domenica, dicembre 08, 2013

La crisi? Era stata prevista e si poteva evitare. Intervista a Giuseppe De Luca, docente di storia economica

«Per ripartire serve una rigenerazione morale della classe dirigente e politica. Dobbiamo vivere con i piedi nel borgo e la testa nel mondo»

Si poteva prevedere, e forse anche prevenire, l’attuale crisi economica? Forse sì, se gli economisti avessero avuto maggiore contezza della storia che ci siamo lasciati alle spalle. E’ l’interessante tesi su cui si è sviluppato un recente convegno all’Università Statale di Milano, dal titolo “La storia economica. Discorsi sul metodo”, organizzata dalla Sise, l’associazione di riferimento nazionale. Ne parliamo con uno degli organizzatori, il professor Giuseppe De Luca, docente si Storia economica all’Università Statale di Milano. Professor De Luca, quindi “historia magistra vitae” anche per quanto riguarda l’economia? 
«La storia economica può dare importanti lezioni, ma se tali lezioni non vengono poi assimilate, le situazioni negative si ripeteranno all'infinito: la crescita straordinaria di determinati settori finisce sempre in una bolla. Questa crisi economica si poteva evitare e molti lo avevano visto e denunciato, nel corso degli anni, ma chi aveva interessi crescenti ha voluto ignorare la situazione. Abbiamo perso gradualmente il senso del valore sociale condiviso, scivolando sempre più in una visione individualistica della società. Finché alcuni settori economici hanno finito per distaccarsi dalla realtà. Una situazione che nella storia avevamo già visto: nel '500 si era sviluppato un mercato di cambio, attraverso le lettere di cambio gestite dai genovesi e utilizzate per finanziare l'impero spagnolo. Esse arrivarono ad essere cinque volte le entrate dei principali imperi europei. Ciò dimostra che, nella storia, la finanza e' stata spesso utilizzata in maniera sbagliata, in modi che l'hanno portata ad essere completamente scollegata dall'economia reale. Situazione che spesso è andata di pari passo con la circolazione di informazioni non corrette: vere e proprie frodi, oggi come allora». 
Dove pensa che possa essere individuato il punto di origine dell’attuale crisi? 
«La crisi che stiamo attraversando affonda le proprie radici nel boom economico degli anni '70. Gli strumenti finanziari non sono positivi o negativi in se': nascono con determinate funzioni, poi possono prendere diverse direzioni, in base a come vengono utilizzati. Quando venne meno il sistema di Bretton Woods, che stabiliva le regole delle relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo, contemporaneamente alla fine del sistema dei cambi fissi che poggiavano sulla forza del dollaro, iniziarono ad essere introdotti nuovi strumenti derivati (come i "future") che permettevano ai produttori di petrolio di stabilizzare i prezzi. Di lì partì anche il ritiro dei mercati dalla regolazione economica: erano gli anni della deregulation, del divorzio tra Banca d'Italia e Tesoro. Ne derivò un mercato libero in cui chi aveva i soldi investiva sull'industria della finanza, che non aveva grandi regole. Si proseguì lungo la strada delle deregolazione della finanza, che raggiunse l'apice nell'epoca di Clinton, poco prima della crisi economica. In quegli anni ci fu chi cercò di fermare questo fenomeno, ma le lobbies della finanza, dotate di grande potere, si opposero alla regolamentazione del processo di finanziarizzazione. In sostanza, si è perso il controllo sulla finanza privata, e questo ha inciso anche su quella pubblica. Accanto a questo abbiamo visto anche un mutamento antropologico per cui, rispetto a una morale basata su impegno e sacrificio, la logica della stabilità è stata sostituita dall'instabilità, dal "mordi e fuggi". Non si investe più nelle piccole cose certe, ma su un mercato sempre più incerto. Per questo ora si dovrebbe restituire una regolamentazione ai mercati e alla finanza, recuperando quella fiducia nei mercati che è venuta meno». 
Lo si sta facendo? 
«Si è iniziato a fare qualche passo, ma non è semplice, anche perché in uno Stato in cui il ceto medio è continuamente tassato i piccoli risparmiatori non hanno soldi da investire. La tassazione in Italia non è proporzionata rispetto al reddito e alla condizione delle famiglie». 
La sua opinione sulla gestione del debito pubblico nel nostro Paese? 
«Il debito pubblico nacque nella seconda metà degli anni '70 come grande catalizzatore di tutte le tensioni sociali che c'erano in quell'epoca, in quanto lo Stato non voleva essere costretto ne' a disciplinare le richieste delle classi operaie nè a tassare l'imprenditoria. La spesa pubblica ebbe quindi la funzione di costruire il sistema di welfare, che però non veniva adeguatamente finanziato, in quanto l'evasione fiscale era ai massimi livelli. Fu l'ingresso nel sistema europeo a costringere il Paese a fare finalmente un'analisi della finanza pubblica. Nel 1990 il debito era arrivato ad essere il 100% del Pil, una situazione figlia di quel liberismo craxiano in cui era abitudine fare quello che si voleva. Il problema del debito pubblico non ha tante soluzioni. Una soluzione potrebbe consistere nel puntare su un periodo di inflazione, che però, essendo nell'area euro, non possiamo avere. La seconda soluzione sarebbe fare in modo che il tasso di crescita sia superiore al tasso di interesse con cui viene remunerato il debito pubblico; tuttavia, anche in un momento in cui quest'ultimo si trova ai minimi storici, come accade oggi, ci troviamo di fronte ad un tasso di crescita che è il peggiore al mondo, dopo Haiti. Si è parlato di fare spending review ma si sono andati a tagliare settori essenziali, come la cultura o l'istruzione, mentre invece non si sono toccati i veri sprechi: quelli della politica e delle pubbliche amministrazioni, che sono decisamente troppe». 
Un altro tema: la cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia. Lei cosa ne pensa? 
«Si sono fornite sempre più occasioni di speculazione, andando a rubare risorse all'economia reale. Il nostro Paese ha visto venire meno gli investimenti sulla tecnologia e sull'innovazione, oltre a ridurre il costo del lavoro: ciò porta ad una dequalificazione dell'impresa italiana, che fa venir meno anche la crescita. Negli anni del miracolo economico si è continuato ad accumulare profitto senza che i capitali venissero reinvestiti per la crescita. Al punto in cui siamo, la finanza deve ritrovare la propria identità nel servizio dell'economia reale». Con uno sguardo a quanto accaduto nella nostra storia, ci sono esempi dai quali poter attingere per rimettere in marcia l’economia e creare occupazione, uno dei punti centrali per ridare un po’ di fiato al Paese? 
«Le modalità per ripartire sono le stesse di sempre: bisogna restituire liquidità al sistema abbassando il costo del denaro, diminuire il cuneo fiscale, recuperare equità per arrivare ad un equilibrio fiscale. Tutto questo avrebbe conseguenze positive sul nostro sistema economico, come è sempre accaduto in tutti i Paesi in cui tutte le componenti della società pagavano in modo equilibrato. Il sistema di solidarietà, il cooperativismo, sono economicamente efficienti, in quanto garantiscono un equilibrio, ed è a quello che dobbiamo tornare. C'è poi da recuperare una situazione culturale che in questi anni abbiamo perso completamente. E' necessaria una rigenerazione morale dei dirigenti e della classe politica, che da tempo è degenerata. Ognuno di noi deve ripartire da una propria micro-rivoluzione interiore: bisogna pensare al prossimo, al territorio in cui si è inseriti, e non lavorare badando solo al proprio interesse. Le soluzioni devono quindi partire anche dal basso, dalla dimensione locale, accettando la sfida di rifiutare la tendenza al lamento che abbiamo sviluppato ultimamente, per recuperare il senso del servizio individuale a favore della società, pur mantenendo una visione globale. Dobbiamo vivere, in conclusione, con i piedi nel borgo e la testa nel mondo». 

