sabato, aprile 28, 2012

Intervista al professor Alessandro Volpi: "I partiti devono rilegittimare la propria funzione" Serve un profondo bagno di umiltà



di Daniele Tamburini 
I partiti non sono un optional. Sono previsti esplicitamente dalla Costituzione, all’art. 49 («Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere in modo democratico a determinare la politica nazionale»). Il nostro ordinamento, quindi, li riconosce quali strumenti fondamentali della progettazione e della gestione della cosa pubblica. Furono protagonisti della lotta al fascismo, della Resistenza e della Costituzione, della rinascita del nostro Paese. Sono stati luoghi di formazione, di acculturazione, di partecipazione per i cittadini. Ma sono stati, e sono, soggetti travolti da avvenimenti di portata epocale (i partiti della Prima Repubblica finirono a causa di Tangentopoli, ma anche e soprattutto perché la caduta del Muro di Berlino e dei regimi dell’Est cambiò in profondità il quadro politico, istituzionale e anche culturale in cui si erano sviluppati, dopo la Resistenza e la Carta costituzionale), oltre al vulnus provocato, in troppe occasioni, dall’occupazione della cosa pubblica, dagli scandali, dai finanziamenti illeciti o dall’illecito o improprio uso dei finanziamenti pubblici. Gli ultimi scandali, in ordine di tempo (quelli che hanno coinvolto l’amministratore della ex Margherita e la Lega), hanno sollevato una grande indignazione, complici la crisi economica e l’impoverimento generale, e hanno riportato in evidenza la questione del denaro pubblico ai partiti, ora erogato sotto forma di rimborso, dopo che un referendum, nel 1993, aveva sancito l’abrogazione del contributo statale al finanziamento dei partiti stessi, con più del 90% dei voti. Ma è giusto che i partiti godano comunque di finanziamento pubblico? E quali dovrebbero essere le norme di garanzia e trasparenza, per impedire gli scandali? Ne abbiamo parlato con il professor Alessandro Volpi, docente di storia contemporanea e geografia politica ed economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Pisa. 

Professore, una domanda diretta: lei pensa che i partiti debbano godere o meno di una forma di sostegno pubblico? 
«Il finanziamento pubblico ai partiti è riconducibile ad un'idea di organizzazione partitica "pesante", dotata di un gran numero di funzionari, di sedi, che produceva iniziative politiche e sosteneva campagne elettorali con mezzi di comunicazione tradizionali e molto costosi. Ora questo quadro in gran parte non esiste più, come del resto testimoniano le valutazione stesse delle spese sostenute dai partiti; si tratta di realtà molto più snelle, che hanno minore bisogno di risorse e che quindi sono di fatto sovra finanziate rispetto alle loro esigenze reali. Peraltro, alcune delle formazioni partitiche che hanno rappresentanti eletti nelle amministrazioni locali e in Parlamento hanno scelto di chiedere a tali eletti un contributo finanziario. Dunque il problema si porrebbe per le formazioni che non hanno eletti. Il tema centrale, è evidente, è quello della quantità dei finanziamenti che non possono certo più essere misurati in centinaia di milioni di euro perché la natura stessa dei partiti non ha bisogno di tali cifre». 
Chi sostiene il “no” ai fondi pubblici pensa ad un modello di tipo statunitense, con contribuzioni private. Dall’altra parte, si dice che, così, potrebbero vivere solo i partiti che alle spalle hanno o grandi patrimoni o una grande platea di sostenitori … 
«Penso che il modello del finanziamento pubblico debba essere drasticamente ridotto nel suo ammontare e debba essere sopposto ad una trasparenza più concreta, soprattutto attraverso bilanci chiaramente leggibili nelle diverse voci, finalmente declinate in maniera pienamente comprensibile e debbano essere rigorosamente pubblicati. E' importante poi che vengano smontate le strutture barocche attraverso cui rimangono in vita partiti defunti e serve un maggior controllo, una governance diversa rispetto al ruolo troppo "monocratico" del tesoriere. Queste regole debbono valere, in maniera ancora più stringente, per i contributi da parte dei privati che devono essere assolutamente visibili, magari utilizzando percorsi come quelli del 5 per mille, con dei limiti, anche dimensionali assolutamente stringenti». 
Secondo lei, è possibile ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e partiti? Su quali basi? Con quali regole? 
«Penso sia indispensabile uno sforzo, da parte dei partiti stessi, di rilegittimazione della propria funzione: la dichiarazione secondo cui i partiti sono indispensabile per la democrazia non può più essere considerato un assunto della scienza politica. Occorre che questa rilegittimazione della loro sostanza e del loro ruolo passi attraverso un profondo bagno di umiltà che li porti ad aprirsi alle diverse forme della partecipazione politiche. Serve che accettino una ricostituzione dal basso, dal senso civico, dalle competenze e dalla responsabilità che esistono nei territori perché la dimensione locale è fondamentale per ricomporre il quadro generale. Pensare ipotesi verticistiche, di rifondazione dall'alto dei partiti, è assolutamente perdente e non farà che rafforzare l'antipolitica. Al contrario, partiti rifondati dal basso, con reti comunicative e partecipative, che sappiano solidificarsi graduatamente in strutture aperte e regolate può essere la strada per ridare fiato alla politica e risolvere almeno in parte l'esigenza del finanziamento perché "partiti volontari e orizzontali" costano certamente di meno».

martedì, aprile 24, 2012

Intervista al professor Paolo Pezzino: «La nostra Costituzione è nata dall’antifascismo e dalla Resistenza"

«La Resistenza: un’esperienza di massa, non di élites»


di Daniele Tamburini 
La Resistenza non deve essere ricordata in modo agiografico: fu un fatto grandioso e complesso, glorioso, doloroso, colmo di eroismi e anche di errori. E' indubbio che la nostra storia repubblicana affondi lì le sue radici. Ma questi 70 anni di storia (e certa cronaca dei nostri giorni) compongono molte domande: quelle radici sono ancora presenti? Cosa resta di quella stagione, cosa è stato "tradito"? Ne abbiamo parlato con il professor Paolo Pezzino, docente ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa. 


