sabato, febbraio 25, 2012

L’aria è cambiata

Che l’aria sia cambiata lo dicono molte cose, comprese le parole non proprio benevole del ministro Fornero su come vengano rappresentate le donne in TV, e il riferimento, ovvio, non poteva che essere alla discesa di Belen, non in campo, per fortuna, ma della scala, con tanto di farfalla galeotta. Ma, per andare su un terreno diverso, non passa giorno che non ci siano notizie di una sistematica e paziente opera di individuazione dell’evasione e dell’elusione fiscale. Ne parla, in questo numero, il comandante della Guardia di Finanza di Cremona, Alfonso Ghiraldini. L’avevamo capito già dai blitz di Cortina e di Napoli che questo Governo, se voleva avere credibilità non solo in Europa, ma tra i cittadini, poteva chiedere molto solo se dimostrava anche di stringere su chi si era sempre sottratto. Ovvio, la pressione fiscale è diventata davvero insostenibile, soffocante, nonostante tutte le promesse fatte nelle varie campagne elettorali, e molti tra gli evasori si trincerano dietro questa giustificazione. Ma, e gli altri, cosa dovrebbero dire? Chi paga le tasse, coraggiosamente, onestamente o inevitabilmente? Un dato balza agli occhi: sono aumentate le denunce nei confronti dell’evasione, e le denunce non anonime, ma con nome e cognome. Significa che sta crescendo la percezione che evadere le tasse non sia una furbata, ma tolga risorse a tutti, a noi, alle nostre famiglie, ai nostri figli? Significa che ci stiamo allontanando dai tempi in cui chi aveva grandi responsabilità diceva di “comprendere” le ragioni di chi evadeva? Ora, però, bisogna andare oltre. Le risorse recuperate devono essere investite per far decollare di nuovo il Paese. Puntando su ricerca e innovazione, sulla scuola. Investendo sui giovani, aiutando le imprese: cominciando già ad allentare la pressione fiscale su chi lavora, su chi intraprende.

Daniele Tamburini

domenica, febbraio 19, 2012

“Il Piccolo” raddoppia

Il modo migliore per uscire dalla crisi è vivere. Vuol dire rilanciare, non farsi catturare dalla depressione, non lasciarsi impaurire dall’ineluttabilità dei tempi. Rischiare, anche; certamente, con oculatezza. Come dico ai miei collaboratori, “Usate il colino”: fate passare le cose negative, trattenete quelle positive e lavorate su quelle. Bisogna valorizzare ciò che si ha, il proprio brand, la propria marca. Tentare territori nuovi. Ebbene, ci proviamo. Dalla prossima settimana, care lettrici e cari lettori, “Il Piccolo” raddoppia e diventa bisettimanale. Lo trovate il mercoledì mattina ed il sabato mattina, nei consueti punti di distribuzione. Anzi no: più che nei consueti punti. Perché siamo sbarcati anche nel casalasco, con due pagine dedicate, e così anche i casalesi, e non solo, potranno diventare nostri affezionati lettori. Non è facile, soprattutto per noi che facciamo un prodotto gratuito e che non godiamo assolutamente di alcun contributo né pubblico né di altro genere, ma viviamo solo grazie alla pubblicità dei nostri (numerosi) inserzionisti, della passione di un gruppo di lavoro ormai consolidato e affiatato, e di tanti amici e di tante amiche che ci sostengono suggerendo, scrivendo, puntualizzando, aiutandoci a crescere. Certo, chiudono testate consolidate e prestigiose, e questo ci dispiace, anzi ci fa male, così come fa male alla qualità dell’informazione e della democrazia, dimensioni in cui la concorrenza e la pluralità sono elementi importantissimi. Ma torniamo a noi: siamo convinti di poter vincere la sfida. Però voi, care lettrici e cari lettori, siete un elemento fondamentale: se ci leggerete, se continuerete a sostenerci, se ci suggerirete come correggere gli errori, se vi farete sentire vicini a noi, noi ci sforzeremo di dare un prodotto sempre migliore, cercando contributi qualificati, come già stiamo facendo, fornendo approfondimenti, venendo incontro alle esigenze di informazione e di intrattenimento. Davvero: abbiamo bisogno di voi. Cominciate, intanto, con l’ augurarci “In bocca al lupo”. Grazie.