sabato, agosto 31, 2013

Ripresa in arrivo? Si, ma...


Intervista a Paolo Manasse
di Daniele Tamburini

Bankitalia, questa volta, si sbilancia: in Italia si percepiscono i primi segnali di ripresa. Lo ha detto pochi giorni fa, durante il Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, il direttore generale della Banca d'Italia, Salvatore Rossi: "in diversi indicatori" per il nostro Paese si trova conferma di "una lenta ripresa economica, o almeno di un arresto della caduta". Del resto, "i danni della crisi sono stati da noi maggiori che in altri Paesi". La notizia non può che rallegrare, anche perché al Paese sarebbe tanto necessaria una robusta dose di ottimismo, da accompagnare certo ad indicatori macro e microeconomici attendibili, ma capace di ricreare quella spinta a credere nel futuro che è fondamentale. L’Eurostat ha segnalato, peraltro, una crescita complessiva dell’Eurozona e della intera Unione Europea pari allo 0,3%, nel secondo semestre dell’anno, rispetto al trimestre precedente. La Germania pare molto bene avviata su questo percorso: e l’Italia? Ha ragione Bankitalia? Lo chiediamo a Paolo Manasse, docente di Professore di Macroeconomia e di Politica Economica all’Università di Bologna e Ph.D alla London School of Economics.


