sabato, giugno 26, 2010

La fortuna di incontrare bravi maestri

Ricordo ancora il mio maestro delle elementari: mi sembrava molto alto e molto autorevole. Era attento alla correttezza della scrittura e delle parole che usavamo, ci riprendeva e faceva degli esempi. Era un maestro, appunto. Trasmetteva il suo sapere, quello che si era formato nel corso degli studi ma anche quello che gli derivava dall’esperienza di anni con gli alunni, e questo era considerato un grande valore. E oggi? E’ una strana epoca, la nostra: da una parte siamo allergici all'autorità e agli obblighi e ci disturba chi fa pesare il suo ruolo; dall’altra, ci affidiamo a modelli, sollecitazioni, schemi che magari subiamo in maniera passiva. Una cosa è certa: la “lezione” di un maestro, per essere davvero tale, dovrebbe essere un luogo di incontro e di scambio, un dialogo, prima di tutto tra le generazioni. Il dialogo è fatto anche di interruzioni, e quindi di ascolto. Scrive Mario Lodi, un maestro vero: educare significa educare alla parola e all’ascolto, quindi alle regole, quindi alla democrazia. Essere maestri significa creare cittadini liberi: il problema è che la loro voce rischia di essere sommersa dal chiasso generale. Per questo si dice che la storia sia maestra di vita, perché ci consente di capire le radici di come siamo. La Chiesa ha un suo magistero, con cui impartisce insegnamenti morali, etici e religiosi: Gesù Cristo era un rabbi, un maestro. Nelle officine, sovente gli apprendisti chiamavano l’operaio più esperto “maestro”, che li conduceva passo passo dalle operazioni più semplici a quelle più complesse. Un buon maestro insegna a rispettare la complessità, questione chiave, e a non affidarsi sempre alle scorciatoie ed alle semplificazioni. Invece, oggi, i maestri di scuola non mi pare abbiano il riconoscimento sociale che meritano e, anzi, vengono “tagliati” senza pietà. Poi ci sono pure i cattivi maestri. Anche se qualcuno ha detto che non ci sono cattivi maestri, bensì cattivi scolari.

Daniele Tamburini

venerdì, giugno 18, 2010

Va' pensiero...

E' abbastanza singolare che si voglia contrapporre il “Va’ pensiero” all’inno di Mameli. Come è avvenuto nei giorni scorsi. La storia sembra dire qualcosa di diverso da quello che molti pensano. Quando Giuseppe Verdi compose l’opera il “Nabucco”, da cui è tratto il “Va’ Pensiero”, si ispirò alla parte della Bibbia in cui gli ebrei, soggiogati dai Babilonesi, piangono la loro dura sorte. Il “Va’ Pensiero” è dunque un canto di dolore, di sconfitta, di rimpianto. Niente a che vedere, quindi, con un inno che dovrebbe accendere gli animi, invitare alla riscossa e al riscatto. E infatti il compositore di Busseto non pensava assolutamente a fomentare lo spirito rivoluzionario che serpeggiava in quei tempi (1842), nell’Italia del nord, contro gli austriaci. Se, come si narra, la grande musica verdiana infiammò i cuori, fu perché quel canto accorato di un popolo schiavo rispecchiava la condizione dell’Italia di allora, soggetta al dominio straniero. Sui muri delle città, alcuni coraggiosi scrivevano: “VIVA VERDI”. Un acronimo che così andava interpretato: “Viva Vittorio Emanuele Re Di Italia”. Mentre è lo stesso Verdi che, nel suo “Inno delle Nazioni” del 1862, affida proprio al “Canto degli Italiani” – meglio conosciuto, poi, come “Fratelli d’Italia” - il compito di simboleggiare il nostro paese. L’Inno fu scritto da due giovanissimi: Goffredo Mameli, l’autore del testo, aveva venti anni, Michele Novaro, che lo musicò, ne aveva ventinove. Di sicuro non fa una grande figura accanto a inni solenni come quello della Gran Bretagna, della Germania, della Russia, degli U.S.A. E’ svelto ma poco marziale, praticamente una marcetta, con un testo che, ormai, capiscono in pochi: “Noi siam da secoli calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi …”. E, udite udite, parla di Legnano: “Dall'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano”, luogo in cui, nel 1176, si svolse la battaglia in cui l’esercito della Lega Lombarda comandato dai volontari della Compagnia della Morte (non da Alberto da Giussano, che è un personaggio letterario) sconfisse l’imperatore Barbarossa. Il 12 ottobre 1946 l'”Inno di Mameli” diviene l'inno nazionale della Repubblica Italiana. Di tutta l’Italia, dalle Alpi a Capo Passero.
Ho letto che il film Kolossal su Barbarossa, finanziato dalla Rai, è costato trenta milioni di euro... ne ha incassato uno.