venerdì, febbraio 10, 2012

«La classe dirigente cremonese non è adeguata» intervista a Titta Magnoli, segretario provinciale Pd

di Daniele Tamburini
La relazione che Titta Magnoli ha svolto all’assemblea provinciale del Pd di Cremona, di cui è segretario, contiene valutazioni di grande durezza e un giudizio, articolato ma per molti versi impietoso, sulla situazione del Paese, ma anche, e soprattutto, del nostro territorio. Salta gli occhi una frase: “Io credo che la nostra classe dirigente non sia adeguata, non tanto nelle singole intelligenze, ma per l’incapacità di orgoglio e di reazione”. Valutazione pesante, in specie se espressa dal segretario del maggior partito di opposizione, che ha retto il governo locale fino allo scorso mandato e che si ricandida per ottenere la maggioranza alla prossima tornata elettorale. Ne abbiamo parlato con lo stesso Magnoli, in un'intervista in cui gli argomenti toccati sono molteplici e l'approccio mai banale.
«Voglio fare una premessa» esordisce il segretario Pd: «la relazione era finalizzata a una discussione politica, per cui, più che dura era diretta. Lei si immagina un dibattito politico in cui la premessa è che viviamo nel migliore dei mondi possibile? Ma non c’era alcuna volontà di giudicare ‘da fuori’ bensì di prendersi cura di ciò che si pensa non vada. In politica non dovrebbe esserci posto per i permalosi…».
Senta Magnoli, cominciamo con una cosa che mi ha incuriosito. Cremona è città di musei. Lei ha raccontato di uno studente cinese che chiedeva se l’Europa fosse un laboratorio o un museo. Non crede che si possa essere sia museo che laboratorio?
«Io non amo chi dice che all’Italia basta il suo patrimonio artistico. L’economia non può basarsi solo sul passato, su un terziario di mero sfruttamento. E’ importante, ma non basta. I musei sono fondamentali ma svolgono la loro funzione in pieno se sono fonte di cultura e di ispirazione: se una persona, vedendo il bello, riflette e si commuove. Altrimenti sono dei magazzini con dei quadri appesi alle pareti. Io credo quindi che ci debbano essere musei che ispirino laboratori, che muovano le persone. In questo senso credo che la sfida sia imponente, cioè usare il grande passato per un grande futuro. Questa è la sfida dell’Europa. E questo si fa investendo in ricerca e in formazione, non facendo cadere a pezzi Pompei».
La sua analisi è: un territorio che va a fondo in un Paese che va a fondo in un’Europa che va a fondo. Ma se la crisi è continentale, che spazio possono avere le energie locali?
«Le energie locali non hanno alcuna possibilità di contare. Questo è il dato di fatto. Ma ciò non toglie che se non posso nulla contro la tempesta, almeno apro l’ombrello e mi metto al riparo. E’ questo che si sta iniziando a fare con il Governo Monti. E’ questo che si dovrebbe fare anche a Cremona. Noi abbiamo una realtà che sta subendo colpi pesanti già oggi e che rischia di non reagire per eccesso di tranquillità. Di autocompiacimento. Se una nave affonda preferisco chi ordinatamente va verso le scialuppe e cerca di salvarsi a chi dice “sarà un falso allarme” e prende un tranquillante per dormire meglio. Cosa si può fare a Cremona? Moltissimo. Innanzitutto capire che la crisi si supera insieme, e non andando sparsi come galline spaventate».
Ad un certo punto lei dice: il problema non è, o non è più, la frattura fra capitale e lavoro, ma tra lavoratore italiano e lavoratore cinese, tra imprenditore italiano e imprenditore cinese. C’è sicuramente una grossa questione legata alla competitività, ma, in questo quadro, come si inseriscono i diritti? Il riferimento è anche, ma non solo, all’articolo 18…
«La crisi ci costringe a rivedere il nostro rapporto con i diritti. Ovviamente parliamo di valori che non vanno negoziati, che devono essere difesi. Ma con intelligenza. I diritti di un lavoratore sono sacri finchè questo può dirsi tale. Se non lavora più, se la sua azienda ha chiuso perché incapace di competere, ha perso tutti quei diritti in un colpo solo. Da qui la mia insistenza: in questa crisi datore e lavoratore sono sulla stessa barca e possono salvarsi solo insieme. Guardi, l’articolo 18 è l’ultimo dei problemi e parlare di quello è distogliere l’attenzione dai temi veri. Lo sanno bene anche i sindacati. Ma la battaglia ormai è simbolica. Noi competiamo in modo asimmetrico con chi non ha alcun tipo di freno. Ed è ovvio che dobbiamo mettere sul piatto della bilancia le due cose, competitività e diritti, e capire fino a che punto siamo disponibili a mediare».