Professor Manasse, si può parlare di inizio di ripresa, o magari anche solo di “ripresina”? 
«I dati che abbiamo a disposizione grazie agli enti preposti alla ricerca in ambito economico sono concordi sul fatto che l'ultimo trimestre di quest'anno sarà caratterizzato, per la prima volta dopo cinque anni, dal segno più. Questa è senza dubbio una buona notizia, che però va inserita in uno sfondo denso di incognite: da un lato le questioni della politica interna, dall'altro uno scenario internazionale piuttosto complicato. Ci troviamo quindi di fronte a questioni di importanza decisiva, che potrebbero soffocare sul nascere la ripresa».
Ha parlato di uno scenario internazionale complicato: a cosa si riferisce? 
«Ci troviamo di fronte a fattori positivi, come la ripresa dell'economia americana e di quella tedesca, ma ci sono anche situazioni che destano incognite, come il rallentamento dell'economia dei paesi emergenti - Cina e Brasile sopra a tutti - che rappresentano i principali sbocchi per i nostri mercati. Anche l'attuale crisi siriana potrebbe penalizzarci: se Stati Uniti, Inghilterra e Francia decidessero di attaccare, la finanza europea subirebbe pesanti ripercussioni». 
Il commissario europeo agli affari economici Olli Rehn mette però in guardia da troppo facili entusiasmi: resta l’enorme problema della disoccupazione... 
«Ci sono sostanzialmente due questioni: da un lato il mercato del lavoro in genere reagisce in ritardo e le imprese ricominciano ad assumere solo quando la ripresa si dimostra consolidata; dall'altro lato normalmente occorre una crescita sostenuta affinché il trend della disoccupazione si arresti e inverta la tendenza. Vi sono poi dei problemi più strutturali legati al mercato del lavoro in Italia, che è soggetto a nodi non ancora sciolti, come ad esempio la questione della flessibilità, su cui tra l'altro il governo pare stia facendo marcia indietro, e che non permette alle aziende di assumere. Accanto a questo, non dimentichiamoci la zavorra di un eccessivo costo del lavoro, che il nostro Paese si porta dietro da tempo e che non permette alle nostre imprese di salire sulla carrozza della ripresa internazionale». 
Tutti i Paesi europei saranno coinvolti nel processo di ripresa? O avremo un’Europa a due o più velocità, con il rischio concreto di implodere? 
«Temo che ci troveremo con un'Europa divisa in due. Ci sono Paesi come la Germania, che hanno fatto riforme importanti, a volte anche dolorose, che sapranno trasformare la ripresa in nuova occupazione; ci sono altri Paesi che hanno fatto importanti investimenti dal punto di vista dell'innovazione e della tecnologia, che ora potranno essere più competitivi. Infine ci sono i Paesi come l'Italia, che non hanno fatto riforme nè investito sull'innovazione, e che quindi dovranno arrancare». 
Si nota che lo stile di vita delle persone ha assunto, giocoforza o meno, caratteri più parchi: meno faciloneria, meno sprechi. La ripresa è conciliabile con il mantenimento di queste “nuove” abitudini, che, almeno per alcuni aspetti, non sono di segno completamente negativo? 
«Ritengo che certi comportamenti siano da considerarsi ormai "acquisiti", e dubito che cambieranno con la ripresa, specialmente per quanto riguarda gli sprechi. In fase di rilancio economico la gente tornerà a spendere di più, come è giusto che sia, in quanto l'economia si basa anche sui consumi interni, ma molto probabilmente si continuerà a prestare maggiore attenzione agli acquisti, evitando quelli inutili». 
Vorrei farle una domanda sull’influenza che i fatti politici del nostro Paese in queste settimane possano avere sull’economia, e in particolare su Berlusconi che intende far saltare il banco, ma passo oltre e le chiedo, come ho già fatto altre volte: ce la faremo? Ma mi accorgo che l’interrogativo è strettamente intrecciato alla prima parte della domanda... 
«La questione italiana è senza dubbio complicata, in quanto c'è una stretta correlazione tra il futuro del governo e l'eventuale allontanamento di Berlusconi. Il centrodestra non è ancora in grado di sostituire il proprio leader, essendo un partito ancora molto personalistico; dunque il venir meno di Berlusconi dalla scena politica potrebbe compromettere l'esistenza del partito stesso, e di qui il tentativo di rovesciare il governo, legittimando Berlusconi attraverso una sorta di "voto popolare". Un'azione del genere, tuttavia, costituirebbe un pericoloso precedente, in quanto si andrebbero a scavalcare le decisioni della giustizia, e questo farebbe venir meno la divisione dei poteri. Senza contare il fatto che la caduta del governo provocherebbe il venir meno della fiducia da parte dei mercati finanziari internazionali. Possiamo comunque sperare nel fatto che, se si andasse a nuove elezioni, i centrodestra potrebbe uscirne abbastanza malconcio, e questa consapevolezza potrebbe ridurre la spinta a far cadere il governo. Così come dovrebbe bloccare tale spinta anche il fatto che in un momento in cui già i nostri mercati non godono di particolare fiducia, il Paese non trarrebbe certo vantaggi da una crisi di governo; chiunque abbia a cuore il destino del nostro Paese non metterà in campo azioni che potrebbero affossarlo. Mi chiede se ce la faremo? Mi auguro di sì, ma la realtà non è certo rosea. Nel migliore degli scenari possibili, ammettendo quindi che il governo possa continuare a lavorare e che la situazione internazionale non abbia impatti gravi sui nostri mercati, la nostra ripresa sarà molto lenta, anche in virtù del fatto che il nostro attuale governo non è in grado di fare riforme importanti, e che quindi i problemi che da sempre ci portiamo dietro resteranno tali».

