di Daniele Tamburini
C'è crisi e crisi. Ci sono le cosiddette crisi di crescita, quelle che fanno da possibile volano ad una ristrutturazione, ad una revisione, ad un nuovo percorso. D’altronde, il senso originario di “crisi” lo si riscontra proprio nelle azioni del giudicare, del discernere, del valutare e, quindi, del separare. In una crisi è importante separare il grano dal loglio, cogliere ciò che è essenziale e ciò che è superfluo, datato, quando non dannoso. Ma la crisi può innestare, viceversa, un meccanismo depressivo, di blocco e desolazione. È a questo che dobbiamo reagire, cogliendone le potenzialità positive. Ma in quale modo? Lo abbiamo chiesto a David Benassi, docente presso la facoltà di sociologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Professor Benassi, la crisi ha aperto scenari per alcuni versi inediti. Mesi fa non era raro ascoltare interventi che sostenevano una tesi: non tutto il male viene per nuocere, la crisi impone di ripensare i rapporti di produzione, le relazioni sociali, le abitudini familiari, rinunciando a sprechi e fasti, tornando alla sobrietà ed alla misura. Secondo lei, c’è del vero? E ci sono segni dell’inversione di tendenza?
In effetti in passato alcuni grandi mutamenti sono stati favoriti, se non causati, da momenti di profonda crisi:
in un certo senso è come se nelle fasi di crisi venisse "sterilizzato" il potere dei gruppi sociali interessati al mantenimento dello status quo. La costruzione del welfare state britannico dopo la seconda guerra mondiale fu ispirato dal famoso rapporto Beveridge, a sua volta chiara espressione del clima sociale creato dalla partecipazione della popolazione inglese alla seconda guerra mondiale. Per venire all'Italia, la riforma della sanità nel 1978 o le straordinarie manovre di risanamento fiscale dei primi anni '90 furono possibili grazie a situazioni di grave crisi sociale economica. La crisi attuale potrà essere un momento di rinnovamento della società italiana nel momento in cui verranno eliminate le numerose iniquità e asimmetrie sociali diffuse a tutti i livelli. In particolare, molti gruppi sociali godono di rendite di posizione ereditate decenni or sono che non hanno più alcuna ragion d'essere, e che anzi soffocano le capacità di rinnovamento sociale, economico e culturale. Eliminare queste rendite di posizione è il primo e più importante passo che è necessario fare, e
che la crisi in effetti può favorire.
Altro tema da ripensare: il ruolo delle istituzioni e dei partiti. Partiamo dalle prime sembrano messe sotto scacco, in tutta Europa e non solo, dai movimenti dei mercati, del capitale finanziario, dalle agenzie di rating, che dettano l’agenda ai Governi...
Sicuramente la sovranità nazionale come era intesa nel '900 è sotto pressione da parte di spinte sovranazionali molto forti: lo stesso tentativo di costruire un'entità politica europea alla quale io singoli Stati hanno delegato alcune delle proprie prerogative può essere visto come un tentativo di costruire un soggetto politico più forte per resistere a queste pressioni. Anche in questo caso, personalmente non penso che sia necessariamente negativo: si indebolisce la capacità delle strutture statali di controllare i propri cittadini, i quali possono aprirsi a influenze politiche e culturali più ampie. E' però anche vero che l'"anarchia" del sistema, cioè la difficoltà a regolare alcuni processi globali, tende a crescere, con possibili rischi di degenerazione di fenomeni destabilizzanti. Il contagio del collasso finanziario da un paese all'altro, in assenza di istituzioni sovranazionali sufficientemente forti in grado di intervenire, è un esempio evidente di questi rischi.
Invece, cosa sono i partiti, oggi? Una cosa pare emergere: i partiti non sembrano più in grado di esprimere, o di mediare, ciò che si muove a livello profondo nella società. Non a caso, gli “indignados” cercano altri veicoli di espressione. Lei cosa ne pensa?
Il partito è una forma di organizzazione e rappresentanza degli interessi che ha svolto una funzione determinante, in Italia come negli altri paesi democratici, fondamentale soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Mi sembra altrettanto chiaro che è oggi del tutto inadeguato ad aggregare una domanda di rappresentanza sempre più frammentata e mutevole. Almeno nella loro forma classica, credo non abbiano un grande futuro. Vedo però anche il rischio della deriva demagogica di movimenti puramente di protesta, che non hanno quindi una capacità di elaborazione di una proposta politica profonda e operativa. Non sono molto ottimista sulla capacità delle strutture democratiche di rinnovarsi profondamente, ma mi auguro che in qualche modo ci si riesca.
Le rivolgo una domanda difficile: ne usciremo?
Ne usciremo sicuramente, ciò che è importante è vedere come ne usciremo. Il rischio è quello di un declino più o meno lento (che per altro a mio parere è iniziato da tempo) che metta ai margini del mondo dinamico e ricco. Spero che si riesca a innescare un rinnovamento che apra spazi di azione a favore delle generazioni più giovani. Mi sembra infatti evidente che le spinte al rinnovamento possano arrivare solo da coloro che non hanno interesse al mantenimento dello status quo. I giovani fino ad oggi hanno sopportato tutti i costi di questa situazione, non c’è che da augurarsi che riescano ad occupare posizioni chiave nella politica, nell’economia e nella società in generale. Solo così, a mio parere, sarà possibile immaginare un’Italia nuovamente in crescita.
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