Veniamo al nostro territorio. Il suo giudizio sembra senza appello. Arretratezza, “vuoto cosmico di idee e contenuti” (la sto citando), e un giudizio sulla classe dirigente, complessivamente intesa, di questo genere: “Io penso che la classe dirigente del territorio oggi sia inadeguata ad affrontare la sfida. E lo dico senza pietismo e finzioni. Sarebbe comodo autoassolversi, tanto siamo tutti sulla stessa barca”. Valutazioni così nette presuppongono l’aver ripensato anche le radici e la storia di questo malessere. Ce ne vuol parlare?
«Guardi che la mia relazione è costruttiva, non è senza appello. E’ un richiamo che faccio a me per primo, sottoponendomi ai brontolii di molti. Non pensi che non mi fischino le orecchie. Dico che la classe dirigente non è adeguata perché non ha orgoglio, non difende il territorio, non lotta. Pensi a cosa subisce ogni giorno un pendolare della nostra provincia. Non è abbastanza perché tutto il sistema cremonese si incateni sotto il Pirellone. O i pendolari sono cittadini di serie B? Ecco, io non vedo questo orgoglio nella reazione. Anzi, noto talora un certo fastidio se si fanno notare alcune cose. I pendolari? Seccatori. L’opposizione? Abbaia. I
cassintegrati Tamoil? Cosa vogliono di più. Andando avanti così il territorio morirà davvero. Il dibattito pubblico, invece, si concentra sul canile, su un sito internet di informazione che apre, sul tendone per il capodanno in piazza. Ma se fai notare che così non va, ti guardano infastiditi».
Il suo giudizio, ha ribadito più volte, coinvolge tutte le forze politiche, sociali, economiche, e non risparmia una stoccata anche alla Chiesa…
«Sono uno dei pochi politici che ha il pudore di affermare di non essere cattolico, senza quelle strane frasi sofferenti che fanno pensare a chissà quali travagli interiori, per cui non mi sognerei mai di dare stoccate a una istituzione bimillenaria come la Chiesa. Ma nella mia vita ho avuto modo di conoscere il fermento che c’è negli ambienti cattolici, l’attenzione alla politica e trovo un peccato che non si riesca a fondere insieme tutte le varie energie. Ci sono iniziative più che lodevoli ma sempre tenute separate, distinte. La mia non era una stoccata, quindi, ma l’invito a condividere, a fare politica insieme. Pensando sì alla città di Dio, ma anche, ogni tanto, alla città dell’uomo».
Posso dirle una cosa? La sua analisi è per molti versi affascinante, e riesce anche a convincere, giustamente caustica e dura. Ma poi, al momento della proposta, resta un po’ nel vago. Innovare, lavorare di più e meglio, discutere in modo franco e acceso. Tutto ok, ma … su che cosa? Come? Con chi? Non crede che sia anche il tempo di risposte chiare e circostanziate?
«E’ una critica che accetto. Ma se avessi tutte le risposte io da solo sarei solo un cretino borioso. Cerco di dire altro: le risposte dobbiamo trovarle insieme. Diciamo che questa relazione è un primo tempo, non sperava né di suscitare tutto questo dibattito, né di esaurire il tema. Partiamo da una affermazione molto grave che ho fatto e che ho notato è stata sorvolata. Io temo che Cremona si svegli un giorno come Parma, con una situazione economica vicina al dissesto. E’ una preoccupazione, non ancora una valutazione politica. Ma vedo che si continua a riempire la pancia delle municipalizzate con debiti per operazioni immobiliari quantomeno discutibili, tipo il Massarotti. Il debito delle aziende pubbliche è debito del Comune, mica di altri. Ecco, come primo passo partirei dai conti, con una grande operazione di trasparenza sui beni pubblici. Trasparenza vera, ovviamente, cioè comprensibile. Questo sarebbe l’inizio e chissà quante sorprese. Senza tanti “è colpa mia, è colpa tua”. Credo che i cremonesi debbano sapere come vengono usati i loro soldi. Questo si collega alla vicenda Lgh, ma non voglio continuare su questa via. Faccio un altro esempio. Come affrontiamo, in tempi di crisi, in una città che detiene il primato dell'invecchiamento della popolazione il tema dei servizi per gli anziani e i disabili? Davvero si pensa che sfilando i soggetti che ora intervengono, la Fondazione città di Cremona ed il Comune, dalla responsabilità diretta verso quei servizi ed affidandoli ad un soggetto privato si risolveranno tutti i problemi? Invece di parlare di queste cose ci concentriamo sui permessi di parcheggio agli amministratori. In un dibattito falsato, come se questi fossero una casta famelica e cattiva perché hanno un piccolo beneficio nel loro servizio. Qualcuno ha fatto un po’ i conti? Gli amministratori sono, esagerando, un’ottantina. Poi ci sono i medici in servizio, gli artigiani, i commercianti al lavoro. E gli altri chi sono? Tutta casta? Tutta politica cattiva e famelica? Come si arriva a quei numeri iperbolici (per Cremona)? Una bella operazione giornalistica sarebbe pubblicare tutti i nomi. Ci divertiremmo. Ecco, mi sono attirato altri nemici…».
Ci penseremo, Magnoli. Potrebbe essere tema di una buona inchiesta... Per adesso, grazie.

