinascita; solo non so dire se sarà tra un anno, tra 10 o tra 100. Solo il tempo ce lo dirà».

mercoledì, novembre 02, 2011

Intervista a Carmen Leccardi, professore ordinario di sociologia della cultura alla Bicocca: "E’ precario anche il futuro. Ma i giovani restano la speranza "

La crisi che stiamo vivendo non è solo finanziaria ed economica: anche le dinamiche sociali stanno subendo grandi cambiamenti, modificando in profondità comportamenti ed equilibri consolidati. Ce ne parla Carmen Leccardi, docente ordinario di sociologia della cultura della facoltà di sociologia dell'università Milano Bicocca, e presidente del Comitato per le pari opportunità della facoltà stessa. 
Professoressa Leccardi, da molti anni lei studia i fenomeni culturali e sociali del nostro Paese. Abbiamo vissuto un mese di agosto per molti versi drammatico, ultimo episodio di una situazione di crisi, che è sì mondiale, ma che, nel nostro Paese, assume caratteri peculiari. Puntando l'attenzione solo sul dato economico, si rischia di perdere di vista quanto questo incida in termini di ricaduta sociale. Ce ne vuol parlare?
«Vorrei porre l'attenzione, prima di tutto, sulle modalità attraverso le quali la crisi attuale incide sulla rappresentazione del mondo sociale. La cosa principale che si nota è il venir meno della capacità di percepire il futuro come una risorsa da sfruttare attraverso forme di progetto. La crisi, infatti, toglie ai giovani
il diritto al futuro, ed essi smettono di credervi. Ancora più in generale, si avverte fortemente la precarizzazione dell'esistenza, con un passaggio da un orizzonte temporale ampio a uno più ristretto. In parole povere, oggi è difficilissimo pensare di fare progetti per il futuro, mentre si amplia la tendenza a guardare la vita giorno dopo giorno. Tutto questo rimette in discussione un modo di vivere che da secoli era nel nostro Dna. Soprattutto dal secondo dopoguerra, periodo in cui c'è sempre stata l'idea di una possibilità di ripresa e di crescita. Nella fase in cui ci troviamo ora, invece, diventa chiaro per tutti che bisogna ridefinire il nostro rapporto con il futuro. Tutto questo, naturalmente, ha ricadute su molti aspetti della vita: il modo di prendere decisioni, di organizzare la propria esistenza, di progettare una vacanza o un acquisto».
L’incertezza, quindi, si diffonde anche nella sfera dei rapporti interpersonali…
«Essa tende a rafforzare la solitudine della persona, allontanandola dai legami sociali. Ci si sente più soli e più vulnerabili, e questo porta al rischio di rendere ancora più frammentato il vivere collettivo. Da un lato la crisi ci getta in una condizione comune, che si traduce poi nella chiusura nella propria sfera individuale. Accanto a questo, mentre siamo attaccati da una recessione galoppante senza esserne stati gli artefici, veniamo caricati di istanze sociali per uscire da questa situazione, e questo ci fa sentire il peso della responsabilità. Tutto ciò tende a generare delle forme di depressione in quanto ci si sente responsabili della propria situazione e al contempo diventa difficile riuscire ad individuare responsabilità a carico di terze persone. Dunque la depressione che oggi è tanto diffusa è legata proprio alla responsabilità».
Lei analizza da tempo le forme della società, declinate in particolar modo attraverso i giovani e le donne. Sotto questo aspetto, quali sono le conseguenze della crisi?