venerdì, marzo 29, 2013

Pausa di riflessione, buona Pasqua


Un passo avanti, due passi indietro. Un minuetto? No, troppo grazioso. Un sabba? Rispetto ad alcuni insulti che volano, potrebbe essere. Dribbling, finte: anche le metafore calcistiche tornano utili. Scarti laterali, il salto del cavallo. Di cosa stiamo parlando, se non dello stato dell'arte della politica italiana, oggi? Dopo le consultazioni, ora pausa di riflessione: ci vuole. Ognuno parla il suo linguaggio. Offerte, controfferte, negazione delle offerte, un governo ad ogni costo… no tutti a casa, si torni a votare. Cresce una enorme preoccupazione. Il presidente Napolitano parla di una fase cruciale di ricambio democratico, al suo posto avrei mandato Bersani difronte al parlamento. Siamo proprio sicuri che non avrebbe ottenuto i voti sufficienti? Magari di straforo: Berlusconi teme Grillo. L’ex comico ieri ha detto: “Dicono di noi cose per cui ci vuole un neurologo. Vadano a farsi curare”. Ho pescato, tra le mille, due frasi che sembrano disegnare mondi incomunicabili. Comunque la si pensi, è una situazione da far paura. Il maggior quotidiano economico italiano ieri ha "sparato" in prima pagina un titolo a caratteri cubitali: "basta giochi" ed elenca otto tra le emergenze più emergenti (mi si passi l'espressione). In queste condizioni, possiamo augurare buona Pasqua? Sì, possiamo. Perché la Pasqua, per i cristiani e non solo, è simbolo di rinascita, di risveglio, di luce dopo il buio del sepolcro. Allora buona Pasqua a tutti.
Daniele Tamburini 

sabato, marzo 23, 2013

«Quando usciremo a riveder le stelle?»


Intervista a Giacomo Vaciago docente di economia: «La mancata crescita è diventata declino e poi decadenza» 


di Daniele Tamburini

Ma cos’è questa crisi? Il motivetto era celebre già nel 1933, e, si direbbe, sempre attuale. Pare di vivere, in questi giorni, in un tempo sospeso: da una parte, lo stato del Paese, sempre più in affanno, quando non drammatico, sempre più alla ricerca di soluzioni che permettano, altro che lo sviluppo, ma la stessa sopravvivenza. Dall’altro, i tempi della politica: l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, volti e stili nuovi; l’incognita Movimento 5 Stelle, l’inizio delle consultazioni di Napolitano, il quale è entrato nel semestre bianco e quindi non potrebbe, in nessun caso, sciogliere le Camere; la stessa elezione del nuovo presidente della Repubblica, vicenda intorno alla quale si stanno preparando mediazioni, alleanze, veti incrociati. E intanto, in pieno Mediterraneo, la “soluzione cipriota”: un prelievo forzoso sui depositi di denaro, richiesto a garanzia del prestito Bce-Ue-Fmi per evitare il default a cui il Parlamento di quel paese ha detto no, ma intanto l’idea è stata lanciata. Una prospettiva vissuta con timore da tutti i Paesi a rischio, il nostro compreso. Ne parliamo con Giacomo Vaciago, docente di economia all’Università Cattolica di Milano e studioso attento della realtà politico-economica del nostro tempo. 

Professor Vaciago, come definirebbe, con una metafora, la nostra situazione? “E la nave va”, “Sull’orlo del precipizio”, “Domani è un altro giorno …”? 

«Ho in mente Dante che “esce a riveder le stelle”. Ma noi quando lo faremo? Ricordiamo che il Paese non cresce da 15 anni e da 5 anni va indietro. Non solo le nuove generazioni – per la prima volta da quando c’è l’Italia - non stanno più, in media, meglio dei loro genitori, ma addirittura il loro benessere dipende da quello dei loro genitori. La mancata crescita è diventata declino e poi decadenza. C’è quindi la necessità di tornare a crescere, ma prima occorre una diagnosi realistica – occorre il coraggio di dire la verità - e soprattutto occorre spiegare che per ricostruire un Paese servono valori: la legalità (il rispetto della legge); l’equità (in un Paese moderno garantita dalla qualità dei beni pubblici, oltre che dal pagare tutti le tasse, come dovuto). E così via». 

La sua opinione sulla possibilità di formare un governo che possa governare?

