Si poteva prevedere, e forse anche prevenire, l’attuale crisi economica? Forse sì, se gli economisti avessero avuto maggiore contezza della storia che ci siamo lasciati alle spalle. E’ l’interessante tesi su cui si è sviluppato un recente convegno all’Università Statale di Milano, dal titolo “La storia economica. Discorsi sul metodo”, organizzata dalla Sise, l’associazione di riferimento nazionale. Ne parliamo con uno degli organizzatori, il professor Giuseppe De Luca, docente si Storia economica all’Università Statale di Milano. Professor De Luca, quindi “historia magistra vitae” anche per quanto riguarda l’economia?
«La storia economica può dare importanti lezioni, ma se tali lezioni non vengono poi assimilate, le situazioni negative si ripeteranno all'infinito: la crescita straordinaria di determinati settori finisce sempre in una bolla. Questa crisi economica si poteva evitare e molti lo avevano visto e denunciato, nel corso degli anni, ma chi aveva interessi crescenti ha voluto ignorare la situazione. Abbiamo perso gradualmente il senso del valore sociale condiviso, scivolando sempre più in una visione individualistica della società. Finché alcuni settori economici hanno finito per distaccarsi dalla realtà. Una situazione che nella storia avevamo già visto: nel '500 si era sviluppato un mercato di cambio, attraverso le lettere di cambio gestite dai genovesi e utilizzate per finanziare l'impero spagnolo. Esse arrivarono ad essere cinque volte le entrate dei principali imperi europei. Ciò dimostra che, nella storia, la finanza e' stata spesso utilizzata in maniera sbagliata, in modi che l'hanno portata ad essere completamente scollegata dall'economia reale. Situazione che spesso è andata di pari passo con la circolazione di informazioni non corrette: vere e proprie frodi, oggi come allora».
Dove pensa che possa essere individuato il punto di origine dell’attuale crisi?
«La crisi che stiamo attraversando affonda le proprie radici nel boom economico degli anni '70. Gli strumenti finanziari non sono positivi o negativi in se': nascono con determinate funzioni, poi possono prendere diverse direzioni, in base a come vengono utilizzati. Quando venne meno il sistema di Bretton Woods, che stabiliva le regole delle relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo, contemporaneamente alla fine del sistema dei cambi fissi che poggiavano sulla forza del dollaro, iniziarono ad essere introdotti nuovi strumenti derivati (come i "future") che permettevano ai produttori di petrolio di stabilizzare i prezzi. Di lì partì anche il ritiro dei mercati dalla regolazione economica: erano gli anni della deregulation, del divorzio tra Banca d'Italia e Tesoro. Ne derivò un mercato libero in cui chi aveva i soldi investiva sull'industria della finanza, che non aveva grandi regole. Si proseguì lungo la strada delle deregolazione della finanza, che raggiunse l'apice nell'epoca di Clinton, poco prima della crisi economica. In quegli anni ci fu chi cercò di fermare questo fenomeno, ma le lobbies della finanza, dotate di grande potere, si opposero alla regolamentazione del processo di finanziarizzazione. In sostanza, si è perso il controllo sulla finanza privata, e questo ha inciso anche su quella pubblica. Accanto a questo abbiamo visto anche un mutamento antropologico per cui, rispetto a una morale basata su impegno e sacrificio, la logica della stabilità è stata sostituita dall'instabilità, dal "mordi e fuggi". Non si investe più nelle piccole cose certe, ma su un mercato sempre più incerto. Per questo ora si dovrebbe restituire una regolamentazione ai mercati e alla finanza, recuperando quella fiducia nei mercati che è venuta meno».
Lo si sta facendo?
«Si è iniziato a fare qualche passo, ma non è semplice, anche perché in uno Stato in cui il ceto medio è continuamente tassato i piccoli risparmiatori non hanno soldi da investire. La tassazione in Italia non è proporzionata rispetto al reddito e alla condizione delle famiglie».
La sua opinione sulla gestione del debito pubblico nel nostro Paese?
«Il debito pubblico nacque nella seconda metà degli anni '70 come grande catalizzatore di tutte le tensioni sociali che c'erano in quell'epoca, in quanto lo Stato non voleva essere costretto ne' a disciplinare le richieste delle classi operaie nè a tassare l'imprenditoria. La spesa pubblica ebbe quindi la funzione di costruire il sistema di welfare, che però non veniva adeguatamente finanziato, in quanto l'evasione fiscale era ai massimi livelli. Fu l'ingresso nel sistema europeo a costringere il Paese a fare finalmente un'analisi della finanza pubblica. Nel 1990 il debito era arrivato ad essere il 100% del Pil, una situazione figlia di quel liberismo craxiano in cui era abitudine fare quello che si voleva. Il problema del debito pubblico non ha tante soluzioni. Una soluzione potrebbe consistere nel puntare su un periodo di inflazione, che però, essendo nell'area euro, non possiamo avere. La seconda soluzione sarebbe fare in modo che il tasso di crescita sia superiore al tasso di interesse con cui viene remunerato il debito pubblico; tuttavia, anche in un momento in cui quest'ultimo si trova ai minimi storici, come accade oggi, ci troviamo di fronte ad un tasso di crescita che è il peggiore al mondo, dopo Haiti. Si è parlato di fare spending review ma si sono andati a tagliare settori essenziali, come la cultura o l'istruzione, mentre invece non si sono toccati i veri sprechi: quelli della politica e delle pubbliche amministrazioni, che sono decisamente troppe».
Un altro tema: la cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia. Lei cosa ne pensa?
«Si sono fornite sempre più occasioni di speculazione, andando a rubare risorse all'economia reale. Il nostro Paese ha visto venire meno gli investimenti sulla tecnologia e sull'innovazione, oltre a ridurre il costo del lavoro: ciò porta ad una dequalificazione dell'impresa italiana, che fa venir meno anche la crescita. Negli anni del miracolo economico si è continuato ad accumulare profitto senza che i capitali venissero reinvestiti per la crescita. Al punto in cui siamo, la finanza deve ritrovare la propria identità nel servizio dell'economia reale». Con uno sguardo a quanto accaduto nella nostra storia, ci sono esempi dai quali poter attingere per rimettere in marcia l’economia e creare occupazione, uno dei punti centrali per ridare un po’ di fiato al Paese?
«Le modalità per ripartire sono le stesse di sempre: bisogna restituire liquidità al sistema abbassando il costo del denaro, diminuire il cuneo fiscale, recuperare equità per arrivare ad un equilibrio fiscale. Tutto questo avrebbe conseguenze positive sul nostro sistema economico, come è sempre accaduto in tutti i Paesi in cui tutte le componenti della società pagavano in modo equilibrato. Il sistema di solidarietà, il cooperativismo, sono economicamente efficienti, in quanto garantiscono un equilibrio, ed è a quello che dobbiamo tornare. C'è poi da recuperare una situazione culturale che in questi anni abbiamo perso completamente. E' necessaria una rigenerazione morale dei dirigenti e della classe politica, che da tempo è degenerata. Ognuno di noi deve ripartire da una propria micro-rivoluzione interiore: bisogna pensare al prossimo, al territorio in cui si è inseriti, e non lavorare badando solo al proprio interesse. Le soluzioni devono quindi partire anche dal basso, dalla dimensione locale, accettando la sfida di rifiutare la tendenza al lamento che abbiamo sviluppato ultimamente, per recuperare il senso del servizio individuale a favore della società, pur mantenendo una visione globale. Dobbiamo vivere, in conclusione, con i piedi nel borgo e la testa nel mondo».
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