sabato, maggio 19, 2012

Una maschera per ogni occasione


Mi dicono persone che sono state recentemente in Grecia: “E’ una specie di incubo. Il centro di Atene è quasi spettrale, la povertà è palpabile”. La minaccia Grecia continua ad essere agitata anche davanti a noi italiani, che siamo ancora e comunque vulnerabili, insieme alla Spagna. Oggi vorrei scrivere quasi soltanto domande. Lo spread è risalito, ma l'allarme che crea, mi pare, è più contenuto rispetto a qualche mese fa: perché? Abbiamo sopportato e stiamo sopportando sacrifici enormi. A causa dell'emergenza finanziaria? A causa di problemi strutturali dell'economia? Per tutti e due gli aspetti? Vado avanti: per il primo, il nuovo presidente della Consob Giuseppe Vegas, vice ministro all’economia nel governo Berlusconi, tuona contro lo strapotere della finanza. C’è da trasecolare: dov'era, finora? L'ABI, invece, tuona anch'essa, ma contro il declassamento delle banche italiane. Perfetto, ma perché tuonano solo ora? Finché la finanza ha fatto comodo e ha fatto salire i profitti, andava tutto bene: è questa la verità? Finche' la Grecia era un bersaglio della speculazione a vantaggio di molti, l'Europa ha fatto molto poco. Ora ha paura. Ho letto che il ritorno alla dracma ridurrebbe alla fame chi ancora, là, riesce a galleggiare. Ma questo interessa poco: ora sono preoccupati e fanno la faccia seria gli allegri compari di qualche tempo fa. In Italia, in Grecia, in Europa. Molti di coloro che parlano hanno davvero tante maschere a disposizione: al momento buono, ne tirano fuori una. Tanti Soloni in maschera. Sarà per quello che la gente si è affidata ad un comico che adesso ha la faccia seria? E spera che non abbia figli bisognosi di "paghette" di 5000 euro mensili? Speriamo di non dover dire: e la farsa continua...

Intervista al professor Angelo Baglioni (Lavoceinfo) "Se la Grecia esce dall’euro si rischia l’effetto contagio"