Professor Pezzino, Calamandrei definì la Resistenza un "monumento". Questo monumento, oggi, ha ancora fondamenta solide? 
"L'antifascismo è indubbiamente uno dei valori fondanti la nostra convivenza civile, perché i diritti di cittadinanza in questo paese sono stati l'esito di una lotta combattuta contro un regime totalitario. E la memoria che ogni 25 aprile celebriamo è quella della sconfitta dall'esercito della Germania nazista ad opera di quelli alleati, coadiuvati dai partigiani e dal Corpo italiano di liberazione, è quella di una guerra civile vittoriosa contro il fascismo, di cui va rivendicata con forza, come italiani, contro ogni tentativo di sminuirne il valore, la legittimità nazionale e l'orgoglio di averla combattuta e vinta. E' indubbio, tuttavia, che fra i cittadini, nell'opinione pubblica, fra i giovani quel monumento sia ormai poco conosciuto, ricoperto dalla polvere del tempo ed anche, va detto, da una visione agiografica, retorica, antistorica della resistenza. E i giovani, quando fiutano la retorica, giustamente si allontanano."
Dalla Resistenza, dalla lotta contro il regime e l'ideologia fascista e nazista e contro l'occupazione tedesca, nasce l'Italia repubblicana, con la sua Costituzione democratica. Ora, la nostra Carta fondamentale ha subito, negli ultimi anni, pressioni, modifiche, quando non veri e propri attacchi. Perché?
"Dal punto di vista istituzionale, è indubbio che la nostra Costituzione sia nata dall'antifascismo e dalla Resistenza. La stessa unità delle forze politiche che la elaborarono e la approvarono anche quando, si noti, a livello politico ormai quell'unità non esisteva più, richiama l'unità che si realizzò nei Comitati di Liberazione Nazionale. Tuttavia l'architettura istituzionale delineata dalla nostra costituzione è indubbiamente datata: reduci dall'esperienza fascista, i padri costituzionali vollero un regime nel quale fosse evidente la preminenza del parlamento (e quindi dei partiti politici che vi erano rappresentati, su base proporzionale fino alle riforme elettorali più recenti) sull'esecutivo, e nella quale i Presidente della repubblica avesse un ruolo più che altro simbolico. Oggi pare evidente che alcune di queste scelte sono incompatibili con la necessità di sveltire e rafforzare il processo decisionale. Così il bicameralismo puro, i rapporti fra esecutivo e Camere, lo stesso ruolo del Presidente della repubblica, molto più dinamico e interventista nell'interpretazione che ne dà, ad esempio, il Presidente in carica, vengono rimessi in discussione. Personalmente non ci vedo niente di male, purché i processi di revisione costituzionale avvengano in maniera equilibrata ed avendo di mira il funzionamento complessivo del sistema, non interessi di parte o la volontà di ridimensionare i propri avversari politici."
La Resistenza fu veramente un fatto di popolo? "
Bisogna intendersi. Non tutti gli Italiani erano antifascisti e sostennero con entusiasmo e attivamente la Resistenza: c'erano non pochi fascisti convinti, e molti indifferenti. E tuttavia, il periodo dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 è stato uno di quelli nei quali i cittadini, volenti o nolenti, si sono trovati a compiere scelte "politiche", dalle quali dipendeva non solo la loro sorte personale, ma anche, in ultima analisi, quella della patria. E i comportamenti che oggi colleghiamo al termine di resistenza hanno coinvolto ampi strati popolari. Se proviamo a declinare al plurale la parola “resistenza”, per comprendervi tutta la varietà di comportamenti e vissuti che il popolo italiano mise in atto nei mesi dall’armistizio dell’8 settembre 1943 alla liberazione, vedremo che, accanto alla lotta in armi di decine di migliaia di partigiani e, in minor misura, partigiane per opporsi all’occupazione tedesca e alla continuazione di una guerra che aveva perso, se mai l’aveva avuto, qualsiasi carattere patriotico e si rivelava per quello che veramente era, il frutto avvelenato della dittatura fascista. Vi furono i gesti e i comportamenti di coloro che si opposero comunque all’occupazione tedesca e al fascismo, a partire dalle donne, in prima fila nell’accogliere, proteggere e accudire gli uomini, sempre più ricercati e braccati in quei mesi, a partire dai soldati sbandati dopo l’8 settembre, spogliatisi della divisa e rivestiti dalle donne italiane: atteggiamenti, questi, che le storiche hanno definito "maternage" di massa, riduzione del danno, manutenzione della vita, invitandoci a non declinare solo al maschile la “resistenza”. Ricorderemo anche i sacerdoti, rimasti accanto ai loro fedeli in una situazione di disgregazione delle strutture istituzionali, i quali seppero opporsi con coraggio, e spesso con la semplice arma dell’abito talare, alla politica del terrore che investì le loro comunità. Ricorderemo i contadini, che nutrirono militari alleati, sbandati o fuggiti dai campi di prigionia, e partigiani, dividendo con loro un pane sempre più scarso anche per le loro famiglie, e mai denunciandoli a tedeschi e fascisti repubblicani. In questo quadro di atteggiamenti di consapevole disobbedienza, spesso in nome di un antifascismo esistenziale e prepolitico, ma comunque sempre pericoloso per chi lo praticava, troveranno collocazione le centinai di migliaia di soldati italiani internati, dopo l’8 settembre, nei campi tedeschi, senza che venisse loro riconosciuta la qualifica di prigionieri di guerra, che in maggioranza si rifiutarono di barattare la propria libertà con l’adesione al regime di Salò. Se sommiamo tutti questi comportamenti, vedremo che le "resistenze" di italiane e italiano furono effettivamente un'esperienza di massa, e non di poche élites politiche."
Una domanda sui partiti. Ebbero un ruolo fondamentale nella lotta antifascista e nella nascita dell'Italia libera. Ora, sono sentiti spesso come corpi estranei e spesso delegittimati da scandali e malversazioni. Che è successo? 
"La "Repubblica dei partiti", come lo storico cattolico Scoppola ha chiamato la repubblica italiana, è andata in crisi, a partire dagli anni Ottanta, perché i partiti hanno perso la capacità di programmare il futuro d'Italia. La crescita del debito pubblico, conseguenza di politiche assistenziali, clientelari, il consociativismo, che ha unito l'intero arco politico nella richiesta di benefici per i ceti sociali rappresentati, senza che si definissi un quadro di compatibilità finanziarie, l'occupazione dello Stato e della pubblica amministrazione, infine la crisi delle ideologie, che ha colpito soprattutto comunisti e democristiani, ha ridotto progressivamente il ruolo dei partiti politici. La società inoltre è cambiata, e i partiti non sono stati in grado di intercettare le richieste dei nuovi ceti sociali, mentre i tradizionali (contadini, operai, impiegati pubblici) o declinavano o riducevano comunque il loro peso. E tuttavia la mediazione politica non può che essere assicurata da soggetti politici quali i partiti, sia pure in modalità diverse rispetto al passato. I partiti hanno bisogno di una robusta cura dimagrante, devono ridurre pretese di egemonia e occupazioni di ogni spazio disponibile, lasciare spazi autonomi all'amministrazione e agli amministratori della cosa pubblica, una volta elaborate le scelte politiche di fondo. E recuperare il senso della politica come "servizio", e non come "privilegio"."