«Si creano difficoltà nelle relazioni interfamiliari, e in particolare tra la generazione adulta e quella dei giovani. Perché se da un lato la generazione adulta cerca di aiutare i giovani, dall'altro questi ultimi si sentono sempre più chiusi da questo ambiente familiare, e questo li porta ad isolarsi ancora di più dal resto del mondo, chiudendosi tra le mura domestiche. Tutto questo, in assenza di un nuovo "patto tra generazioni", porta al crearsi di situazioni difficili per i giovani, a cui manca la libertà di allontanarsi dal nucleo familiare, da un lato per l'assenza di risorse economiche, dall'altro per il venir meno della fiducia verso il futuro. Le cifre della disoccupazione appaiono spaventose ai giovani d'oggi, e questo finisce per mettere in forse tutte le generazioni future, in quanto non si vede una prospettiva di cambiamento che possa dare speranza a quei ragazzi che tra qualche anno formeranno la generazione dei giovani. Giovani che sono cresciuti circondati da un costante benessere, e che da sempre sono abituati a vivere una situazione di crescente aspettative. Ora questa inversione di tendenza rende necessaria una riconversione di tali aspettative, e questo non vale solo per i giovani, ma per tutti. Le nuove generazioni subiscono poi anche una ricaduta strutturale: la riduzione costante degli investimenti sta ricadendo pesantemente sull'istruzione, e la generazione degli attuali giovanissimi sarà quella che maggiormente ne risentirà: viene meno, infatti, l'unica vera risorsa che avrebbe potuto portare a un cambiamento».
E le donne?
«In questo quadro complessivo, la capacità di tenere insieme i tempi di lavoro, famiglia e vita privata diventa sempre più difficile per le donne, che tendono ad essere i soggetti che maggiormente devono pagare i costi più alti, anche dal punto di vista psicologico. Esse finiscono infatti per metabolizzare i meccanismi di conciliazione forzosa, sentendoli come proprie responsabilità. Da un lato si avverte la consapevolezza delle maggiori pari opportunità conquistate negli anni, dall'altro bisogna fare i conti con la realtà: l'impossibilità di definire un nuovo "contratto di genere" tra uomo e donna porta quest'ultima a portare sulle proprie spalle tutte le responsabilità». 
Si parla molto della necessità di difendere le famiglie, ma questa situazione incide
molto anche sulle dinamiche familiare.
«Le ricadute sono notevoli: per il genitore diventa difficile aiutare il figlio ad acquistare una casa, ad accendere un mutuo, a mantenerlo agli studi per lungo tempo... questo porta a una crescita delle disuguaglianze, e di conseguenza all'incremento dell'aggressività sociale». 
Prevale, tra le persone, l'incertezza, quando non la paura. La paura è un sentimento che blocca, mentre invece ci sarebbe un gran bisogno di movimento. Dovrebbero circolare iniziativa, idee, anche denaro, ma non solo. Secondo lei, come possiamo riacquistare fiducia?
«Avendo fatto, negli ultimi anni, numerose ricerche con i giovani, posso dire di aver trovato tra loro molte risorse, che permettono di accostarsi a questa crisi in maniera creativa, con l'intenzione di costruire progetti che riescano a soddisfare il loro bisogno di costruirsi un avvenire. Dunque si osserva una crescita in positivo
della capacità di rispondere alla precarizzazione dell'esistenza di cui parlavamo prima, cercando di sfruttare la situazione in maniera positiva. I giovani si abituano a cogliere al volo le occasioni, e imparano a dare progetti che siano reversibili. Dunque non ritengo vero che la paura stia bloccando le reazioni alla crisi. Anzi. Da parte dei giovani vediamo delle reazioni, che vanno valorizzate. Altra cosa importante è che si individuano nuove strategie di azione, e sono proprio i giovani ad essere portatori di queste capacità, specialmente dove si assiste a forme collettive di azione, che rappresentano una risposta forte a questa situazione. Lo dimostrano anche le mobilitazioni dei giovani stessi, che lo scorso autunno sono scesi in piazza, affermando con forza la loro opinione. Lo stesso è stato per le donne. E' su queste categorie che oggi bisogna scommettere, perché possono portare gli antidoti a questa forte crisi. Antidoti che possono diventare efficaci se si impara a guardare agli stessi con fiducia e a riconoscerli come tali. E' anche per questo che l'opinione pubblica deve dare il più possibile risalto e visibilità a questi fenomeni. Perché oggi sono questi la nostra unica speranza».