«Le elezioni del mese scorso hanno fatto emergere un votocontro che ha penalizzato tutti i partiti-vecchi e fatto emergere nuovi eletti-contro. E’ stato come il referendum del 2011: abrogativo! Non è ciò che di solito si fa nei Paesi normali, ma noi non lo siamo più, un Paese normale, da anni. Da anni dico che, essendo in un mondo globale e con sovranità condivisa con gli altri Paesi Euro, la sovranità rimasta a Roma è poco più di quella che ha, dopo la riforma del 1993, un sindaco. Adeguiamo la Costituzione e quindi la legge elettorale, e decidiamo che i cittadini eleggono il Governo e un Parlamento (una sola Camera basta e avanza) che lo controlla. Esattamente come avviene in una città. Non sono sicuro che ciò avvenga presto, ma sono sicuro che continueremo a perdere tempo - cioè a fare tanti discorsi inutili - finché non ci adegueremo al nuovo mondo». 

Posto che venga formato un governo, quali sarebbero le urgenze che, tra le altre, dovrebbe fronteggiare immediatamente? 

«Il Programma economico c h e d o v re b b e avere il nostro prossimo Governo è stato chiaramente spiegato a Bruxelles al Consiglio Europeo di primavera. E’ ben spiegato nel commento che si può leggere sul sito del nuovo Circolo da me diretto (vedi www.circolorefricerche. it: è per ora aperto a tutti e non riservato ai soli soci). Le conclusioni del Consiglio del 14-15 marzo vanno lette alla luce di quanto sta scritto nel Bollettino della Bce ( non a caso pubblicato il 14 marzo) e della presentazione che Draghi ha fatto al Consiglio Ue (scaricabile anche questo dal sito della Bce). In poche parole, dobbiamo avere come priorità la crescita, soprattutto dell’occupazione giovanile, e per farlo bisogna che il risanamento del bilancio pubblico sia “growthfriendly”, cioè favorisca gli investimenti e non i consumi (il contrario di ciò che facciamo da molti anni!), e che le riforme dei mercati (dei beni e del lavoro) favoriscano competizione e quindi innovazione (altra cosa di cui ci siamo dimenticati da anni). E’ quanto Draghi ha detto nei suoi 6 anni in Via Nazionale (dal 2006 al 2011) e tutti, ripeto tutti, i politici italiani hanno finora ignorato». 

Tra gli altri temi “caldi”, qual è la sua opinione sulla questione del finanziamento pubblico ai partiti? 

La sua abolizione avrebbe sostanziali effetti sull’economia o possiede, sostanzialmente, un valore simbolico? «Il costo dei partiti, quello vero, è dovuto agli interessi che essi servono interferendo nelle decisioni degli eletti, tutte le volte in cui essi decidono cose che interessano ai partiti (cioè agli interessi rappresentati). Ai miei studenti spiego ciò con riferimento alle varianti urbanistiche, ma gli esempi sono infiniti. Agli attuali partiti non dovrebbe andare neanche un euro del contribuente. Ai partiti di cui parla la Costituzione è bene rimborsare quanto spendono per le necessarie campagne elettorali». 

Cosa ne pensa della “soluzione cipriota”, con l’ipotesi inizialmente avanzata del prelievo forzoso sui depositi bancari? E’ vero che non impatterebbe più di tanto sulla vita della gente “reale”, in quanto Cipro è una sorta di “paradiso fiscale”

«Ancora mi domando perché Cipro sia stato accolto nell’ Eurozona, non rispettandone nessuno degli obiettivi. E’ un centro finanziario offshore della finanza globale meno utile alle persone oneste. Abbiamo perso l’occasione per lasciarlo fallire, ma anche qui ci voleva il coraggio di “dire la verità”». Sono fondati i timori che possa trattarsi di una prova generale, magari esportabile? 
«L’Italia-senza-Governo è a rischio di subire (e lo sappiamo da anni) ogni tipo di contagio, qualcosa che per definizione va al di là delle nostre colpe. Mi spiego meglio: è ovvio che siamo meglio della Grecia (come dicevamo tre anni fa), siamo meglio della Spagna (come dicevamo l’anno scorso), siamo meglio di Cipro (come diciamo adesso). Ma i mercati giudicano i fatti e non le chiacchere, e per ora non hanno visto quella determinazione politica che serve per tornare a crescere, che è l’unica ricetta che rende sostenibili i debiti fatti. Quando dimostreremo, con i fatti, che abbiamo capito i nostri errori degli ultimi 15 anni, e vogliamo iniziare a correggerli, saremo trattati meglio. Dopotutto, far sì che torni vero che i figli vivono meglio dei genitori dovrebbe essere una priorità che in tanti capiscono». 