domenica, aprile 22, 2012

Sembra solo che vogliano farci paura


Uno sbocco, un futuro. Un po' di respiro. Una prospettiva. Riscoprire una vocazione di impresa, il desiderio di costruire il proprio futuro. Lo diceva qui a Cremona, qualche giorno fa, il presidente della Ferrari Montezemolo. Leggiamo che ci sono tre milioni di persone, nel nostro Paese, che hanno smesso di cercare lavoro. E' un dato sconcertante e molto preoccupante. Tre milioni, non possono essere tutti vagabondi. Verrebbe da dire: proviamo a metterli insieme, intorno a un tavolo sterminato, in un gigantesco brainstorming. Sono convinto che ne uscirebbero altrettanti milioni di idee, forse anche di più. Tra quelle idee, molte sarebbero vincenti e originali. Poi, dovremmo trovare chi ha fiducia in loro, chi concede finanziamenti, chi fa da garante, chi fa da "nurse" all'impresa. Cose impossibili? No, accade ovunque. I fondi europei non dovrebbero servire anche a questo? E, se proprio non trovassimo misure ed assi adeguati, non potremmo iniziare un confronto con l'Europa per questo? Dobbiamo stare in Europa solo per sentirci dire che dobbiamo risanare i bilanci? Dice, in queste pagine, il consigliere Angelo Zanibelli: nonostante tutti i nostri guai, l'Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa, ed il quinto nel mondo, con un potenziale enorme che non può essere disperso. Ma allora, se tutto questo è vero, perché spesso, troppo spesso, sembra solo che vogliano farci paura? Parole come lo spettro della Grecia, il default, il precipizio. Ministri che troppo spesso parlano di licenziamenti, invece che di lavoro. Che senso ha? Perché? Che senso ha che il ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi paventi il licenziamento anche per i dipendenti pubblici, invece di lavorare perché i ritardi della Pubblica amministrazione non contribuiscano – come succede adesso - ad alimentare la spirale della crisi? Che senso ha che la ministro Fornero insista a parlare di licenziamenti per motivi economici, quando si dovrebbe parlare di assunzioni per motivi economici? Per forza che anche la spinta montiana sembri destinata a esaurirsi in breve tempo. Con la paura non si intraprende, non si inizia, non si spende. Con la paura ci si rinchiude in angolo, a parare i colpi. Noi non abbiamo bisogno di spiare lo spread che cresce, in preda al timore. Ci vogliono idee, per il Paese, per Cremona. E per riprendere Zanibelli: è ora che anche le istituzioni locali diano risposte e non si tirino indietro. Forza, il tempo è adesso.

