sabato, aprile 28, 2012

Intervista al professor Alessandro Volpi: "I partiti devono rilegittimare la propria funzione" Serve un profondo bagno di umiltà



di Daniele Tamburini 
I partiti non sono un optional. Sono previsti esplicitamente dalla Costituzione, all’art. 49 («Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere in modo democratico a determinare la politica nazionale»). Il nostro ordinamento, quindi, li riconosce quali strumenti fondamentali della progettazione e della gestione della cosa pubblica. Furono protagonisti della lotta al fascismo, della Resistenza e della Costituzione, della rinascita del nostro Paese. Sono stati luoghi di formazione, di acculturazione, di partecipazione per i cittadini. Ma sono stati, e sono, soggetti travolti da avvenimenti di portata epocale (i partiti della Prima Repubblica finirono a causa di Tangentopoli, ma anche e soprattutto perché la caduta del Muro di Berlino e dei regimi dell’Est cambiò in profondità il quadro politico, istituzionale e anche culturale in cui si erano sviluppati, dopo la Resistenza e la Carta costituzionale), oltre al vulnus provocato, in troppe occasioni, dall’occupazione della cosa pubblica, dagli scandali, dai finanziamenti illeciti o dall’illecito o improprio uso dei finanziamenti pubblici. Gli ultimi scandali, in ordine di tempo (quelli che hanno coinvolto l’amministratore della ex Margherita e la Lega), hanno sollevato una grande indignazione, complici la crisi economica e l’impoverimento generale, e hanno riportato in evidenza la questione del denaro pubblico ai partiti, ora erogato sotto forma di rimborso, dopo che un referendum, nel 1993, aveva sancito l’abrogazione del contributo statale al finanziamento dei partiti stessi, con più del 90% dei voti. Ma è giusto che i partiti godano comunque di finanziamento pubblico? E quali dovrebbero essere le norme di garanzia e trasparenza, per impedire gli scandali? Ne abbiamo parlato con il professor Alessandro Volpi, docente di storia contemporanea e geografia politica ed economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Pisa. 

Professore, una domanda diretta: lei pensa che i partiti debbano godere o meno di una forma di sostegno pubblico? 
«Il finanziamento pubblico ai partiti è riconducibile ad un'idea di organizzazione partitica "pesante", dotata di un gran numero di funzionari, di sedi, che produceva iniziative politiche e sosteneva campagne elettorali con mezzi di comunicazione tradizionali e molto costosi. Ora questo quadro in gran parte non esiste più, come del resto testimoniano le valutazione stesse delle spese sostenute dai partiti; si tratta di realtà molto più snelle, che hanno minore bisogno di risorse e che quindi sono di fatto sovra finanziate rispetto alle loro esigenze reali. Peraltro, alcune delle formazioni partitiche che hanno rappresentanti eletti nelle amministrazioni locali e in Parlamento hanno scelto di chiedere a tali eletti un contributo finanziario. Dunque il problema si porrebbe per le formazioni che non hanno eletti. Il tema centrale, è evidente, è quello della quantità dei finanziamenti che non possono certo più essere misurati in centinaia di milioni di euro perché la natura stessa dei partiti non ha bisogno di tali cifre». 
Chi sostiene il “no” ai fondi pubblici pensa ad un modello di tipo statunitense, con contribuzioni private. Dall’altra parte, si dice che, così, potrebbero vivere solo i partiti che alle spalle hanno o grandi patrimoni o una grande platea di sostenitori … 
«Penso che il modello del finanziamento pubblico debba essere drasticamente ridotto nel suo ammontare e debba essere sopposto ad una trasparenza più concreta, soprattutto attraverso bilanci chiaramente leggibili nelle diverse voci, finalmente declinate in maniera pienamente comprensibile e debbano essere rigorosamente pubblicati. E' importante poi che vengano smontate le strutture barocche attraverso cui rimangono in vita partiti defunti e serve un maggior controllo, una governance diversa rispetto al ruolo troppo "monocratico" del tesoriere. Queste regole debbono valere, in maniera ancora più stringente, per i contributi da parte dei privati che devono essere assolutamente visibili, magari utilizzando percorsi come quelli del 5 per mille, con dei limiti, anche dimensionali assolutamente stringenti». 
Secondo lei, è possibile ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e partiti? Su quali basi? Con quali regole? 
«Penso sia indispensabile uno sforzo, da parte dei partiti stessi, di rilegittimazione della propria funzione: la dichiarazione secondo cui i partiti sono indispensabile per la democrazia non può più essere considerato un assunto della scienza politica. Occorre che questa rilegittimazione della loro sostanza e del loro ruolo passi attraverso un profondo bagno di umiltà che li porti ad aprirsi alle diverse forme della partecipazione politiche. Serve che accettino una ricostituzione dal basso, dal senso civico, dalle competenze e dalla responsabilità che esistono nei territori perché la dimensione locale è fondamentale per ricomporre il quadro generale. Pensare ipotesi verticistiche, di rifondazione dall'alto dei partiti, è assolutamente perdente e non farà che rafforzare l'antipolitica. Al contrario, partiti rifondati dal basso, con reti comunicative e partecipative, che sappiano solidificarsi graduatamente in strutture aperte e regolate può essere la strada per ridare fiato alla politica e risolvere almeno in parte l'esigenza del finanziamento perché "partiti volontari e orizzontali" costano certamente di meno».

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