Un vero e proprio terremoto, dagli esiti imprevedibili: lo scandalo che ha colpito la Lega può avere effetti sia negli equilibri politici nazionali, che nelle amministrazioni regionali e locali. Il colpo è duro: coinvolto in prima persona il capo carismatico di sempre, Umberto Bossi, i cui figli sono travolti dalle accuse; coinvolta la vicepresidente del Senato della Repubblica, Rosy Mauro. Voci su possibili transazioni di affari all’insegna del riciclaggio e dell’appropriazione indebita, in cui sarebbe coinvolto il tesoriere Belsito. Il “cerchio magico” di chi era vicino a Bossi: si parla di lauree comprate, fattucchiere, autisti “bancomat”. Ma dove è finito il partito “diverso”? E soprattutto, come reagirà la “pancia” del partito, la base, unita per tanti anni dalla polemica contro “Roma ladrona”? Abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Feltrin, docente alla facoltà di Scienze politiche presso l’Università di Trieste.
La Lega è, probabilmente, uno dei fenomeni veramente nuovi del panorama politico degli ultimi anni in Italia. Un partito molto composito, difficilmente definibile a senso unico. Lei come sintetizzerebbe questa novità?
«In realtà vi sono state diverse leghe, in diversi momenti storici. Il fenomeno leghista nasce 40 anni fa nella seconda metà degli anni 70 dalla crisi delle mobilitazioni collettive di classe. Tale periodo si caratterizza con la propensione al localismo, la riscoperta delle culture e delle tradizioni del passato, la valorizzazione dei dialetti. Questa parte della Lega, tuttavia, non poteva durare a lungo, e infatti si è conclusa a circa metà degli anni '80. E' stato poi Umberto Bossi ad avere un'intuizione, nel 1989: egli, creando la Lega Nord, ha deciso di politicizzare una delle più antiche fratture del nostro Paese, quella tra Nord e Sud. Su questo si basa, di fatto, il movimento, ed è questa la vera novità. Il resto è folklore. Anche questo successo, tuttavia, ha dei limiti: se sono il partito del Nord, infatti, non posso essere, per definizione, un partito regionale, in quanto "il Nord" rappresenta il 45% del Paese. Era questa quindi la grande contraddizione della Lega: troppo grande per essere un partito regionale, troppo piccola per essere nazionale. A questo punto, le scelte erano due: o diventare un partito del Nord ma con la volontà di prendere voti in tutta Italia, rappresentando quindi tutto il Paese, o diventare il partito secessionista, che rivendica l'autonomia del Nord. E' in questa direzione che ha voluto andare Bossi, e questo è anche il tallone d'Achille del movimento. Più recentemente, la Lega ha avuto la capacità di intercettare dei malesseri che sono propri di tutto il Paese, raccogliendo consensi: la questione degli immigrati, che le ha permesso di prendere voti anche sotto il Po; il tema della sicurezza; il tema delle tasse, con la sparata "Roma ladrona". Tuttavia si tratta di tematiche che fanno da corollario a quello che è l'originario pensiero leghista che è, come detto, la frattura tra il Nord e il Sud. A tutto questo, peraltro, l'unica soluzione che da sempre propone Bossi è l'indipendenza del Nord. Dunque i problemi e la crisi del leader leghista non sono i soldi - in realtà solo un pretesto - ma la difficoltà di prospettiva politica del movimento stesso».
Una difficoltà, quindi, non contingente...
Le rispondo con una domanda: può reggere altri vent'anni solo come partito della secessione? In questo si inserisce Maroni, che ha fatto emergere una diversa impostazione: quella di partito del Nord ma con vocazione nazionale. Tuttavia ci si chiede se è in grado di portare l'intero "corpo" della Lega a pensarla in questo modo».
Le note accuse degli ultimi giorni (uso del finanziamento pubblico a scopi privati, che ha coinvolto la stessa famiglia Bossi; riciclaggio ed appropriazione indebita nella cerchia di contatti del tesoriere Belsito) hanno provocato un moto di indignazione nella base. Maroni sostiene che bisogna fare pulizia, e che il corpo della Lega è sano. Lei è d’accordo con questa analisi?