Daniele Tamburini

sabato, aprile 21, 2012

«Dobbiamo prendere atto che il ‘post-Tangentopoli’ è fallito»



Crisi della partecipazione e crisi dei partiti? Abbiamo intervistato Damiano Palano docente di Scienza politica alla Cattolica

di Daniele Tamburini
I partiti subiscono una vertiginosa crisi di credibilità e di fiducia: lo dice la cronaca, lo dicono i vari sondaggi che si svolgono sull’argomento. Una crisi che affonda le radici non tanto e non solo negli episodi di corruzione, peculato, uso improprio del finanziamento pubblico, ma nel progressivo svuotamento del loro ruolo storico e costituzionale: la mediazione tra la partecipazione politica dei cittadini ed il sistema di governo, a tutti i livelli. Una perdita di ruolo che, insieme alla percezione diffusa di essere ormai luoghi di mero potere, sorta di “cerchi magici” in cui si distribuiscono poltrone e prebende, alimenta la cosiddetta “antipolitica”. Una questione molto attuale, inoltre, è quella del finanziamento pubblico o rimborso elettorale, che dir si voglia. I rischi sono tanti: dal crescente sviluppo del populismo deteriore, ad una partecipazione ai momenti elettorali sempre più scarsa (l’astensionismo alle urne sta crescendo), alla sostituzione della politica da parte della tecnica. Una strada potenzialmente pericolosa. Ne parliamo con Damiano Palano, docente di Scienza politica presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il professor Palano ha partecipato a ricerche sulla riconfigurazione dello spazio politico e sta portando a termine un progetto di ricerca sulle trasformazioni della democrazia.
Professor Palano, che cosa sono i partiti nel nostro ordinamento repubblicano?
«In linea generale, i partiti sono associazioni di cittadini che puntano a influire sulle decisioni delle istituzioni di governo. In un contesto democratico come quello italiano, il canale principale attraverso cui i partiti cercano di accedere alle cariche politiche sono le elezioni, e proprio il fatto di partecipare alla competizione elettorale distingue i partiti da altre forme associative che pure hanno un ruolo significativo, come per esempio i sindacati o le associazioni di categoria. A differenza di quanto avveniva nelle costituzioni prebelliche, la nostra Carta costituzionale riconosce esplicitamente il ruolo fondamentale che hanno i partiti come strumento di espressione e di organizzazione della società. L’articolo 49 afferma infatti che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Nel nostro ordinamento, i partiti non sono dunque semplicemente attori ‘privati’, ma in qualche misura anche soggetti ‘pubblici’, perché sono considerati come organi essenziali per la dinamica democratica. Il riferimento al «metodo democratico» è stato però al centro di alcune controversie. I primi critici della ‘partitocrazia’, già negli anni Cinquanta, ritenevano infatti che fosse necessario stabilire controlli pubblici anche sull’organizzazione interna dei partiti, e non solo sulle modalità di propaganda e azione esterna. In realtà, questo tipo di controllo in Italia non è mai stato attivato, per motivi piuttosto comprensibili e in fondo non del tutto deprecabili. Per questo motivi, i partiti si trovano sempre al confine tra ‘pubblico’ e ‘privato’. E la questione del loro finanziamento riflette proprio questa ambivalenza: da un lato, si ritiene che i partiti svolgano una funzione pubblica essenziale, e per questo vengono sostenuti da risorse pubbliche; dall’altro, sono organizzazioni ‘private’, perché rimangono esterne allo Stato (e al suo controllo)».
La crisi della partecipazione nel nostro Paese è da mettere in relazione con la crisi dei partiti?
«Crisi della partecipazione e crisi dei partiti sono ovviamente legate, ma è difficile dire quale sia la vera ‘causa’. Si tratta piuttosto di un circolo vizioso, in cui entrambe le crisi si rafforzano a vicenda. Il calo delle iscrizioni ai partiti inizia a registrarsi (in tutta Europa, seppur con differenze tra Paese e Paese) già negli anni Ottanta. I motivi sono al tempo stesso politici e culturali. L’esaurimento delle grandi ideologie novecentesche ha indebolito (seppur non annullato) le identità collettive su cui i partiti di massa si fondavano. E la fine della Guerra fredda ha influito non poco in questo processo. Al tempo stesso, le trasformazioni culturali delle società ‘postmoderne’ hanno favorito forme di mobilitazione diverse da quelle novecentesche. Ma ciò non significa che la partecipazione venga meno. Piuttosto, si tratta di una partecipazione che non si svolge prevalentemente all’interno dei partiti. Al tempo stesso, la fiducia nei confronti dei partiti e della classe politica si riduce a livelli bassissimi. Proprio la sfiducia verso la politica, che in Italia raggiunge punte molto elevate, accomuna d’altronde tutte le democrazie occidentali ».
Quali sono le radici di tale crisi?
«La crisi dei partiti ha molte radici. Alcune sono specificamente organizzative, e non sono certo esclusive dell’Italia. Sono legate alla trasformazione della competizione politica, alla crescente mediatizzazione e alla personalizzazione. Tutti questi processi tendono a cambiare l’organizzazione interna del partito, perché il potere reale tende a concentrarsi verso il piccolo gruppo di vertice (se non nel ‘capo’), e perché i partiti tendono a ricercare nella spartizione di cariche pubbliche le risorse finanziarie per la loro sopravvivenza. Al tempo stesso, tende a indebolirsi molto il rapporto fra il partito e la base dei militanti. Un po’ perché la società cambia, e un po’ perché i militanti (e le loro risorse umane) non sono più così importanti nella strategia comunicativa. Non si tratta soltanto di una degenerazione: è anche un risultato innescato dalle trasformazioni della competizione elettorale e dalla necessità di ottenere ‘visibilità’ nel panorama ipertrofico della comunicazione contemporanea. Anche per questo, quasi tutti i partiti italiani sono oggi, di fatto, ‘partiti personali’. E in questo quadro i controlli diventano molto più difficili. A questi fattori, se ne aggiunge almeno un altro. Negli ultimi vent’anni, per far fronte alla crisi di fiducia nei partiti, quasi tutte le nuove formazioni politiche hanno utilizzato a piene mani la retorica anti-politica. Così, hanno acceso speranze puntualmente deluse. Ma hanno anche compiuto una straordinaria opera di auto-delegittimazione, che ha esteso ulteriormente i margini della disillusione, della sfiducia, del disgusto nei confronti della classe politica».
La forma-partito è riformabile, o ci dovranno essere sempre di più nuovi strumenti di partecipazione politica?
«In teoria tutto è riformabile, ma è molto improbabile che i partiti possano mutare in modo sostanziale. Le trasformazioni che hanno subito sono dovute non soltanto alla pessima qualità della classe politica odierna, ma anche alle condizioni strutturali del confronto politico nelle democrazie occidentali. Al tempo stesso, è difficile immaginare che il ruolo del partito possa essere sostituito da altre forme di partecipazione. Certo ci sono margini per un maggiore coinvolgimento dei cittadini, in forme diverse rispetto al passato. Ma per incidere realmente e stabilmente sulle decisioni politiche, e anche per costruire progetti politici di lungo periodo, il ‘partito’ rimane probabilmente l’unico strumento adeguato. Anche se al partito sono legate – inevitabilmente – quelle tendenze degenerative che conosciamo, e anche se i partiti di oggi hanno radici molto deboli nella società».
E la questione del finanziamento pubblico, o rimborso elettorale che si voglia dire?
«Le polemiche contro la ‘partitocrazia’ sono vecchie quanto la Repubblica, e quella contro i ‘rimborsi elettorali’ è solo l’ultima variante. È chiaro che siamo dinanzi a un meccanismo perverso, costruito per aggirare le volontà espressa dal referendum del 1993 sul finanziamento pubblico dei partiti. Ma si tratta solo di uno degli aspetti più evidenti di un processo più ampio. Negli ultimi vent’anni, il potere di discrezionalità della politica si è ulteriormente accresciuto, ed è sufficiente pensare al ruolo giocato dallo spoil system a tutti i livelli della macchina amministrativa. Probabilmente, la legge sui rimborsi elettorali verrà modificata, ma per affrontare il problema del ruolo dei partiti sarebbe necessario un ripensamento ben più radicale. Innanzitutto, dovremmo prendere atto del fallimento delle grandi speranze di ‘moralizzazione’ alimentate dal crollo della ‘Prima Repubblica’ e cercare di scoprirne le cause. Ma dovremmo anche riconoscere che le riforme degli ultimi vent’anni, al di là della retorica anti-statalista, hanno implicato soltanto un enorme rafforzamento del clientelismo. Se non prendiamo atto del fallimento del ‘post-Tangentopoli’, e se non cerchiamo di capirne le ragioni più profonde, ogni riforma si rivelerà solo un’operazione del tutto simbolica, ma priva di reali conseguenze. Così, avrà ragione ancora una volta il principe di Salina. Dietro la facciata di un cambiamento radicale le cose continueranno a rimanere immutate, e la classe politica assomiglierà sempre di più a una casta di parassiti».