Daniele Tamburini

venerdì, giugno 11, 2010

Sudafrica e nuvole

Ci siamo. Accolti con sufficiente distacco e una buona dose di scetticismo, iniziano i Mondiali di calcio. E come accade, oramai da qualche anno, alla Nazionale, detentrice del titolo di campione del Mondo, è mancata anche la benedizione da parte delle istituzioni. I nostri ragazzi sono partiti per il Sudafrica nella totale indifferenza di Presidente del Consiglio, ministri e compagnia bella. Meglio stare defilati, in questi casi; dovesse andare male, c’è il rischio di essere additati come menagramo. A dire il vero, questa è una settimana piena di eventi di grande rilievo che riguardano la politica: si discute di manovra finanziaria, di tagli, di intercettazioni telefoniche, di giustizia, di Costituzione, di Stato e di Antistato. Cose importanti che ci riguardano direttamente. Tuttavia partono i Mondiali e anche di questo dobbiamo parlare. Sono i primi Mondiali di calcio in terra africana, un evento che non è solo a carattere sportivo, ma che coinvolge aspetti economici, sociali e di costume non indifferenti. Il presidente della Repubblica sudafricana, Jacob Zuma, ha dichiarato che un entusiasmo così grande lo si era visto soltanto nel 1990, quando Nelson Mandela venne scarcerato. “Questi Mondiali di calcio possono unire la nostra nazione”. Anche il ministro del Turismo ha parlato dei Mondiali come di uno strumento di “socializzazione e di condivisione”. Una manifestazione che dovrebbe coinvolgere ed unire. A parte il tifo. Il tifo non unisce, divide. Spesso si è tifosi non “per” qualcosa ma “contro” qualcosa. Così anche in politica: è più appagante denigrare l’avversario piuttosto che sostenere le proprie ragioni. Ma torniamo al calcio giocato. L’Italia non parte favorita. Anche quattro anni fa fu così, e anche quattro anni fa pareggiò uno a uno contro la Svizzera nell’ultima amichevole prima dei torneo. Sogno un’altra finale Italia-Francia, come nel 2006. Più che una partita sembrò un film scritto da un sadico sceneggiatore. Che goduria, quel giorno, battere i francesi con il minimo scarto e oltretutto all’ultimo rigore. Meglio, ma molto meglio, di un sonante e irrefutabile tre a zero. Adesso e non da ultimo: forza Cremo!

Daniele Tamburini

venerdì, giugno 04, 2010

Emergenza

Abbiamo conosciuto l’emergenza incendi: un paese a fuoco. Poi, per contraltare, quasi, l’emergenza dell’acqua … E l’emergenza rifiuti, l’emergenza petrolio, l’emergenza terremoto, l’emergenza frane, l’emergenza sanità con i malati nei corridoi, l’emergenza giustizia. E l’emergenza sicurezza. Solo che l’emergenza, per definizione, è una condizione eccezionale, imprevista, inattesa, rara. Un’emergenza che diventa normalità non è più emergenza. Eppure, noi viviamo, da molti anni, da molti governi, da molte stagioni, una continua emergenza. Si dice: ci vuole rigore, la situazione è di emergenza, e da qui le manovre, i tagli e la richiesta di sacrifici. Poi si scopre che l’attore massimo dell’emergenza, la protezione civile, deve gestire anche i festeggiamenti di San Giuseppe da Copertino, patrono degli studenti … e cadono le braccia. La spesa pubblica è un’emergenza? Probabilmente sì. Il rimedio sta nel blocco degli stipendi degli statali? Probabilmente no. I sacrifici sono necessari per il bene di tutti, dice il Presidente del Consiglio. Sono provvedimenti episodici e non strutturali, dice il capo dell’opposizione. La sensazione è che ci sia tanta improvvisazione e tanta paura. Sapete qual è secondo me un’emergenza grave che condiziona la futura possibilità di ripresa? Lo dicel’ultimo Rapporto annuale dell’Istat che dipinge un quadro a tinte fosche della condizione dei giovani nel nostro paese: il 30% dei giovani sono inoccupati e si sta cronicizzando la loro dipendenza dalla famiglia. Un esercito immobile, che chi guida il paese non riesce a rendere attivo per creare sviluppo e ricchezza, ma che nemmeno si mobilita per protestare contro una situazione assai penalizzante. La conseguenza è un’economia che non si riprende e una società che non riesce a rinnovarsi. Mio figlio ha venti anni, gli ho fatto leggere questo mio breve scritto; mi dice che alla fine non sto dicendo niente e meno propongo. E’ vero: la mia è solo una costatazione. Ma non rinuncio alla speranza che le nuove generazioni siano in grado di costruire un futuro migliore.

Daniele Tamburini