Elogio del garbo

Di Monti, si è detto che è un uomo garbato: magari molte delle sue riforme no, ma il suo stile lo è sicuramente. Il Papa si pone con molto garbo. Con affetto, con tenerezza, senza paura di mostrare un’umanità complessa e delicata, ma il tutto in modo, appunto, garbato. Il che significa senza ostentazioni, senza fanfare e mortaretti, senza urla né dichiarazioni roboanti. Una donna garbata, pur con l’esperienza in mezzo a drammi e pericoli che ha fatto, è la neo Presidente della Camera, Laura Boldrini. E pure Pietro Grasso lo è, con quel particolare stile da gentiluomo siciliano. Si badi bene: essere garbati non significa avere opinioni imprecise o deboli. Anzi, il più delle volte la persona garbata nasconde una tempra d’acciaio, una determinazione forte. Ma sa, però, che il discorso piano, attento alle opinioni altrui, non gridato, capace di aprirsi all’ascolto e alla mediazione è quello che ha consentito lo sviluppo della civiltà. Una persona garbata non è una persona ossequiosa, tutt’altro. Afferma con fermezza le proprie idee, in modo dialogante. Certo, le rivoluzioni non sono garbate, in genere: ma una rivoluzione continua è impossibile da sostenere. Il garbo non è materia per salotti, dove, anzi, è facile trovare comportamenti scomposti. Il garbo consente la convivenza, tende a far riflettere, a mettere in moto l’apertura altrui, piuttosto che chiusure e rifiuto. Era poco garbata la bandana, ma lo è ancor di più il cappuccio calato su volto e occhi per sottrarsi alle domande dei giornalisti. Non è garbato chi urla in TV e nelle piazze, a sovrastare e ammutolire gli altri. Dicono di me che scrivo con garbo: mi fa piacere. Oggi non è più tempo di garbo? Può darsi. Ma io so che aver davanti una persona garbata fa respirare, ispira fiducia, fa pensare alla possibilità, come dice il professor Vaciago nell’intervista che proponiamo su questo numero, di “uscire a riveder le stelle”.

Daniele Tamburini

sabato, marzo 16, 2013

Governo, quali scenari sono possibili?



Intervista alla costituzionalista Marilisa D’Amico, professoressa alla Statale di Milano: «Governo, la realtà potrebbe superare la fantasia»
di Daniele Tamburini 

C'è sicuramente una grande confusione sotto il cielo: non solo politica, ma anche rispetto ai comportamenti istituzionali. Tutto questo, in un momento in cui servirebbero certezze e percorsi lineari; ma, oltre ai gravissimi problemi strutturali e congiunturali dell’economia, del lavoro, del sistema del credito, siamo di fronte anche a un bell’”inghippo” formale, e mai, come in questo caso, la forma è sostanza. Come funziona un governo di minoranza? È questa l’unica strada perseguibile, con questi numeri, e soprattutto con le porte che vengono vicendevolmente e alternativamente “sbattute” tra Pd, Pdl, Movimento 5 Stelle?. Ma la sostanziale impossibilità a formare una maggioranza non è il solo nodo assai problematico in ballo: il presidente della Repubblica è nel semestre bianco e, secondo la Costituzione, non può sciogliere le Camere. E non dimentichiamo che, appunto, dovrà essere eletto anche il nuovo Presidente della Repubblica. Parliamo dei vari scenari e delle varie ipotesi con la professoressa Marilisa D’Amico, docente di Diritto Costituzionale all’Università Statale di Milano. 
Professoressa D’Amico, come funziona un governo di minoranza? 
«Il Governo di minoranza o, più correttamente, di maggioranza relativa è quello che non ha avuto la fiducia dalla maggioranza dei componenti delle Camere, ma solo dalla maggioranza dei presenti. Lo consente l’art. 94 della Costituzione che non prescrive, per la concessione della fiducia, maggioranze qualificate. Non sarebbe la prima volta che accade, ma è evidente che si tratterebbe di un Governo “debole” che dovrebbe ogni volta assicurarsi i voti necessari a far approvare i propri provvedimenti». 
Facciamo delle ipotesi di possibili governi… Pd con l’astensione del Movimento Stelle? Con l’appoggio esterno sulla base dei punti programmatici? 
«Sarebbe possibile, anche se la regola prevista dal regolamento del Senato per il computo degli astenuti complica le cose. L’art. 107 del regolamento del Senato prevede che le deliberazioni siano prese a maggioranza dei senatori che partecipano al voto, ivi compresi gli astenuti. Il voto di astensione rende dunque più difficile il raggiungimento della maggioranza, perché l’astensione finisce per valere come un voto contrario. Stando così le cose, la procedura perché un Governo targato PD ottenga la fiducia con l’astensione del M5S al Senato è piuttosto complicata. I senatori del M5S potrebbero uscire dall’Aula, ma, a quel punto, i parlamentari del Pdl potrebbero fare lo stesso e far così mancare il numero legale. In alternativa – ma il meccanismo è piuttosto bizantino – il PD dovrebbe assicurarsi i voti dei senatori della Lista Monti e chiedere ad una rappresentanza di grillini (una quindicina circa) di restare nell’aula, astenendosi, ma assicurando il numero legale». 
Napolitano potrebbe incaricare un esponente 5 Stelle? 
«In linea teorica, sì, ma solo se il Presidente della Repubblica capisse, dalle consultazioni, che un esponente 5 stelle ha la possibilità di trovare una maggioranza parlamentare. Politicamente mi sentirei però di escludere questa circostanza ». 
E l’ipotesi di “governissimo” Pd- Pdl, che, comunque, la direzione Pd ha escluso? 
«Da un punto di vista costituzionale, non è una strada impraticabile, dal punto di vista politico, invece, non mi sembra proprio che vi siano le condizioni. 
Qualcuno parla di una prosecuzione “tecnica” del governo Monti, che, però, tecnico non è più… 
Qui bisogna fare un po’ di chiarezza. Oggi il Governo Monti è dimissionario, ma resterà in carica fino a quando non si formerà un nuovo Governo. In questo senso - se vogliamo - possiamo parlare di prosecuzione “tecnica”. Il Presidente della Repubblica ha, però, il dovere di aprire le consultazioni per formare un nuovo Governo. Diverso è il caso in cui il Presidente della Repubblica decida, all’esito di queste consultazioni, di conferire un “nuovo” incarico a Monti. Questa ipotesi, però, non sarebbe più una prosecuzione tecnica, bensì l’inizio di un nuovo Governo “politico”, tanto più che Monti ha partecipato alla competizione elettorale. Ultima questione: come si mettono insieme due fatti, l’uno possibile (nessuno riesce a formare un governo e si deve tornare al voto), l’altro reale (il presidente della Repubblica, nel “semestre bianco”, non può sciogliere le Camere)? 
«Il presidente della Repubblica, fino alla scadenza del suo mandato, non può sciogliere anticipatamente le Camere. Questo lo dice l’art. 88, comma 2, della Costituzione. Pertanto, se non si riesce a formare un nuovo Governo e l’unica strada percorribile è quella di tornare al voto, bisognerà necessariamente attendere l’elezione del nuovo Capo dello Stato che, come primo atto, scioglierà le Camere. Nel frattempo, il Governo Monti, dimissionario, proseguirà “tecnicamente” il suo lavoro. Questo, però, solo se davvero nessuno riesce a formare un Governo. Se, invece, viene nominato un nuovo Governo, che giura nelle mani del Presidente della Repubblica, e questo Governo non ottiene la fiducia iniziale, sarà comunque quest’ultimo a dover gestire il periodo elettorale e firmare il decreto di scioglimento delle Camere. 
Se la sente di formulare una previsione? 
«Non me la sento di formulare una previsione relativamente ai prossimi sviluppi. In questo caso, mi sembra proprio che la realtà potrebbe superare la fantasia». 