Servono persone adeguate, o meglio, capaci

Presi – giustamente - dall’emergenza Paese e dalle misure economiche di contenimento e di risanamento, abbiamo forse prestato poca attenzione alla sostanza del cambiamento profondamente politico in atto, che seppure con tante contraddizioni, sembra produrre risultati. Un governo tecnico, però, non è eletto dai cittadini: inutile girare intorno al problema. Significa che il voto non aveva saputo esprimere forze, alleanze, coalizioni capaci di tirarci fuori da una situazione pericolosissima e tutt’altro che risolta. Significa che l’offerta politica presente al momento del voto non era complessivamente all’altezza della domanda del Paese (siamo molto generosi oggi). E che il problema, il rovello, il disagio sia perfettamente bipartisan lo dimostrano, venendo alle cose di casa nostra, le interviste che pubblichiamo in questo numero, di due esponenti di punta dei rispettivi schieramenti politici: Titta Magnoli, Pd, e Ugo Carminati, Pdl. Colpiscono molto, nelle evidenti e ovvie differenze di opinioni, alcune analisi di fondo. Soprattutto, si stigmatizza l’autoreferenzialità della classe politica del nostro territorio. Non solo politica, dice Magnoli, allargando il tiro. Insomma, la politica – e le amministrazioni - non fanno che guardare il proprio ombelico, mentre il mondo corre a rotta di collo. “Un eccesso di tranquillità e di autocompiacimento”, sostiene Magnoli. Le idee messe in secondo piano, rispetto a schieramenti, carriere e poltrone, dice Carminati, a margine di un congresso provinciale del Pdl con unico candidato e lista bloccata. Che dire? Ci vorrebbe un governo tecnico, anche per il nostro territorio? Ma il giudizio di Magnoli coinvolge tutta la classe dirigente, e si sa, ci vuole tempo per far crescere la capacità politica e amministrativa dalla società civile. E allora? Pochi giorni fa, l’onorevole Pizzetti richiamava all’etica della responsabilità e dell’interesse pubblico. Anch’egli parlava di staticità della situazione, e si augurava, per il proprio partito, il Pd, che i sindaci venissero coinvolti nella direzione politica. Giusto. E allora, la butto lì, gli attuali dirigenti politici, quelli capaci e con esperienza da vendere, non potrebbero fare il sindaco?

Daniele Tamburini

Sull’articolo 18 un dibattito di retroguardia - intervista al professor Maurizio Del Conte