«Maroni dice una banalità, perché in tutti i partiti, per definizione, il "corpo" è sano, in quanto non viene a contatto con i soldi. D'altro canto i partiti che diventano di grandi dimensioni non possono essere partiti della virtù, in quanto non esiste ragione al mondo per pensare che in un movimento si possano concentrare tutti i buoni o tutti i cattivi. Bisogna allora trovare dei meccanismi per separare le mele marce da quelle buone. Questo è possibile solo introducendo regole certe e un maggior ricambio delle classi dirigenti, per cui le mele marce vengono sostituite il prima possibile. Ciò, tuttavia, non accade mai nei movimenti come la Lega. Non a caso l'attuale organismo dirigente del partito è ancora quello delle origini: basti vedere che anche in una fase di cambiamento come quella attuale si propone, come sostituto di Bossi, un Maroni che era comunque nella Lega fin dall'inizio. Tra l'altro la lunga permanenza delle stesse persone alle più alte cariche ha portato inimicizie e rancori che si sono ormai incrostati e che rischiano di finire nell'onda dei ricatti reciproci e delle diffamazioni, come già sta accadendo. Maroni riuscirà a fermare questa tendenza? Riuscirà ad evitare che le varie anime del partito continuino a darsi battaglia con armi improprie? Solo in questo modo, infatti, potrà bloccare la crisi. Ma soprattutto: nel momento in cui Maroni si farà interprete di una svolta nordica nazionale della Lega, la base dei militanti che inneggiano alla Padania libera sarà d'accordo? In sostanza, quindi, sono quattro le fratture interne al partito che sono da sanare: quella interna dei vertici, quella tra moderati e radicali, quella generazionale e quella territoriale (tra Veneto e Lombardia). Il compito di Maroni è gestire tutti questi problemi».
La Lega è un partito nato anche dall’antipolitica (intendendo, con questo, il rifiuto dei partiti “storici”) che pare accodarsi alle abitudini deteriori del passato. Non è il solo a farlo, anche nella Seconda Repubblica. Ma allora, il rinnovamento dei partiti è proprio impossibile?
«Questo è un punto delicato nella vicenda italiana, frutto di un paese da sempre fortemente diviso: Nord e Sud, cattolici e laici, ecc. Tutto ciò lo ha portato ad avere un meccanismo di politicizzazione eccessiva. E' forte, infatti, la pervasione della politica in ogni ambito della vita quotidiana dell'italiano medio; essa è lo sport nazionale del nostro Paese, ancora prima del calcio e delle donne. In tutto questo l'antipolitica è ancora una forma della politicizzazione eccessiva propria dell'Italia. Tutti i giornalisti e i conduttori televisivi si lamentano che da quando è arrivato Monti è drasticamente diminuita l'attenzione della gente nei confronti del dibattito politico. Eppure questa dovrebbe essere la normalità. A tutto questo l'unica soluzione, se si vuole un vero rinnovamento, è far passare il concetto di "meno politica" e di "meno partiti". Nella Lega purtroppo questo non esiste: ci sono troppi politici "di professione", che nella loro vita non hanno mai fatto altro e che non hanno alcuna esperienza di tipo tecnico».
La Lega è un partito che ha accentuato moltissimo il carattere personalistico della leadership. Ora il capo storico, Bossi, è colpito dallo scandalo in prima persona. Questo può far mutare paradigma politico?
«Finché resta un partito-movimento, come è stato per altre esperienze di questo tipo (fascismo, socialismo, ecc), si identificherà come una seconda pelle sul leader storico, e avrà difficoltà a stabilire delle regole di successione. Anche in questo frangente ora la palla è in mano a Maroni: sarà in grado di trasformare la Lega in un partito normale? Secondo me è difficile che possa riuscirci, e il partito rischia quindi di disgregarsi».