sabato, aprile 14, 2012

Contro l’ingordigia del potere servono teste pensanti e cuori onesti

Non può essere un caso. Non è più questione di una mela marcia tra quelle sane. Ad essere infettata è l'intera cassetta: o almeno, così parrebbe. Lo pensa sicuramente l'opinione pubblica: il tasso di fiducia nei partiti è sprofondato. Partiti che hanno gettato via, dilapidato, nel corso della storia repubblicana, una partecipazione popolare davvero straordinaria. Intere generazioni, frequentando le sedi di partito, si sono formate, hanno aperto relazioni, hanno capito la realtà. Poi, un declino inarrestabile: ed ecco i vari “mariuoli” (ricordate? Lo disse Craxi di Mario Chiesa). Ma non è questione di Prima o Seconda Repubblica. Lo dice il professor Feltrin, in una importante analisi dell’identità politica della Lega che pubblichiamo in questa pagina: al di là dei singoli episodi, il problema sono le regole e il ricambio della classe dirigente dei partiti. Certo che passare da Roma ladrona a Lega ladrona è un bel salto. E i più furenti sono proprio i leghisti. Il rischio è che prevalga l’idea per cui occorra “privatizzare” la politica, considerandola un servizio alla comunità, senza oneri per lo Stato (come ha scritto Fabrizio Rondolino). I partiti dovrebbero dare soldi agli eletti a spese loro; i partiti dovrebbero essere finanziati volontariamente dai cittadini (magari con contributi fiscalmente deducibili). Dico subito che tutto questo mi fa paura. Indovinate quali partiti avrebbero più soldi, più visibilità, più tutto … Bisogna invece che la politica riscopra uno spirito di servizio che non le appartiene più. E che rispetti i cittadini, che hanno voglia di farsi sentire e farsi valere. Se la politica è un servizio pubblico, conta la qualità del servizio, e l’interesse primario deve essere quello dei cittadini. L'ingordigia di potere, di simboli di potere, di denaro per avere sempre più potere fa perdere la misura: e un Trota, bocciato tre volte all'esame di maturità, diviene consigliere regionale e “delfino” del padre. Senza fare facili ironie, invece di trote e delfini scegliamo teste pensanti e cuori onesti.