Papa Francesco, un buon inizio

E' tempo di grandi cambiamenti: lo si è visto anche per l'elezione del Papa. C’è stata solo una fumata nera, dopo l''extra omnes", e la Chiesa cattolica, tuttora una grande, complessa, fondamentale realtà, ha eletto pontefice, l'argentino Jorge Bergoglio, adesso papa Francesco, anche se lui ha sottolineato molto l'essere "vescovo di Roma". Quasi una sottolineatura del legame con una comunità: un gesto ecumenico, e forse in polemica con certa Curia. Ma interpretare i misteri vaticani non è così semplice. Si tratta deI primo pontefice di nome Francesco nella storia bimillenaria della Chiesa: e chissà che il nome del santo di Assisi non sia stato scelto per dare un segnale forte della necessità di tempi e stili nuovi anche sul soglio di Pietro. Papa Francesco, che dicono di abitudini spartane, ha rifiutato la croce d'oro, ha scelto di non sedersi sul trono e ha pagato il conto della camera in cui aveva soggiornato. Sono un segno della complessità dei tempi e degli eventi anche i timori di un suo coinvolgimento, seppure indiretto, nei fatti terribili della dittatura argentina che insanguinò quel Paese negli anni '70. Sta di fatto che un grande teologo della liberazione come Leonardo Boff ha dichiarato la sua felicità per l'elezione di Jorge Bergoglio: sarà la primavera dopo il duro inverno. Insomma, un nuovo stile, nuovi comportamenti: non saranno sufficienti, da soli, per contrastare gli scandali, finanziari, gestionali, sessuali, ma pare un buon inizio. Forse dovrebbe farne tesoro anche l'altro lato del Tevere, che ha chiesto a tutti di fare sacrifici, e che solo ora pare iniziare a guardare dalle proprie parti. Staremo a vedere.
Daniele Tamburini