E, se si verificasse questo scenario, come si comporterebbe l'elettorato leghista?
«Per ora le linee di uscita dalla Lega sono in chiave antipolitica: una parte verso Beppe Grillo, un'altra verso formazioni di estrema destra. E' invece più difficile che vi sia un partito pronto a ereditare la maggioranza dell'elettorato leghista. Come dicevamo prima, infatti, servirebbe un partito del Nord a vocazione nazionale che però sappia anche assorbire le volontà secessionistiche, ma dubito sia possibile».
La Lega è, probabilmente, uno dei fenomeni veramente nuovi del panorama politico degli ultimi anni in Italia. Un partito molto composito, difficilmente definibile a senso unico. Lei come sintetizzerebbe questa novità?
«In realtà vi sono state diverse leghe, in diversi momenti storici. Il fenomeno leghista nasce 40 anni fa nella seconda metà degli anni 70 dalla crisi delle mobilitazioni collettive di classe. Tale periodo si caratterizza con la propensione al localismo, la riscoperta delle culture e delle tradizioni del passato, la valorizzazione dei dialetti. Questa parte della Lega, tuttavia, non poteva durare a lungo, e infatti si è conclusa a circa metà degli anni '80. E' stato poi Umberto Bossi ad avere un'intuizione, nel 1989: egli, creando la Lega Nord, ha deciso di politicizzare una delle più antiche fratture del nostro Paese, quella tra Nord e Sud. Su questo si basa, di fatto, il movimento, ed è questa la vera novità. Il resto è folklore. Anche questo successo, tuttavia, ha dei limiti: se sono il partito del Nord, infatti, non posso essere, per definizione, un partito regionale, in quanto "il Nord" rappresenta il 45% del Paese. Era questa quindi la grande contraddizione della Lega: troppo grande per essere un partito regionale, troppo piccola per essere nazionale. A questo punto, le scelte erano due: o diventare un partito del Nord ma con la volontà di prendere voti in tutta Italia, rappresentando quindi tutto il Paese, o diventare il partito secessionista, che rivendica l'autonomia del Nord. E' in questa direzione che ha voluto andare Bossi, e questo è anche il tallone d'Achille del movimento. Più recentemente, la Lega ha avuto la capacità di intercettare dei malesseri che sono propri di tutto il Paese, raccogliendo consensi: la questione degli immigrati, che le ha permesso di prendere voti anche sotto il Po; il tema della sicurezza; il tema delle tasse, con la sparata "Roma ladrona". Tuttavia si tratta di tematiche che fanno da corollario a quello che è l'originario pensiero leghista che è, come detto, la frattura tra il Nord e il Sud. A tutto questo, peraltro, l'unica soluzione che da sempre propone Bossi è l'indipendenza del Nord. Dunque i problemi e la crisi del leader leghista non sono i soldi - in realtà solo un pretesto - ma la difficoltà di prospettiva politica del movimento stesso».
Una difficoltà, quindi, non contingente...
Le rispondo con una domanda: può reggere altri vent'anni solo come partito della secessione? In questo si inserisce Maroni, che ha fatto emergere una diversa impostazione: quella di partito del Nord ma con vocazione nazionale. Tuttavia ci si chiede se è in grado di portare l'intero "corpo" della Lega a pensarla in questo modo».
Le note accuse degli ultimi giorni (uso del finanziamento pubblico a scopi privati, che ha coinvolto la stessa famiglia Bossi; riciclaggio ed appropriazione indebita nella cerchia di contatti del tesoriere Belsito) hanno provocato un moto di indignazione nella base. Maroni sostiene che bisogna fare pulizia, e che il corpo della Lega è sano. Lei è d’accordo con questa analisi?