Daniele Tamburini

La bufera nella Lega Nord Intervista al professor Paolo Feltrin: «La vera difficoltà della Lega è la prospettiva politica»

di Daniele Tamburini
Un vero e proprio terremoto, dagli esiti imprevedibili: lo scandalo che ha colpito la Lega può avere effetti sia negli equilibri politici nazionali, che nelle amministrazioni regionali e locali. Il colpo è duro: coinvolto in prima persona il capo carismatico di sempre, Umberto Bossi, i cui figli sono travolti dalle accuse; coinvolta la vicepresidente del Senato della Repubblica, Rosy Mauro. Voci su possibili transazioni di affari all’insegna del riciclaggio e dell’appropriazione indebita, in cui sarebbe coinvolto il tesoriere Belsito. Il “cerchio magico” di chi era vicino a Bossi: si parla di lauree comprate, fattucchiere, autisti “bancomat”. Ma dove è finito il partito “diverso”? E soprattutto, come reagirà la “pancia” del partito, la base, unita per tanti anni dalla polemica contro “Roma ladrona”? Abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Feltrin, docente alla facoltà di Scienze politiche presso l’Università di Trieste.
La Lega è, probabilmente, uno dei fenomeni veramente nuovi del panorama politico degli ultimi anni in Italia. Un partito molto composito, difficilmente definibile a senso unico. Lei come sintetizzerebbe questa novità? 
«In realtà vi sono state diverse leghe, in diversi momenti storici. Il fenomeno leghista nasce 40 anni fa nella seconda metà degli anni 70 dalla crisi delle mobilitazioni collettive di classe. Tale periodo si caratterizza con la propensione al localismo, la riscoperta delle culture e delle tradizioni del passato, la valorizzazione dei dialetti. Questa parte della Lega, tuttavia, non poteva durare a lungo, e infatti si è conclusa a circa metà degli anni '80. E' stato poi Umberto Bossi ad avere un'intuizione, nel 1989: egli, creando la Lega Nord, ha deciso di politicizzare una delle più antiche fratture del nostro Paese, quella tra Nord e Sud. Su questo si basa, di fatto, il movimento, ed è questa la vera novità. Il resto è folklore. Anche questo successo, tuttavia, ha dei limiti: se sono il partito del Nord, infatti, non posso essere, per definizione, un partito regionale, in quanto "il Nord" rappresenta il 45% del Paese. Era questa quindi la grande contraddizione della Lega: troppo grande per essere un partito regionale, troppo piccola per essere nazionale. A questo punto, le scelte erano due: o diventare un partito del Nord ma con la volontà di prendere voti in tutta Italia, rappresentando quindi tutto il Paese, o diventare il partito secessionista, che rivendica l'autonomia del Nord. E' in questa direzione che ha voluto andare Bossi, e questo è anche il tallone d'Achille del movimento. Più recentemente, la Lega ha avuto la capacità di intercettare dei malesseri che sono propri di tutto il Paese, raccogliendo consensi: la questione degli immigrati, che le ha permesso di prendere voti anche sotto il Po; il tema della sicurezza; il tema delle tasse, con la sparata "Roma ladrona". Tuttavia si tratta di tematiche che fanno da corollario a quello che è l'originario pensiero leghista che è, come detto, la frattura tra il Nord e il Sud. A tutto questo, peraltro, l'unica soluzione che da sempre propone Bossi è l'indipendenza del Nord. Dunque i problemi e la crisi del leader leghista non sono i soldi - in realtà solo un pretesto - ma la difficoltà di prospettiva politica del movimento stesso».
Una difficoltà, quindi, non contingente... 
Le rispondo con una domanda: può reggere altri vent'anni solo come partito della secessione? In questo si inserisce Maroni, che ha fatto emergere una diversa impostazione: quella di partito del Nord ma con vocazione nazionale. Tuttavia ci si chiede se è in grado di portare l'intero "corpo" della Lega a pensarla in questo modo».
Le note accuse degli ultimi giorni (uso del finanziamento pubblico a scopi privati, che ha coinvolto la stessa famiglia Bossi; riciclaggio ed appropriazione indebita nella cerchia di contatti del tesoriere Belsito) hanno provocato un moto di indignazione nella base. Maroni sostiene che bisogna fare pulizia, e che il corpo della Lega è sano. Lei è d’accordo con questa analisi? 
«Maroni dice una banalità, perché in tutti i partiti, per definizione, il "corpo" è sano, in quanto non viene a contatto con i soldi. D'altro canto i partiti che diventano di grandi dimensioni non possono essere partiti della virtù, in quanto non esiste ragione al mondo per pensare che in un movimento si possano concentrare tutti i buoni o tutti i cattivi. Bisogna allora trovare dei meccanismi per separare le mele marce da quelle buone. Questo è possibile solo introducendo regole certe e un maggior ricambio delle classi dirigenti, per cui le mele marce vengono sostituite il prima possibile. Ciò, tuttavia, non accade mai nei movimenti come la Lega. Non a caso l'attuale organismo dirigente del partito è ancora quello delle origini: basti vedere che anche in una fase di cambiamento come quella attuale si propone, come sostituto di Bossi, un Maroni che era comunque nella Lega fin dall'inizio. Tra l'altro la lunga permanenza delle stesse persone alle più alte cariche ha portato inimicizie e rancori che si sono ormai incrostati e che rischiano di finire nell'onda dei ricatti reciproci e delle diffamazioni, come già sta accadendo. Maroni riuscirà a fermare questa tendenza? Riuscirà ad evitare che le varie anime del partito continuino a darsi battaglia con armi improprie? Solo in questo modo, infatti, potrà bloccare la crisi. Ma soprattutto: nel momento in cui Maroni si farà interprete di una svolta nordica nazionale della Lega, la base dei militanti che inneggiano alla Padania libera sarà d'accordo? In sostanza, quindi, sono quattro le fratture interne al partito che sono da sanare: quella interna dei vertici, quella tra moderati e radicali, quella generazionale e quella territoriale (tra Veneto e Lombardia). Il compito di Maroni è gestire tutti questi problemi».
La Lega è un partito nato anche dall’antipolitica (intendendo, con questo, il rifiuto dei partiti “storici”) che pare accodarsi alle abitudini deteriori del passato. Non è il solo a farlo, anche nella Seconda Repubblica. Ma allora, il rinnovamento dei partiti è proprio impossibile? 
«Questo è un punto delicato nella vicenda italiana, frutto di un paese da sempre fortemente diviso: Nord e Sud, cattolici e laici, ecc. Tutto ciò lo ha portato ad avere un meccanismo di politicizzazione eccessiva. E' forte, infatti, la pervasione della politica in ogni ambito della vita quotidiana dell'italiano medio; essa è lo sport nazionale del nostro Paese, ancora prima del calcio e delle donne. In tutto questo l'antipolitica è ancora una forma della politicizzazione eccessiva propria dell'Italia. Tutti i giornalisti e i conduttori televisivi si lamentano che da quando è arrivato Monti è drasticamente diminuita l'attenzione della gente nei confronti del dibattito politico. Eppure questa dovrebbe essere la normalità. A tutto questo l'unica soluzione, se si vuole un vero rinnovamento, è far passare il concetto di "meno politica" e di "meno partiti". Nella Lega purtroppo questo non esiste: ci sono troppi politici "di professione", che nella loro vita non hanno mai fatto altro e che non hanno alcuna esperienza di tipo tecnico».
La Lega è un partito che ha accentuato moltissimo il carattere personalistico della leadership. Ora il capo storico, Bossi, è colpito dallo scandalo in prima persona. Questo può far mutare paradigma politico? 
«Finché resta un partito-movimento, come è stato per altre esperienze di questo tipo (fascismo, socialismo, ecc), si identificherà come una seconda pelle sul leader storico, e avrà difficoltà a stabilire delle regole di successione. Anche in questo frangente ora la palla è in mano a Maroni: sarà in grado di trasformare la Lega in un partito normale? Secondo me è difficile che possa riuscirci, e il partito rischia quindi di disgregarsi».
E, se si verificasse questo scenario, come si comporterebbe l'elettorato leghista? 
«Per ora le linee di uscita dalla Lega sono in chiave antipolitica: una parte verso Beppe Grillo, un'altra verso formazioni di estrema destra. E' invece più difficile che vi sia un partito pronto a ereditare la maggioranza dell'elettorato leghista. Come dicevamo prima, infatti, servirebbe un partito del Nord a vocazione nazionale che però sappia anche assorbire le volontà secessionistiche, ma dubito sia possibile».