domenica, marzo 10, 2013

Ma quale web, la gente ha voglia di parlare




Mi ritengo una persona semplice, e come tutti, penso, mi aspettavo semplicemente che dalle elezioni uscisse una solida maggioranza, qual che fosse, in grado di agire per il bene del Paese, nella convinzione che il bene del Paese sia anche il mio e quello della gente che conosco, con cui lavoro, quella che vedo tutti i giorni, che incontro, che ascolto. Il bene comune, perché siamo e facciamo parte di una comunità, non siamo una semplice sommatoria di individui. Così non è stato, lo sappiamo bene, e c’è una grande incertezza. E anche qualcosa che capisco poco. Si dice da più parti che sulla scena politica sono emersi molti fattori nuovi. Il primo e il più grande è certamente l’affermazione del Movimento 5 Stelle, e poi i molti volti nuovi in Parlamento, tra cui più donne, la fine della carriera di personaggi inossidabili come Gianfranco Fini, eccetera. Intanto, emerge poco il dato della crescita continua dell’astensione, che ha toccato il 25%, un quarto del corpo elettorale. Poi, sarà che ci sono grandi novità, ma, in questi giorni, mi sembra che si stia svolgendo, con protagonisti nuovi, una ennesima edizione della “melina” delle coalizioni post-elettorali. Bersani offre, Grillo grida, però poi parla di Crocetta e della Sicilia, poi dice che, in realtà, il modello Sicilia non esiste. La direzione Pd ragiona sulla batosta dei 3 milioni di voti in meno, pensa a come uscirne e dice: mai più con il Pdl, però Renzi se ne va, e, anche se la posizione del segretario è stata votata all’unanimità, c’è un grosso tintinnar di sciabole, da quelle parti. Il Pdl, dopo l’euforia del primo momento, ha fatto bene i conti, ha capito di aver perso 6 milioni e 600mila voti e sta cercando una strada; Berlusconi freme come se sentisse franare il terreno sotto i piedi. E il Paese? La battuta che circola di più è: senza governo, senza Papa, tra poco senza presidente della repubblica, ma che sta succedendo? Tanto smarrimento, tanta confusione, tanta preoccupazione, solida, fondata, ma ho notato una cosa: se prima tutti andavamo di corsa, non c’era tempo neppure quasi per salutare, nella frenesia di muoversi, concludere, serrare i tempi, ora la gente ha tanta, tanta voglia di parlare. Quasi che la paura che viviamo sia troppo forte per essere sostenuta in solitudine. In questi giorni incontro molta gente, imprenditori, commercianti, artigiani… tutti hanno una gran voglia di parlare, principalmente della crisi è ovvio. Ma questo è positivo, è un modo di stare nella comunità che dovremmo mantenere e valorizzare: è bello parlare guardando negli occhi l’interlocutore, ti dà un senso di condivisione che il web non potrà mai dare. Si parla molto di più, della difficoltà dei tempi, dei timori, ma anche delle speranze, che sono deboli, ma ci sono, ci devono essere. Ci devono essere. Altrimenti, senza speranza, che vita sarebbe?
Daniele Tamburini

sabato, gennaio 26, 2013

AAA, buoni marinai cercasi


Il prossimo lunedì si svolgerà, in tutto il Paese, la Giornata di Mobilitazione Nazionale indetta da Rete Imprese Italia, a favore della crescita. Le ragioni di artigiani, commercianti e piccoli imprenditori, che da troppo tempo subiscono la recessione, e che hanno bisogno di futuro, di speranze vere, di prospettive, di crescita. Nel nostro territorio, nel 2012, 500 imprese hanno chiuso i battenti. La crisi colpisce tutti, e in special modo quelle realtà produttive dell’economia che vivono prevalentemente di domanda interna. Monti - dicono - ha messo in sicurezza i conti, ma ora serve altro. Hai voglia di dire: innovazione, ci vuole innovazione. Serve tempo, e serve denaro. E cosa abbiamo, invece? Una pressione fiscale di oltre il 56% per i contribuenti in regola, una burocrazia che richiede ad ogni impresa 120 adempimenti fiscali e amministrativi all’anno, uno ogni 3 giorni, e un sistema del credito che nell’ultimo anno ha ridotto di 32 miliardi l’erogazione di finanziamenti alle aziende, preferendo acquistare titoli di Stato: evitando rischi ma venendo meno a quella che un tempo era la prerogativa degli istituti di credito. Cresce la convinzione che occorra davvero una grande banca pubblica che torni a sostenere imprese e famiglie, contrastando quella situazione anomala che ha consentito ad alcune banche di fare “cartello” facendo lievitare oneri e costi, in alcuni casi al limite dell’usura. E qui, si inserisce, notizia degli ultimi giorni, il caso Monte dei Paschi. Quanto si è esposta, questa banca, in operazioni avventate e in linee di credito aperte ai "soliti noti"?. Possibile che questo sia potuto accadere, e che, al contrario, ci siano imprenditori che devono penare per avere poche migliaia di euro? Sono storture, disequilibri intollerabili. In Islanda hanno lasciato che alcune banche fallissero… adesso, da quelle parti, il Pil viaggia al +3%. Tra poco voteremo. Abbiamo bisogno di una classe dirigente in grado di riportare la situazione nell’area del buonsenso e della concretezza contrastando quella finanza speculativa che ci ha trascinato in questa situazione drammatica. Chi vorrà e potrà rimettere la barra del timone dritta?

Daniele Tamburini