di Daniele Tamburini
Pare che attorno alla legislazione sul lavoro si stiano giocando molte delle poste su cui ha puntato il governo Monti. L’assunto, secondo il premier, è che una maggior flessibilità nel mercato del lavoro possa dare fiato alle imprese ed alle loro strategie occupazionali, ancora oggi troppo imbrigliate da una normativa ipergarantista verso coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato. Il totem e il tabù è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la legge 300 del 1970, che sancisce il divieto di licenziamento senza giusta causa. Se ne parla da molti anni: nel marzo del 2002, la Cgil portò in piazza a Roma tre milioni di lavoratori, per contrastare l’ipotesi di revisione dell’articolo 18. Da allora, e non solo da destra, si insiste sulla necessità, se non dell’abolizione, della revisione. I tempi sono cambiati in profondità: precariato, lavori atipici, crisi, disoccupazione. Ma i sindacati resistono e rilanciano: come si fa a contrastare la recessione, se si pensa a licenziare di più, e non a creare crescita, occupazione, sviluppo? Nel dibattito ampio e articolato, in cui non mancano punte di asprezza, con la ministra Elsa Fornero in prima linea, si è inserita la battuta del premier Monti sulla “noia” del posto fisso. Abbiamo chiesto un parere a Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro e relazioni industriali all’università Bocconi di Milano.
Professor Del Conte, perché il nodo della normativa che regola il lavoro a tempo indeterminato è diventata, oggi, così importante?
«Questo dibattito, in realtà, eccede la sostanza del problema, nel senso che l’articolo 18, come dimostrano i dati sulla scarsa incidenza della reintegrazione sulle cause di licenziamento, non è la vera questione in gioco. Esso ha il solo scopo di prevedere la sanzione nei casi di licenziamenti illegittimi. Il discorso della giusta causa è invece normato da una legge del 1966 (legge 604 del 1966, che definisce il concetto di “giusta causa” e “giustificato motivo”, ndr). Dunque quello in atto è un dibattito sbagliato anche nella sostanza. Un dibattito di retroguardia, che non produce un ammodernamento del mercato del lavoro, ma anzi, comporta un arretramento».
Il punto è, ancora oggi, l’articolo 18, che – a nostro parere – forse riveste un aspetto molto simbolico, oltre che sostanziale. Ci potrebbe presentare, brevemente, i diversi punti di vista?
«In effetti è vero che l’articolo 18 ha un valore simbolico, che è poi quello che si sta cercando di abbattere: si pensa che eliminando tale prescrizione si possa ottenere quella spinta verso la crescita che oggi manca. A questo proposito mi limito a ricordare che la Carta sociale europea, il documento più significativo in materia, stabilisce che il lavoratore ha diritto alla tutela contro il licenziamento illegittimo. Dunque anche in Europa il problema della giusta causa esiste, e non è certo qualcosa che si possa cancellare con un colpo di penna. Nessuna legislazione nazionale degli stati membri dell’Unione europea che privasse il lavoratore della possibilità di far valere l’ingiustificatezza del licenziamento sarebbe conforme ai principi del diritto europeo. Credo che sia molto più interessante discutere della flessibilità organizzativa, ossia la necessità di garantire un posto di lavoro a tempo indeterminato, facendo però in modo che sia più agevole lo spostamento dei lavoratori da una mansione all’altra o da un luogo all’altro all’interno della stessa azienda. Attualmente vi sono troppi blocchi burocratici e procedurali che non lo permettono. In Italia invece ci si incastra in discussioni senza capo né coda sulla flessibilità in uscita. Dico che non esiste un’impresa che investe sul proprio futuro che si ponga il problema di come licenziare. Tutt’altro: l’imperativo è dare più valore al lavoro dei propri dipendenti. La riduzione del costo del lavoro è una volontà propria di imprese che non credono nel proprio futuro e nella propria competitività. Aziende che sono destinate a incontrare una sorte nefasta nel medio periodo. Se esiste un problema di attrattività del nostro paese rispetto alle regole sui licenziamenti, non riguarda certo l’articolo 18, ma piuttosto la scarsa chiarezza delle regole: abbiamo una nozione di “giustificato motivo” talmente ampia che è difficile dare delle risposte in termini di certezza, dal punto di vista giuridico. E’ questo quello che potrebbe bloccare gli investitori stranieri nell’accostarsi al nostro paese. Dunque, premesso che non si può rimuovere l’obbligo di giustificare il licenziamento, si dovrebbe specificare e circoscrivere tutti quei casi in qui il licenziamento è effettivamente illegittimo, e quali sono invece i casi in cui esso è legittimo; quando, ad esempio, è costretta a farlo per motivi economici o perché deve ristrutturarsi e modificare le proprie linee produttive». 