sabato, aprile 07, 2012

La Seconda Repubblica? E’ peggiore della Prima

Verrebbe quasi da dire: una sorpresa pasquale. Le dimissioni di Bossi: davvero uno sconquasso. Chi lo avrebbe detto, anche solo qualche mese fa? Giulio Andreotti, con una battuta famosissima, disse che il potere logora chi non ce l'ha. Ma non è del tutto vero, a quanto pare: prima Berlusconi, ora Bossi. Sembravano inattaccabili. La loro coalizione aveva vinto le ultime elezioni politiche con un vantaggio di dieci punti. Adesso, sono caduti. Che botta. Dice il giovane rampante del Pd Matteo Renzi che i partiti, per come sono, non servono più. Certo che sì (anche se Renzi diventa fumoso al momento di spiegare che cosa, invece, dovrebbero essere). Forse perché i partiti, per come sono, non sono più una associazione di cittadini “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, come detterebbe l’articolo 49 della Costituzione. Il partito “personale”: il partito di Berlusconi, il partito di Bossi, ma anche di Di Pietro. In taluni casi sembrano, oggi, strumenti nelle mani di qualcuno: di una persona con il suo "cerchio magico", di una cupola o una cupoletta, di una casta piccola o grande, quando non, purtroppo, un comitato d’affari. E', questa, la mia amara constatazione: quella che definiamo la Seconda repubblica è certamente peggiore della Prima. E se, invece, i partiti tornassero ad essere strumento di partecipazione, luoghi in cui i cittadini possano dire la loro? A Monti, come si fa a dire qualcosa? Se invece il tuo deputato partecipasse ad una discussione collettiva e aperta, mediata appunto dal partito di appartenenza, come accadeva prima del disfacimento della Prima repubblica, forse questo servirebbe a lui, a chi lo sollecita sulle questioni, ai cittadini, alla democrazia e al Paese. 
Buona Pasqua.

