di Daniele Tamburini
I partiti non sono un optional. Sono previsti
esplicitamente dalla Costituzione, all’art. 49 («Tutti i cittadini hanno il
diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere in modo democratico
a determinare la politica nazionale»). Il nostro ordinamento, quindi, li
riconosce quali strumenti fondamentali della progettazione e della gestione
della cosa pubblica. Furono protagonisti della lotta al fascismo, della
Resistenza e della Costituzione, della rinascita del nostro Paese. Sono stati
luoghi di formazione, di acculturazione, di partecipazione per i cittadini. Ma
sono stati, e sono, soggetti travolti da avvenimenti di portata epocale (i
partiti della Prima Repubblica finirono a causa di Tangentopoli, ma anche e
soprattutto perché la caduta del Muro di Berlino e dei regimi dell’Est cambiò in
profondità il quadro politico, istituzionale e anche culturale in cui si erano
sviluppati, dopo la Resistenza e la Carta costituzionale), oltre al vulnus
provocato, in troppe occasioni, dall’occupazione della cosa pubblica, dagli
scandali, dai finanziamenti illeciti o dall’illecito o improprio uso dei
finanziamenti pubblici. Gli ultimi scandali, in ordine di tempo (quelli che
hanno coinvolto l’amministratore della ex Margherita e la Lega), hanno sollevato
una grande indignazione, complici la crisi economica e l’impoverimento generale,
e hanno riportato in evidenza la questione del denaro pubblico ai partiti, ora
erogato sotto forma di rimborso, dopo che un referendum, nel 1993, aveva sancito
l’abrogazione del contributo statale al finanziamento dei partiti stessi, con
più del 90% dei voti. Ma è giusto che i partiti godano comunque di finanziamento
pubblico? E quali dovrebbero essere le norme di garanzia e trasparenza, per
impedire gli scandali? Ne abbiamo parlato con il professor Alessandro Volpi,
docente di storia contemporanea e geografia politica ed economica presso la
Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Pisa.
Professore, una domanda
diretta: lei pensa che i partiti debbano godere o meno di una forma di sostegno
pubblico?
«Il finanziamento pubblico ai partiti è riconducibile ad un'idea di
organizzazione partitica "pesante", dotata di un gran numero di funzionari, di
sedi, che produceva iniziative politiche e sosteneva campagne elettorali con
mezzi di comunicazione tradizionali e molto costosi. Ora questo quadro in gran
parte non esiste più, come del resto testimoniano le valutazione stesse delle
spese sostenute dai partiti; si tratta di realtà molto più snelle, che hanno
minore bisogno di risorse e che quindi sono di fatto sovra finanziate rispetto
alle loro esigenze reali. Peraltro, alcune delle formazioni partitiche che hanno
rappresentanti eletti nelle amministrazioni locali e in Parlamento hanno scelto
di chiedere a tali eletti un contributo finanziario. Dunque il problema si
porrebbe per le formazioni che non hanno eletti. Il tema centrale, è evidente, è
quello della quantità dei finanziamenti che non possono certo più essere
misurati in centinaia di milioni di euro perché la natura stessa dei partiti non
ha bisogno di tali cifre».
Chi sostiene il “no” ai fondi pubblici pensa ad un
modello di tipo statunitense, con contribuzioni private. Dall’altra parte, si
dice che, così, potrebbero vivere solo i partiti che alle spalle hanno o grandi
patrimoni o una grande platea di sostenitori …
«Penso che il modello del
finanziamento pubblico debba essere drasticamente ridotto nel suo ammontare e
debba essere sopposto ad una trasparenza più concreta, soprattutto attraverso
bilanci chiaramente leggibili nelle diverse voci, finalmente declinate in
maniera pienamente comprensibile e debbano essere rigorosamente pubblicati. E'
importante poi che vengano smontate le strutture barocche attraverso cui
rimangono in vita partiti defunti e serve un maggior controllo, una governance
diversa rispetto al ruolo troppo "monocratico" del tesoriere. Queste regole
debbono valere, in maniera ancora più stringente, per i contributi da parte dei
privati che devono essere assolutamente visibili, magari utilizzando percorsi
come quelli del 5 per mille, con dei limiti, anche dimensionali assolutamente
stringenti».
Secondo lei, è possibile ricostruire un rapporto di fiducia tra
cittadini e partiti? Su quali basi? Con quali regole?
«Penso sia indispensabile
uno sforzo, da parte dei partiti stessi, di rilegittimazione della propria
funzione: la dichiarazione secondo cui i partiti sono indispensabile per la
democrazia non può più essere considerato un assunto della scienza politica.
Occorre che questa rilegittimazione della loro sostanza e del loro ruolo passi
attraverso un profondo bagno di umiltà che li porti ad aprirsi alle diverse
forme della partecipazione politiche. Serve che accettino una ricostituzione dal
basso, dal senso civico, dalle competenze e dalla responsabilità che esistono
nei territori perché la dimensione locale è fondamentale per ricomporre il
quadro generale. Pensare ipotesi verticistiche, di rifondazione dall'alto dei
partiti, è assolutamente perdente e non farà che rafforzare l'antipolitica. Al
contrario, partiti rifondati dal basso, con reti comunicative e partecipative,
che sappiano solidificarsi graduatamente in strutture aperte e regolate può
essere la strada per ridare fiato alla politica e risolvere almeno in parte
l'esigenza del finanziamento perché "partiti volontari e orizzontali" costano
certamente di meno».
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