In molti si chiedono: ma perché, in presenza di cassa integrazione, disoccupazione, precariato, sarebbe necessario abbattere ulteriori garanzie? Come fa un licenziato, magari di mezzaetà, a ritrovare lavoro?
«Per un certo periodo di tempo alcuni economisti hanno sostenuto che la rigidità in uscita costituirebbe un freno alle assunzioni, e quindi comporterebbe un calo dell’occupazione. Tuttavia tali teorie non hanno ottenuto riscontri nelle ricerche fatte dagli stessi economisti. Riducendo le protezioni in entrata, in realtà, aumenta il turnover e quindi anche le fasi di intermedia disoccupazione. C’è poi il tema degli ammortizzatori sociali, i quali però devono essere legati a un percorso di rioccupazione, che attualmente nel nostro paese manca. Bisogna mettere in campo percorsi di riqualifica professionale da abbinare al meccanismo degli ammortizzatori sociali per chi resta senza lavoro. Si tratta di una riforma strutturale, di vasto respiro e lungo periodo, che potrebbe portare a risultati importanti. Purtroppo invece l’attuale dibattito mediatico provoca risposte che cercano una soluzione immediata da un lato, e dall’altro un’opposizione a prescindere».
Lei cosa pensa della flessibilità tout court, che parrebbe caldeggiata anche dal premier Monti nella sua ormai celebre battuta sulla “noia” del posto fisso? I giovani dicono: parlatene alle banche, per i mutui, o agli asili, per i posti dei figli…
«Secondo me si è fatta confusione tra la legittima rivendicazione del lavoratore di poter crescere professionalmente, cambiando diverse posizioni nella propria carriera lavorativa, con il problema del lavoratore che non sceglie ma subisce la perdita del posto di lavoro. Sono due cose completamente diverse: in entrambi i casi c’è una discontinuità ma nel primo caso è voluta, programmata e prevede la sicurezza di un’altra prospettiva occupazionale; diverso è invece trovarsi licenziato perché qualcuno mi dice che “altrimenti mi annoio”. Mi pare che vi sia un’invasione di campo nella legittima aspettativa di organizzare la propria carriera. Del resto è vero che nessuno garantisce il posto fisso, ma esso resta un obiettivo di tendenza per tutti. Se tale obiettivo viene eliminato si fisiologizza l’idea della precarietà. Questo non è negativo solo per la disoccupazione che ne consegue, ma lo è anche per lo sviluppo del percorso professionale del lavoratore. Se l’arco di vita lavorativa è continuamente caratterizzato da interruzioni non volute, viene meno l’evoluzione del lavoratore stesso, finché il capitale umano non ne viene impoverito. Se il percorso di crescita professionale può venire interrotto in qualsiasi momento, si finisce per frustrare ogni ipotesi di miglioramento. Questa non è certo una manovra lungimirante per l’economia del paese. Non solo per una questione etica, ma perché di fatto in tutte le società evolute, compresi gli Usa, dove c’è molta più libertà nei licenziamenti, il posto fisso rappresenta l’obiettivo di tendenza di cui parlavo prima. Tutto ciò non si risolve certo con il contratto unico, che è stato ipotizzato al posto dell’articolo 18: i lavoratori dovranno essere assunti a tempo indeterminato, ma saranno licenziabili senza giusta causa o giustificato motivo e, in tal caso, avranno diritto a un semplice indennizzo. Si amplierà il divario tra chi è protetto, gli insiders, e chi non ha alcuna tutela, gli outsiders. Pensiamo a questo: nel corso degli anni la legislazione che ha normato il rapporto contrattuale di lavoro, in cui la merce è una dimensione fondamentale della persona, si è evoluta creando un meccanismo di protezione del posto di lavoro che risulta vantaggioso per la società nel suo complesso. Tutto ciò dà, infatti, una prospettiva di relativa stabilità economica, risultato di decenni di affinamento in cui si è capito che il lavoro dell’impresa funziona in presenza di tale stabilità. Dunque è meglio riflettere bene prima di “buttare a mare” questi decenni di evoluzione. Se ci facciamo spaventare da una crisi economica e pensiamo che ad essa debba corrispondere lo smantellamento di certezze come quella del lavoro stabile, la nostra è una reazione miope a un problema che ci porteremo poi dietro per decenni. Oggi si vive sul dato giornaliero dello spread, perdendo di vista gli obiettivi per il futuro. Non possiamo pensare solo a ciò che accade domani, dobbiamo ragionare anche sulle prospettive che avremo di qui a 10 o 20 anni, specialmente per quanto riguarda il futuro dei giovani».