Sembra che non se ne possa uscire. Gli italiani stanno facendo - stiamo facendo - sacrifici enormi, per qualcuno insopportabili, ma ci sono eventi, apparentemente incontrollabili, che stanno alimentando nuova speculazione. Lo spread torna a crescere, con effetti molto negativi sul debito pubblico. Sembra non esserci via di uscita. Colpa solo dell'ingovernabilità della Grecia? Lo abbiamo chiesto ad Angelo Baglioni, docente di economia politica all'Università Cattolica di Milano. 
Professor Baglioni, le Borse perdono, lo spread è di nuovo stabile sopra i 400 punti: i sacrifici chiesti agli italiani sono quindi inefficaci? 
«I sacrifici che sono stati richiesti dal Governo attraverso il Decreto "Salva- Italia" erano necessari per fare uscire il nostro Paese da una situazione pericolosa come quella che si era venuta a creare. Non avremmo potuto fare altrimenti. Bisogna poi valutare il fatto che la crisi greca potrebbe precipitare, comportandone l'uscita dall'area euro. Ciò per l'Italia potrebbe avere un peso in termini di incremento dei tassi di interesse, per cui ci metterebbe nella condizione di non essere in grado di far fronte agli oneri. Questo ci porterebbe a dover rifare i nostri conti. Se si verificasse un effetto contagio, si dovranno mettere in campo misure correttive, oppure si dovrà prendere atto del fatto che non sarà possibile raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. 
Il problema è solo l'impossibilità di formare un nuovo governo in Grecia? 
«Il problema è, in primo luogo, proprio quello, ossia la frantumazione politica della Grecia, che sembra non permetterle di formare un nuovo governo. Ma se anche ci riuscisse, si dovrà poi vedere quale sarà l'atteggiamento dei nuovi eletti nei confronti degli accordi presi con l'Unione Europea nel Memorandum d'Intesa siglato alcuni mesi fa, in cui l'Europa si impegnava sì a sostenere il Paese ma a fronte di una richiesta di sacrifici e restrizioni. Se il nuovo governo dovesse rinnegare tale accordo, l'Europa potrebbe tenere ferma la sua posizione di rigore e portare la Grecia a uscire dall'area Euro. 
Ma cosa succederebbe all'Eurozona se la Grecia dovesse uscirne? 
 «Il rischio è l'effetto contagio. L'Unione Europea, infatti, è sempre stata fondata sull'irreversibilità: si può entrare, ma non è possibile uscirne. Si è scelto di proposito di menzionare la possibilità di uscita negli atti costitutivi dell'Unione monetaria europea, allo scopo di dare più forza e credibilità alla moneta unita. Se questo dovesse avvenire comunque, con l'allontanamento della Grecia, si romperebbe il presupposto dell'irreversibilità, e si verrebbe a creare un precedente, per il quale i mercati potrebbero aspettarsi l'uscita di altri paesi, come Italia, Spagna o Portogallo. Questo rischio comporterebbe un incremento delle richieste di compensazione economica nell'acquisto dei titoli di tali paesi: chi comprasse, quindi, titoli italiani (o di altri Paesi nella stessa situazione), privati o pubblici, potrà richiedere un tasso di interesse maggiorato. Una situazione simile potrebbe portare al dissolvimento dell'area Euro nel suo complesso, con il rischio di fare dei passi indietro nel processo di integrazione dell'Europa iniziato mezzo secolo fa, e che ha visto nella costituzione della moneta unica la sua tappa finale». 
Perché l'Europa non riesce a fare fronte alla speculazione dei mercati? 
«Perché non esiste una linea d'azione univoca da parte dell'Europa. La politica seguita dalla Merkel e da Sarkozy è stata molto incerta, e ha seguito male il problema della Grecia, che si trascina da due anni e mezzo senza una soluzione. E' mancata una strategia europea di lungo periodo, e si sono sempre cercate soluzioni dell'ultimo minuto, prese in base alle pressioni dei mercati. Questo non ha permesso ai mercati di capire con chiarezza in che direzione si stava andando, e ha impedito che si ancorassero delle aspettative. Oggi le cose sono ancora così: si fanno dichiarazioni ambigue, continuando a ondeggiare tra la solidarietà e la linea dura». 
Il cambiamento nell'asse politico tra Parigi e Berlino, con Hollande presidente, che effetti avrà? 
«Il fatto che ora sia Hollande a tenere le redini del Governo francese, accanto al fatto che l'Italia ha un nuovo Presidente del consiglio che in Europa ha più peso di quello precedente, può portare a un ammorbidimento della linea tedesca e all'affrontare con più forza i temi della crescita economica. Non si può pensare solo al rigore dei conti: la crescita dell'Europa è fondamentale per risolvere i nostri problemi». Hollande ha posto il tema degli Eurobond: lei che ne pensa? 
 «Ho una visione favorevole rispetto a questa proposta, di cui condivido la filosofia di fondo. Il fatto di avere una garanzia comune che consenta di ridurre lo spread per tutti i paesi, rendendo simile per tutti il costo del debito. Al momento, tuttavia, ritengo sia poco probabile che i tedeschi accettino una soluzione di questo tipo: per i paesi più forti, infatti, questo diverrebbe un costo implicito».

sabato, maggio 05, 2012

L'indignazione vi sommergerà



Adesso siamo al tecnico dei tecnici. Non è una battuta: il governo Monti ha affidato a Enrico Bondi, già commissario della Parmalat, il lavoro di revisione della spesa pubblica nel suo complesso, per eliminare gli sprechi. Uno bravo, non c'è che dire: ha risollevato l’azienda alimentare dopo il crack, senza licenziare un solo operaio. La promessa è di presentare una proposta già tra quindici giorni. Si parla, quindi, di ulteriori tagli alla spesa pubblica. