sabato, ottobre 18, 2014

Il Tfr in busta paga

Il Tfr in busta paga a me sembra una di quelle “pillole miracolose” utili solo per il profitto di chi le propone. Partiamo dall’Abi (l’Associazione Bancaria Italiana) che si è resa subito disponibile alla possibilità che le banche finanzino le imprese per smobilizzare il Tfr, purché ci sia la garanzia statale. E ti pareva! Poco importa che l’eventuale garanzia statale possa far aumentare il debito pubblico. La cosa dovrebbe funzionare in questo modo: le imprese che dovranno erogare il Tfr ai lavoratori, che ne faranno richiesta, si rivolgono alla banca la quale, una volta ottenuta la garanzia statale, eroga i soldi per smobilizzare il Tfr che va nella busta paga del dipendente. In busta paga, però non arriva nella sua interezza, perché il Tfr, al quel punto, per lo Stato costituisce materia imponibile da tassare. In altre parole, lo Stato tassa oggi ciò che avrebbe dovuto tassare domani, oltretutto con una aliquota superiore (di sicuro per i redditi superiori a 15mila euro annui). Fantastico! Nel frattempo, sono pronto a scommettere che le banche troveranno il modo di cartolarizzare i crediti concessi per smobilizzare il Tfr e che, forti della garanzia statale, andranno dalla Bce proponendoli a garanzia di nuovi prestiti: migliorando così anche i coefficienti di erogazione del credito alle imprese, che è condizione essenziale per non dover rimborsare in anticipo i prestiti ricevuti nel mese di settembre, cioè i 27 miliardi destinati al credito alle aziende, ma con i quali, di fatto, comprano titoli dello Stato. E coloro che avranno richiesto l’anticipo, perché di anticipo si tratta (sono soldi loro!) cosa ci faranno? Soprattutto le famiglie in difficoltà probabilmente lo utilizzeranno per pagare le utenze scadute, o le rate del mutuo sospese, o magari il debito con Equitalia, così lo Stato recupera. Con buona pace del rilancio dei consumi. Semplicemente geniale!

Daniele Tanburini

«Che la Banca d’Italia torni a battere moneta»

Alberto Bagnai, docente di politica economica: «Uscire dall’euro? Sì. Ciò permetterebbe di rilanciare l’economia, riportando la disoccupazione sotto al 7% in 5 anni»
«L’intransigenza tedesca è quella dell’usuraio che strozza il debitore. Alla fine perdono tutti. L’attuale sofferenza dell’economia tedesca ne è una prova»
L’Unione Europea? Non è l’Europa: è un mostro di burocrazia, un bancarottiere

seriale che ha portato fallimento ovunque abbia imposto le sue regole»
di Daniele Tamburini
Durante la manifestazione del Movimento Cinque Stelle al Circo Massimo di Roma, nello scorso week-end, il leader del movimento, Beppe Grillo, ha rilanciato il tema tanto discusso dell’Euro e, in particolare, l’uscita dell’Italia dalla moneta unica. «Faremo un referendum sull’euro. Raccoglieremo un milione di firme», ha annunciato Grillo. C’è una indubbia questione di fattibilità di un referendum, su questa materia: la strada sembra difficilmente percorribile, per due motivi: il primo è che non è ammissibile un referendum popolare sui trattati internazionali, così sancisce la Costituzione Italiana; il secondo è che, molto probabilmente, i mercati, già durante il periodo di raccolta delle firme, metterebbero sotto pressione l'Italia. Al di la di questo, quella di Grillo è una chiara scelta politica, che alimenta il dibattito: Euro si, Euro no. Ne parliamo con il professor Alberto Bagnai, docente di Politica economica all’Università “Gabriele d’Annunzio” di Pescara e collaboratore del Centro di ricerca in economia applicata alla globalizzazione dell’Università di Rouen. Professor Bagnai, il dibattito politico si riaccende, dopo l’annuncio di Grillo, sulla questione dell’Euro. Alcuni schieramenti politici fanno dell’uscita dell’Italia dall’Euro la loro bandiera, facendo leva sul malcontento creato dalla crisi economica e anche sulla distanza che separa le istituzioni europee dai cittadini. Si è infranto il “sogno europeo”. Perché questa “Europa” è sempre più malvista dagli italiani? 
«Perché le attribuiscono, a ragione, la causa della recessione più grave nella storia dell'Italia unita, dopo quella causata dalla Seconda guerra mondiale. Di tutte le macroregioni dell'economia mondiale, l'Eurozona è la sola a non aver recuperato terreno dopo la crisi Lehman del 2008. Le ultime previsioni del Fmi prevedono che il Pil europeo tornerà ai livelli del 2008 nel 2016. Nel frattempo quello mondiale sarà cresciuto del 38%, sempre rispetto al 2008. È la conseguenza dell'aver adottato un sistema di regole monetarie e fiscali troppo rigide, inadatte a cogliere le sfide della globalizzazione». 
La domanda che molti si fanno: l’Italia, ma soprattutto gli italiani trarrebbero vantaggio dall’uscita dalla moneta unica? 
«Sì. Posso anticipare che secondo le valutazioni del centro studi Asimmetrie, che verranno esposte l'8 novembre prossimo nel quadro della conferenza "L'Italia può farcela?", alla presenza di economisti e politici quali Bertinotti, Boldrin, Cuperlo, Meloni, Salvini, un riallineamento del cambio dell'entità che si ritiene plausibile per l'Italia (circa il 20% rispetto ai paesi del Nord Europa, circa il 10% rispetto al dollaro) permetterebbe di rilanciare l'economia, riportando la disoccupazione sotto al 7% in cinque anni. L'inflazione arriverebbe a un massimo del 4% nel secondo anno, poi tornerebbe rapidamente verso il 2% previsto dalle regole europee, che oggi non vengono rispettate condannandoci alla deflazione. La maggiore crescita avrebbe un impatto positivo sui conti pubblici, riportando il bilancio in pareggio dopo due anni e il debito sotto al 120% del Pil in 5 anni. L'incognita qui non è economica. Anche il Fondo Monetario Internazionale ha certificato che i paesi in regime di cambio flessibile crescono di più e reagiscono meglio a crisi globali. Il problema è di ordine politico: riusciranno i politici a garantire una gestione ordinata dello smantellamento dell'Eurozona? In un secolo si son dissolte circa cento unioni monetarie, gli aspetti tecnici sono noti, la difficoltà consiste nel regolamento dei rapporti di debito e credito fra i paesi membri. L'intransigenza tedesca è quella dell'usuraio che strozza il debitore. Alla fine perdono tutti. L'attuale sofferenza dell'economia tedesca ne è una prova. Bisogna sperare che convinca il governo tedesco a un atteggiamento cooperativo». 
Quali conseguenze subirebbero coloro che hanno contratto un mutuo, un finanziamento, che ovviamente è stato negoziato in euro? 
«Nel 1992 gli Ecu erano a tutti gli effetti valuta straniera, e quindi le rate dei mutui contratti in Ecu aumentarono del 20% in conseguenza dello sganciamento della lira dal Sistema Monetario Europeo. Questa esperienza, che qualcuno ricorda, non si applica al caso odierno. Oggi l'euro è valuta a corso legale in Italia, quindi i mutui denominati in euro e disciplinati dal diritto italiano verrebbero convertiti in nuove lire ai sensi dell'art. 1281 del Codice Civile, quello che venne applicato quando uscimmo dalla lira. A una rata di 500 euro corrisponderebbe una rata di 500 nuove lire, così come a uno stipendio di 2000 euro uno di 2000 nuove lire. Il valore interno della nuova valuta (e quindi il potere d'acquisto) non verrebbe particolarmente alterato. Il vantaggio della ridenominazione è poter aggiustare il valore esterno della valuta, il cambio con le valute dei partner, facendo ripartire le esportazioni e diminuire le importazioni». 
E’ possibile stimare di quanto si svaluterebbe la nuova moneta, diciamo la “nuova Lira” tanto cara agli italiani? 
«Sì. L'entità degli squilibri accumulati lascia prevedere una svalutazione fra il 20% e il 30%. Su questo tutte le valutazioni concordano. L'impatto sui prezzi interni non sarebbe uno a uno. Chi dice che una svalutazione del 20% farebbe rincarare la benzina del 20% è un ciarlatano, per l'ovvio motivo che il costo del greggio corrisponde a una parte non preponderante del prezzo alla pompa (fatto per lo più di accise, caricate di IVA). Ad esempio, il centro studi Asimmetrie, in uno studio pubblicato ad aprile su asimmetrie.org, ha calcolato che in caso di svalutazione del 20% della nuova lira il prezzo della benzina aumenterebbe del 6%. Del resto, dal 6 maggio l'euro ha perso più del 9% rispetto al dollaro, e il prezzo della benzina della benzina sta flettendo, anziché aumentare del 9%. Gli argomenti terroristici usati dai media mostrano immediatamente la corda a contatto coi dati. La benzina è aumentata quando Monti alzò le accise di 10 centesimi per restare nell'euro». 
E il debito pubblico? 
«La percentuale di debito pubblico governata da legislazione internazionale è inferiore al 5%. Per questa parte, il rimborso ci costerebbe il 20% in più, ma col rilancio dell'economia è un costo che potremmo permetterci. Il problema più rilevante potrebbe essere dato dalla dinamica dei tassi di interesse. Voglio ricordare che nel 1992 lo sganciamento dagli accordi di cambio fu seguito da una diminuzione dei tassi». 
La Banca d’Italia tornerebbe a battere moneta? 
«Certo, lo scopo è questo, riappropriarsi di sovranità monetaria. 177 stati sovrani al mondo ne beneficiano, esclusi i 18 sventurati dell'Eurozona, coi risultati che vediamo. Peraltro, la possibilità di battere moneta renderebbe il governo italiano perfettamente liquido nella propria valuta nazionale, calmierando i tassi con un effetto analogo a quello che si verificò nel 1992». 
In quanto tempo il Paese potrebbe svincolarsi dall’Euro e cosa accadrebbe all’Unione Europea? 
«Lo sganciamento avrebbe effetti immediati nei rapporti internazionali, e in tutte le transazioni regolate con moneta bancaria (Bancomat, bonifici, assegni). Le moderne tecnologie di pagamento ovviamente ci facilitano il compito. C'è poi il problema pratico dello smaltimento del vecchio circolante (che potrebbe richiedere anche più di un semestre, ma è gestibile, dato l'ammontare relativamente esiguo di transazioni regolate per contanti). Quanto all'Unione Europea, essa non è l'euro, né l'Europa. L'Unione Europea è un mostro di burocrazia, un bancarottiere seriale che ha portato fallimento ovunque abbia imposto le sue regole (Grecia, Spagna, Portogallo), è una creatura politicamente opaca, al cui vertice siedono persone come Katainen, premiato col posto di Commissario agli Affari Economici dopo aver fatto perdere al suo paese, la Finlandia, in qualità di primo ministro, sette posizioni nell'indice di sviluppo umano della Banca Mondiale. Questo organismo necessita di una profonda riforma, e il primo passo di questa riforma è lo smantellamento dell'euro, che sta portando al collasso l'economia e la civiltà di quello che una volta era un faro di cultura e progresso, l'Europa». 
In conclusione… 
«In conclusione, il disfacimento dell'euro non è un evento probabile: è un evento certo. Ormai anche economisti ultraortodossi come Zingales (che da sempre avrebbero preferito un euro a due velocità) lo ammettono, se pure a denti stretti. Non è mai esistito nella storia dell'umanità un sistema monetario così rigido fra paesi così diversi, quindi il suo superamento è inevitabile. Governi responsabili dovrebbero gestire questo processo anziché subirlo, ma per questo è indispensabile che presso i cittadini maturi una maggiore consapevolezza. Il sistema dell'informazione italiana finora non ha contribuito molto in questo senso, preferendo argomenti terroristici a ragionamenti pacati. Speriamo che il buon senso prevalga».

lunedì, ottobre 13, 2014

«La legge delega sul Job act? Una cornice vuota»

Intervista a Andrea Bordone, avvocato giuslavorista. «Non vi è una riga su una cosa importante, l’uscita dal rapporto di lavoro»
«Il Governo deve dire cosa vuole metterci dentro. Assurdo pensare che si aiuti chi non ha garanzie togliendole a chi le ha»
Nei giorni scorsi, la legge delega per cosiddetto "jobs act" è stata approvata in Senato, con 165 voti favorevoli, 111 contrari e 2 astensioni. Di questo tema, difficile, su cui si è aperto uno scontro aspro, abbiamo parlato con Andrea Bordone, avvocato giuslavorista. «La prima cosa che ritengo sia necessario sottolineare è che nella delega approvata la Senato c'è molto poco sull'articolo 18, tanto che c'è una discussione aperta su quello che farà il Governo all'interno della legge delega - spiega l'esperto -. Attualmente è come una delega in bianco. Non dimentichiamo che una legge deve essere sufficientemente chiara rispetto al potere legislativo che viene attribuito al Governo. Soprattutto non vi è una riga sulle questioni importanti, come l'uscita dal rapporto di lavoro, che è poi il tema centrale in discussione - spiega ancora Bortone -. Molti giuslavoristi ci tengono a fare presente che l'articolo 18 è sempre stato un presidio fondamentale e un elemento di dissuasione rispetto ai licenziamenti infondati. E per ora non vi è nessuna prova del fatto che togliere una tutela ai lavoratori porti alla creazione di nuovi posti di lavoro». Inoltre, l'articolo 18 in realtà è già stato modificato ai tempi del governo Monti. «Dopo la legge Fornero, il ricorso relativo alla legittimità o meno del licenziamento si propone entro sei mesi, il giudice decide normalmente dopo una o due udienze in tempi piuttosto brevi - spiega ancora il giuslavorista -. Se il giudice ordina la reintegrazione, il risarcimento non può essere superiore alle dodici mensilità; se il licenziamento viene dichiarato illegittimo, ma non viene disposta la reintegrazione (il che, dopo la riforma Fornero, avviene in molti casi), da 12 a 24 mensilità. Ritengo che comunque sia necessario che il giudice abbia la possibilità di reintegrare il lavoratore per i casi di licenziamenti illegittimi. E' una regola che vale da oltre 40 anni, che è stata in vigore anche nel periodo del boom economico e che non è mai stata un problema per la crescita. Ciò detto, la questione della tutela rispetto al licenziamento illegittimo è una normativa che esiste in tutta Europa, anche se sotto diverse forme. Non è certo una originale normativa italiana che ci pone fuori dal sistema economico. E d'altro canto mi sembra assolutamente corretto che vi sia questa forma di tutela, a meno di non voler tornare al licenziamento ad nuntum, che ci farebbe tornare indietro di almeno 100 anni. Insomma, sarebbe preoccupante che si togliesse al lavoratore la possibilità di difendersi. Affermare di voler combattere la precarietà dopo aver liberalizzato totalmente il contratto a tempo determinato è un'evidente contraddizione in termini. Ma soprattutto, lascia perplessi che si pensi di tutelare maggiormente il precariato giovanile togliendo tutte le tutele a chi già le ha. Credo sia una stortura. Si dovrebbe invece ampliare il numero delle tutele a chi ora non ne ha. Il contratto a tempo determinato è stato in questi anni lo strumento di gran lunga più in voga per tenere i lavoratori in condizione di permanente incertezza. Fino a un paio di anni fa era prevista una regola banale ed efficace: per assumere a termine bisogna che ci sia un'esigenza contingente, a termine, appunto. La presenza di quella regola ha consentito in questi anni a migliaia di lavoratori di ottenere la stabilizzazione del proprio rapporto di lavoro, dopo la triste e consueta serie infinita di assunzioni, intervalli, nuove assunzioni, proroghe, pause e quant'altro. Quel principio è stato dapprima scalfito dalla legge Fornero e poi letteralmente demolito dal governo Renzi con il cosiddetto decreto Poletti (niente causale per tre anni)». Ultima riflessione è quella sul tipo di tutele che si vogliono dare. «Si parla di ampliare la tutela per la disoccupazione, ma l'impressione è che non vi siano le risorse per garantirne la copertura - spiega Bordone, nell'evidenziare che ora il governo dovrà far sapere cosa vuole fare esattamente, in «una legge delega che è solo una cornice vuota. Credo abbiano voluto portare avanti l'idea di aver fatto qualcosa ai vertici europei. Per questo hanno fatto approvare con tutta fretta un provvedimento scrivendo un testo giuridico i cui contenuti sono ancora tutti da verificare.

sabato, ottobre 11, 2014

Da sé se la cantano e se la suonano

Cose strane, come da tempo avviene, vediamo nel Paese. Alcune spiegabili, alcune meno, altre spiegabili quando si allarga un po’ la visuale: come la questione del Tfr in busta paga, che presenta retroscena poco immaginabili. Ma su questo ritorneremo. Oggi vorrei parlare di nuovo della questione Province. Da un paio di anni, parlare di Province voleva dire dare la stura a contumelie, insulti, lazzi e frizzi. “Buttiamole via!”, era la voce comune: fonti di spreco, sentine di vizi. Poi è stata partorita la legge Delrio - qualcuno ha parlato di "legge Delirio". Risultato, nonostante che molti pensino che siano state abolite, in realtà le Province ancora ci sono, con le competenze e i bilanci e le società collegate eccetera. Che cosa è accaduto? E’ accaduto che i presidenti e i consigli non verranno più votati dai cittadini, bensì dai sindaci e dai consiglieri comunali. Insomma, da sé se la cantano e se la suonano.Una bella presa in giro. E se i soldi pubblici delle Province verranno usati male, chi potrà, magari quel minimo, protestare, chiedere conto agli eletti, visto che sono eletti di secondo livello? Se protestavi contro Corada o Torchio o Salini per le strade dissestate, qualcosa accadeva. E adesso che il presidente non è più eletto dai cittadini? Sarebbe questo un provvedimento anticasta? In compenso, visto che non ci sarà il giudizio degli elettori, in tutta Italia si sono viste alleanze straordinarie: prevale quella Pd-Pdl, che, ora che ci penso, tanto straordinaria non è. È anche singolare che partecipino alle elezioni praticamente tutti, anche coloro che hanno gridato più forte contro le Province: solo il M5S se ne è astenuto. Ma torniamo al punto: ci sono ancora bilanci da gestire, anche se più magri di prima, beni mobili e immobili eccetera. Che dire? Nel nostro territorio abbiamo visto giravolte sui candidati, veti incrociati, sindaca di Crema contro sindaco di Cremona. Quando c’è di mezzo il potere, tutto si può fare, tutto si fa. Ricordate lo statista democristiano che diceva che il potere logora chi non ce l’ha?

sabato, ottobre 04, 2014

L'Australia è lontana. Molto.

Oggi mi piace raccontare una storia: quella del gjob acth australiano. Quel lontano e sterminato Paese e riuscito, in poco piu di trenta giorni, a far rientrare il tasso di disoccupazione di quasi mezzo punto percentuale. E non con un miracolo, ma attraverso una campagna pro-occupazione particolarmente innovativa, con la quale ha cercato di coinvolgere veramente tutti. Il progetto si chiama Jobs 2014 e aveva come obiettivo creare 3mila posti di lavoro in otto settimane. La gestione e stata affidata a quartieri e comunita: il risultato sono stati 121mila nuovi posti di lavoro soltanto nel mese di agosto. A fine giugno, il governo aveva invitato tutti gli operatori economici, grandi e piccoli, ad offrire qualche opportunita in piu ai giovani, non importa se parttime, stagionale o a tempo determinato; ovviamente, lo Stato ha fatto la sua parte incentivando le aziende. L'Australia e lontana, certo, ed e messa meglio dellfItalia; di sicuro la loro economia arranca meno, ma mi chiedo se una visone positiva ed attiva come questa non possa fare infinitamente meglio di una scelta politica ga togliereh. Mi spiego meglio: sappiamo quanto profonda sia la strutturalita della crisi, ma sappiamo bene, anche, quanto siano importanti la fiducia, lo sguardo rivolto al domani, la non rassegnazione. Mi chiedo se, invece di sfinirsi su una battaglia tutta ideologica sullfarticolo 18 il governo non dovrebbe invece battersi per una soluzione gallfaustralianah: siete giovani, ancora non si parla di lavoro a tempo indeterminato, ma, intanto, vi facciamo lavorare. Inoltre, leggo che molte persone, laggiu, non cambierebbero la propria flessibilita con la sicurezza: consente loro di poter seguire meglio la famiglia, per esempio. Insomma, e una filosofia diversa: non punitiva, volta non ga togliereh, ma a creare opportunita, a far vivere. Potremmo provarci anche qui? Dare fiducia, mettere alla prova l'autonomia e la voglia di lavorare e di impegnarsi dei piu giovani. Invece di giocare con l'antipolitica e poi accapigliarsi per le Province (e, detto tra noi, le nuove amministrazioni comunali del nostro territorio non hanno fatto una grande figura), far partire uno, alcuni, molti progetti "all'australiana". I nostri ragazzi hanno bisogno di studiare e di lavorare, sono stufi di vane promesse. L'Australia e lontana. Molto.