Daniele Tamburini

Intervista al professor Salvatore Settis «Investire in cultura vuol dire pensare al futuro»

«Lo sviluppo? È il progresso generale del Paese, nel segno dell’utilità sociale e del pubblico interesse»

Ha scritto, nel suo libro “Paesaggio Costituzione cemento”, che la devastazione dello spazio in cui viviamo, la «progressiva trasformazione delle pianure e delle coste italiane in un'unica immensa periferia», troverebbe un ostacolo se vi fosse «una chiara percezione del valore della risorsa e dell'irreversibilità del suo consumo». Parliamo di Salvatore Settis, docente di archeologia e storico dell’arte di chiara fama, direttore per più di un decennio della Scuola Normale Superiore di Pisa. Con interventi puntuali e mirati, Settis conduce da anni una battaglia tesa a contrastare il degrado del territorio, del paesaggio, del bene comune. In un recente intervento a L’Aquila, città devasta dal sisma di tre anni fa e sostanzialmente abbandonata, ha detto che si tratta della «metafora di un processo di degrado civile che nel degrado del patrimonio paesaggistico e culturale si incarna e si manifesta». E ancora: «Per crescere, si dice, bisogna costruire, occupare suoli, fare grandi opere. Dovremmo perseguire lo sviluppo che porta al bene comune, mentre è invalsa la pessima abitudine, ed è una trappola in cui siamo cascati tutti, di chiamare sviluppo l’opera stessa: l’autostrada, il condominio, la new town». In un momento in cui è molto acceso il dibattito sulle grandi opere, anche qui da noi, abbiamo rivolto al professor Settis alcune domande. 
Professore, lei pensa che le cosiddette “grandi opere” possano costituire un volano per un nuovo sviluppo del Paese? Il riferimento è alla Tav, ma non solo… 
«Su questo punto c'è un enorme equivoco. Identificare le "grandi opere" come il principale volano dello sviluppo mostra prima di tutto una sorprendente mancanza di fantasia. Davvero non sappiamo inventarci nient'altro? Per "sviluppo" dovremmo intendere il progresso generale del Paese, dominato (come vuole la Costituzione) dall'utilità sociale e dal pubblico interesse. Invece, come si è visto nella recente polemica sulla Tav, lo sviluppo viene identificato non con i benefici (nella fattispecie, più che dubbi) che da una "grande opera" possono derivare al Paese e alla società, bensì dall'opera stessa, cioè dalla servile scelta di fare sempre e comunque l'interesse non dei cittadini inermi, ma delle potenti imprese e dei gruppi bancari che sono alle loro spalle. Questa è la filosofia della deludentissima risposta agli argomenti anti-Tav che con grande dispiacere ci è toccato leggere sul sito di Palazzo Chigi». 
Vi sono economisti che sostengono che le vere grandi opere pubbliche essenziali al Paese sarebbero la messa in sicurezza del territorio, il ripristino e la cura del paesaggio, la cura del patrimonio storico, artistico e culturale: tutte azioni capaci di creare occupazione e dare impulso ad una economia “vera”, non drogata. Secondo lei, è una strada percorribile? 
«Io non ho dubbi che questa sarebbe la strada giusta. Ma la perversa insistenza nelle "grandi opere" si misura, per esempio, sull'ostinazione a proposito del Ponte sullo Stretto. Quando vi fu la frana di Giampilieri presso Messina, in cui morirono poco meno di quaranta persone, Bertolaso disse che contrastare le frane non si può, costerebbe troppo, due o tre miliardi di euro. Il giorno dopo Prestigiacomo dichiarò che per il Ponte si doveva andare avanti, nulla era cambiato. Insomma, 10 miliardi per il Ponte si trovano, 2 miliardi per mettere in sicurezza il territorio no. La priorità è "far lavorare le imprese", non il pubblico interesse né la vita dei cittadini». 
 Il degrado del paesaggio, la cementificazione (con i conseguenti disastri “naturali”), l’abbandono della tutela dei beni artistici e culturali (Pompei che cade a pezzi ne è una chiara metafora): sono conseguenze di una idea sbagliata di “sviluppo”, oppure di ignoranza, o di che altro? 
«Un'idea sbagliata di sviluppo, certo, ma non solo. In Italia, a ogni crisi vera o falsa, si reagisce con tagli alla cultura. I disastri di Pompei (anzi di tutta Italia) sono la conseguenza di una politica dissennata, che ha tagliato nel 2008 un miliardo e mezzo circa al bilancio dei Beni Culturali, e che da decenni non ne rinnova il personale, sempre più anziano e scoraggiato. Eppure siamo stati il primo Paese al mondo a mettere la tutela del paesaggio e del patrimonio fra i principi fondamentali dello Stato! Duole vedere che su questo fronte il governo Monti appare assolutamente immobile. Qualcuno dovrebbe spiegare ai suoi ministri che in altri Paesi (per esempio la Francia) le spese in cultura non sono state tagliate con la crisi; anzi, sono cresciute in alcuni settori, come la ricerca. Investire in cultura vuol dire pensare al futuro. E non pensare al futuro è un suicidio». Qual è, per lei, il significato di “bene comune”? come possiamo costruire una cultura del “bene comune”? «"Bene comune” vuol dire coltivare una visione lungimirante, vuol dire investire sul futuro, vuol dire preoccuparsi della comunità dei cittadini, vuol dire prestare prioritaria attenzione ai giovani, alla loro formazione e alle loro necessità. In Italia è questo un tema assai antico, che prese la forma della publica utilitas, del “pubblico interesse” o del bonum commune, incarnandosi negli statuti di cento città e generando, prima di ogni costrizione mediante le norme, qualcosa di molto più importante: un costume diffuso, un’etica condivisa, un sistema di valori civili, che ogni generazione, per secoli, consegnò alle successive. Culmine di questo percorso di civiltà è la nostra Costituzione: è ad essa che dovremmo saper tornare, per (ri)costruire una cultura del bene comune. Non a caso Calamandrei diceva che la Costituzione è una polemica contro il presente. Perché è il progetto (ad oggi irrealizzato) per un futuro migliore».

Daniele Tamburini