«Lo sviluppo? È il progresso generale del Paese, nel segno dell’utilità sociale e del pubblico interesse»
Ha scritto, nel suo libro “Paesaggio Costituzione cemento”, che la devastazione dello spazio in cui viviamo, la «progressiva trasformazione delle pianure e delle coste italiane in un'unica immensa periferia», troverebbe un ostacolo se vi fosse «una chiara percezione del valore della risorsa e dell'irreversibilità del suo consumo». Parliamo di Salvatore Settis, docente di archeologia e storico dell’arte di chiara fama, direttore per più di un decennio della Scuola Normale Superiore di Pisa. Con interventi puntuali e mirati, Settis conduce da anni una battaglia tesa a contrastare il degrado del territorio, del paesaggio, del bene comune. In un recente intervento a L’Aquila, città devasta dal sisma di tre anni fa e sostanzialmente abbandonata, ha detto che si tratta della «metafora di un processo di degrado civile che nel degrado del patrimonio paesaggistico e culturale si incarna e si manifesta». E ancora: «Per crescere, si dice, bisogna costruire, occupare suoli, fare grandi opere. Dovremmo perseguire lo sviluppo che porta al bene comune, mentre è invalsa la pessima abitudine, ed è una trappola in cui siamo cascati tutti, di chiamare sviluppo l’opera stessa: l’autostrada, il condominio, la new town». In un momento in cui è molto acceso il dibattito sulle grandi opere, anche qui da noi, abbiamo rivolto al professor Settis alcune domande.
Professore, lei pensa che le cosiddette “grandi opere” possano costituire un volano per un nuovo sviluppo del Paese? Il riferimento è alla Tav, ma non solo…
«Su questo punto c'è un enorme equivoco. Identificare le "grandi opere" come il principale volano dello sviluppo mostra prima di tutto una sorprendente mancanza di fantasia. Davvero non sappiamo inventarci nient'altro? Per "sviluppo" dovremmo intendere il progresso generale del Paese, dominato (come vuole la Costituzione) dall'utilità sociale e dal pubblico interesse. Invece, come si è visto nella recente polemica sulla Tav, lo sviluppo viene identificato non con i benefici (nella fattispecie, più che dubbi) che da una "grande opera" possono derivare al Paese e alla società, bensì dall'opera stessa, cioè dalla servile scelta di fare sempre e comunque l'interesse non dei cittadini inermi, ma delle potenti imprese e dei gruppi bancari che sono alle loro spalle. Questa è la filosofia della deludentissima risposta agli argomenti anti-Tav che con grande dispiacere ci è toccato leggere sul sito di Palazzo Chigi».
Vi sono economisti che sostengono che le vere grandi opere pubbliche essenziali al Paese sarebbero la messa in sicurezza del territorio, il ripristino e la cura del paesaggio, la cura del patrimonio storico, artistico e culturale: tutte azioni capaci di creare occupazione e dare impulso ad una economia “vera”, non drogata. Secondo lei, è una strada percorribile?
«Io non ho dubbi che questa sarebbe la strada giusta. Ma la perversa insistenza nelle "grandi opere" si misura, per esempio, sull'ostinazione a proposito del Ponte sullo Stretto. Quando vi fu la frana di Giampilieri presso Messina, in cui morirono poco meno di quaranta persone, Bertolaso disse che contrastare le frane non si può, costerebbe troppo, due o tre miliardi di euro. Il giorno dopo Prestigiacomo dichiarò che per il Ponte si doveva andare avanti, nulla era cambiato. Insomma, 10 miliardi per il Ponte si trovano, 2 miliardi per mettere in sicurezza il territorio no. La priorità è "far lavorare le imprese", non il pubblico interesse né la vita dei cittadini».
Il degrado del paesaggio, la cementificazione (con i conseguenti disastri “naturali”), l’abbandono della tutela dei beni artistici e culturali (Pompei che cade a pezzi ne è una chiara metafora): sono conseguenze di una idea sbagliata di “sviluppo”, oppure di ignoranza, o di che altro?
«Un'idea sbagliata di sviluppo, certo, ma non solo. In Italia, a ogni crisi vera o falsa, si reagisce con tagli alla cultura. I disastri di Pompei (anzi di tutta Italia) sono la conseguenza di una politica dissennata, che ha tagliato nel 2008 un miliardo e mezzo circa al bilancio dei Beni Culturali, e che da decenni non ne rinnova il personale, sempre più anziano e scoraggiato. Eppure siamo stati il primo Paese al mondo a mettere la tutela del paesaggio e del patrimonio fra i principi fondamentali dello Stato! Duole vedere che su questo fronte il governo Monti appare assolutamente immobile. Qualcuno dovrebbe spiegare ai suoi ministri che in altri Paesi (per esempio la Francia) le spese in cultura non sono state tagliate con la crisi; anzi, sono cresciute in alcuni settori, come la ricerca. Investire in cultura vuol dire pensare al futuro. E non pensare al futuro è un suicidio». Qual è, per lei, il significato di “bene comune”? come possiamo costruire una cultura del “bene comune”? «"Bene comune” vuol dire coltivare una visione lungimirante, vuol dire investire sul futuro, vuol dire preoccuparsi della comunità dei cittadini, vuol dire prestare prioritaria attenzione ai giovani, alla loro formazione e alle loro necessità. In Italia è questo un tema assai antico, che prese la forma della publica utilitas, del “pubblico interesse” o del bonum commune, incarnandosi negli statuti di cento città e generando, prima di ogni costrizione mediante le norme, qualcosa di molto più importante: un costume diffuso, un’etica condivisa, un sistema di valori civili, che ogni generazione, per secoli, consegnò alle successive. Culmine di questo percorso di civiltà è la nostra Costituzione: è ad essa che dovremmo saper tornare, per (ri)costruire una cultura del bene comune. Non a caso Calamandrei diceva che la Costituzione è una polemica contro il presente. Perché è il progetto (ad oggi irrealizzato) per un futuro migliore».
Daniele Tamburini
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