venerdì, febbraio 03, 2012

Le liberalizzazioni trasferiscono risorse ai giovani . Intervista al professor Paolo Manasse

Di Laura Bosio e Daniele Tamburini

Il cosiddetto “pacchetto liberalizzazioni”, predisposto dal governo Monti, sta suscitando grande dibattito e veementi proteste all’interno delle categorie interessate. Anche se, ovviamente, sia l’impatto, che lo stesso merito delle liberalizzazioni non hanno lo stesso peso, per dire, per tassisti, farmacisti o notai. Il concetto è chiaro: la nostra economia è stagnante, e lo è anche per lacci e laccioli, pressioni di gruppi di interessi, meccanismi di protezione dalla concorrenza. Liberalizzare, per il Governo, significa dare nuova linfa ai meccanismi del mercato, dare ossigeno e nuove risorse a famiglie ed imprese, far ripartire l’economia. Tutto questo ha scatenato, dicevamo, proteste, contestazioni e scioperi. Nella realtà italiana di oggi, complicata e difficile, il tutto si è mescolato a proteste di segno diverso, dagli autotrasportatori ai pescherecci, ma si ascoltano anche voci che, all’interno degli stessi ordini professionali interessati, parlano di provvedimenti abbastanza limitati. Abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Manasse, docente di Macroeconomia e politica economica all’Università di Bologna.
Professor Manasse, ci può aiutare a dipanare la matassa delle liberalizzazioni predisposte dal governo Monti?
«Si tratta di misure finalizzate a rimuovere le cosiddette "barriere all'entrata" di alcuni settori economici. Parliamo ad esempio del numero dei tassisti e delle farmacie, o dei requisiti per fare tirocini finalizzati all'iscrizione a un ordine professionali. Ostacoli che, limitando l'accesso alle professioni, contribuiscono a mantenere alti i prezzi. Si tratta di situazioni di privilegio che le liberalizzazioni vogliono eliminare, in una serie di settori che rappresentano circa il 40% del Pil. Tra l'altro, le barriere all'entrata ostacolano l'innovazione tecnologica: un elevato livello di monopolio, infatti, porta a non avere interesse a innovare, mentre una concorrenza più stringente incentiva l'innovazione e la ricerca».
Liberalizzare, stimolare la concorrenza, limitare, se non abbattere, le nicchie di privilegio: è questo dunque il volano della ripresa?
«Questi provvedimenti hanno effetti sia a livello settoriale che macroeconomico. Per quanto riguarda i settori economici, l'aumento del numero degli attori porta al calo dei prezzi e alla crescita delle merci in circolazione.
A perdere sono solo coloro che godevano dei privilegi. Ma facendo un bilancio sono più numerosi gli aspetti positivi, e la società ci guadagna. Magari si potrebbe pensare di compensare alcune categorie perché possano mitigare gli effetti della liberalizzazione. Per quanto riguarda gli effetti macroeconomici, possiamo rifarci alle esperienze di altri paesi in cui si è intrapresa la strada delle liberalizzazioni. Molti studi rilevano che si sono ottenuti guadagni in termine di riduzione dei prezzi in alcuni settori (es: tariffe telefoniche, linee aeree, ecc). Aumenta inoltre la propensione a innovare e fare ricerca, attraendo un maggior numero di investitori esteri. Ma tutto ciò rappresenta solo una parte della soluzione del problema. Bisogna infatti vedere quale fiducia si può nutrire in questo pacchetto di liberalizzazioni. Ad esempio un po' stupisce il fatto che vi siano liberalizzazioni solo parziali, in certi settori: ad esempio per le farmacie o i tassisti non si aboliscono le licenze, ma se ne aumenta il numero. In questo modo però le protezioni di tali categorie non vengono abolite, ma solo ridotte. Sarebbe invece stato preferibile un intervento più incisivo. Queste misure presentano inoltre alcuni problemi legati al fatto che nonostante le liberalizzazioni ricoprano un ampio ventaglio di attività, per alcuni settori non si prevede praticamente nulla. Sto parlando dei mercati finanziari, delle banche, delle assicurazioni».
In effetti sembra che il sistema del credito e della finanza non sia stato toccato più di tanto dalle riforme...
«E' proprio questo l'errore. Ci sono ambiti, come la disciplina delle partecipazioni incrociate, o il ruolo delle fondazioni bancarie, che creano molti problemi. Prendiamo ad esempio il ruolo delle fondazioni: questi organismi dovrebbero essere di controllo, ma in realtà vengono a loro volta controllati dalla politica del territorio, che a sua volta condiziona la banca stessa. Così chi vuole investire non lo farà certo in un istituto di credito dove le decisioni sono prese dal sindaco o dal presidente della Provincia. Se andiamo ad analizzare paesi che funzionano meglio dell'Italia, vediamo che le liberalizzazioni messe in campo sono proprio quelle legate ai mercati finanziari, che per i paesi avanzati sono quelle che funzionano meglio. Questo accade perché il sistema del credito è fondamentale per lo sviluppo dell'economia. Quindi possiamo dire che questa manovra è una grande svolta, ma lascia un po' di amaro in bocca. C'è poi il problema che, nonostante ci sia un testo unico che prevede norme piuttosto strette, nella pratica si usano spesso escamotage per aggirarle. Così troviamo persone che fanno parte di Consigli di amministrazione di diverse banche; oppure si trovano partecipazioni incrociate tra banche e grandi imprese che creano legami collusivi e il credito viene dirottato verso tali grosse aziende, a scapito di quelle più piccole, che hanno invece difficoltà ad accedervi. Sarebbe
quindi opportuno un inasprimento delle normative. Allo stesso modo si dovrebbe cambiare le fondazioni, privatizzandole in modo che venga evitata l'ingerenza della politica».
Cosa ne pensa delle proteste in atto? Sono solamente corporative, o c’è un qualche fondo di verità?
«Senza dubbio le categorie vengono toccate nel vivo e quindi le proteste sono legittime. Certi settori poi, come ad esempio i trasporti, sono state molto sacrificate dall'incremento dei carburanti, che incide per il 70%. Tuttavia, come ho detto prima, si potrebbe pensare, per tali categorie, a una forma di convenzione o di sgravio fiscale che attenui  gli effetti della manovra».
“La miseria dei molti e la ricchezza di pochi”, ha scritto in un suo recente articolo. Quali altre misure sarebbero necessarie per una maggiore equità?
«Fino alla crisi del 2008, in realtà, non c'era mai stata una grande disuguaglianza sociale. Il problema oggi che sta aumentando il divario tra ricchi e poveri, anche a causa di una forte redistribuzione del ceto medio: operai e impiegati sono scesi verso la povertà, mentre i lavoratori autonomi ci hanno guadagnato. L'altro aspetto da tenere presente è che la nostra è una società bloccata dalla mancanza di possibilità per chi non nasce in una famiglia abbiente. In sostanza i figli dei poveri restano poveri, e i figli dei ricchi restano ricchi. Questo perché carattere individuale e merito nel nostro paese hanno scarso peso. Proprio a questo proposito le liberalizzazioni sono importanti, andando nella direzione di trasferire risorse ai giovani. Oltre a questo sarebbe utile trasferire le risorse legate all'evasione fiscale sulla riduzione delle aliquote per le fasce medio-basse. Questo sarebbe fondamentale sia per la redistribuzione del reddito che dal punto di vista economico, con l'incremento dei consumi ».