«Maroni dice una banalità, perché in tutti i partiti, per definizione, il "corpo" è sano, in quanto non viene a contatto con i soldi. D'altro canto i partiti che diventano di grandi dimensioni non possono essere partiti della virtù, in quanto non esiste ragione al mondo per pensare che in un movimento si possano concentrare tutti i buoni o tutti i cattivi. Bisogna allora trovare dei meccanismi per separare le mele marce da quelle buone. Questo è possibile solo introducendo regole certe e un maggior ricambio delle classi dirigenti, per cui le mele marce vengono sostituite il prima possibile. Ciò, tuttavia, non accade mai nei movimenti come la Lega. Non a caso l'attuale organismo dirigente del partito è ancora quello delle origini: basti vedere che anche in una fase di cambiamento come quella attuale si propone, come sostituto di Bossi, un Maroni che era comunque nella Lega fin dall'inizio. Tra l'altro la lunga permanenza delle stesse persone alle più alte cariche ha portato inimicizie e rancori che si sono ormai incrostati e che rischiano di finire nell'onda dei ricatti reciproci e delle diffamazioni, come già sta accadendo. Maroni riuscirà a fermare questa tendenza? Riuscirà ad evitare che le varie anime del partito continuino a darsi battaglia con armi improprie? Solo in questo modo, infatti, potrà bloccare la crisi. Ma soprattutto: nel momento in cui Maroni si farà interprete di una svolta nordica nazionale della Lega, la base dei militanti che inneggiano alla Padania libera sarà d'accordo? In sostanza, quindi, sono quattro le fratture interne al partito che sono da sanare: quella interna dei vertici, quella tra moderati e radicali, quella generazionale e quella territoriale (tra Veneto e Lombardia). Il compito di Maroni è gestire tutti questi problemi».
La Lega è un partito nato anche dall’antipolitica (intendendo, con questo, il rifiuto dei partiti “storici”) che pare accodarsi alle abitudini deteriori del passato. Non è il solo a farlo, anche nella Seconda Repubblica. Ma allora, il rinnovamento dei partiti è proprio impossibile?
«Questo è un punto delicato nella vicenda italiana, frutto di un paese da sempre fortemente diviso: Nord e Sud, cattolici e laici, ecc. Tutto ciò lo ha portato ad avere un meccanismo di politicizzazione eccessiva. E' forte, infatti, la pervasione della politica in ogni ambito della vita quotidiana dell'italiano medio; essa è lo sport nazionale del nostro Paese, ancora prima del calcio e delle donne. In tutto questo l'antipolitica è ancora una forma della politicizzazione eccessiva propria dell'Italia. Tutti i giornalisti e i conduttori televisivi si lamentano che da quando è arrivato Monti è drasticamente diminuita l'attenzione della gente nei confronti del dibattito politico. Eppure questa dovrebbe essere la normalità. A tutto questo l'unica soluzione, se si vuole un vero rinnovamento, è far passare il concetto di "meno politica" e di "meno partiti". Nella Lega purtroppo questo non esiste: ci sono troppi politici "di professione", che nella loro vita non hanno mai fatto altro e che non hanno alcuna esperienza di tipo tecnico».
La Lega è un partito che ha accentuato moltissimo il carattere personalistico della leadership. Ora il capo storico, Bossi, è colpito dallo scandalo in prima persona. Questo può far mutare paradigma politico?
«Finché resta un partito-movimento, come è stato per altre esperienze di questo tipo (fascismo, socialismo, ecc), si identificherà come una seconda pelle sul leader storico, e avrà difficoltà a stabilire delle regole di successione. Anche in questo frangente ora la palla è in mano a Maroni: sarà in grado di trasformare la Lega in un partito normale? Secondo me è difficile che possa riuscirci, e il partito rischia quindi di disgregarsi».
E, se si verificasse questo scenario, come si comporterebbe l'elettorato leghista?
«Per ora le linee di uscita dalla Lega sono in chiave antipolitica: una parte verso Beppe Grillo, un'altra verso formazioni di estrema destra. E' invece più difficile che vi sia un partito pronto a ereditare la maggioranza dell'elettorato leghista. Come dicevamo prima, infatti, servirebbe un partito del Nord a vocazione nazionale che però sappia anche assorbire le volontà secessionistiche, ma dubito sia possibile».
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