L’eccezione si fa sistema

Eccezionale: la parola ci perseguita. Eccezionale l’ondata di gelo, neve e ghiaccio che si sta abbattendo sul nostro Paese: danni, tanti, ai sistemi dei trasporti, all’economia in generale, oltre alle persone che si trovano in oggettiva difficoltà. È difficile, d’altronde, pretendere che la terra del sole si confronti con agio con temperature siberiane per giorni e giorni. Davvero, pare che tutto stia cambiando. La sensazione di incertezza emerge ovunque, anche dalle parole di addetti ai lavori molto autorevoli: se leggete il nostro speciale economia, vedrete che le analisi a volte sono difformi, i timori sono differenziati, e la complessità di questo nostro mondo emerge in tutta la sua sostanza. Prendiamo il giudizio sulle liberalizzazioni: per molti, compreso Paolo Manasse, sono una salutare scossa al sistema produttivo, anche se vengono giudicate incomplete; per altri, e soprattutto per i sindacati, andranno ad incidere pesantemente sulla qualità della vita dei lavoratori: il prolungamento degli orari di lavoro, per alcuni, rischia di togliere anche il piacere di ritrovarsi con la famiglia a cena, magari solo a cena, unico momento per parlare un po’, per condividere la vita … Ma anche per questo, per la deregolamentazione degli orari nei negozi, si invocano le ragioni dell’economia. Certo, senza economia, ormai, non si vive. Però ci sono le ragioni dei piccoli negozi, che dicono: non ce la facciamo, a sostenere il peso di un nastro orario di apertura così prolungato. Questo aiuterà la grande distribuzione: ma non era necessario, come detto da più parti, incentivare il commercio di quartiere, le ragioni del piccolo coltivatore, e via dicendo? Davvero, una grande confusione, una grande incertezza. Con una domanda finale: le banche. Il sistema creditizio, cosa mette di suo per aiutare a venir fuori dalla crisi ? Risposta: una beata…

Daniele Tamburini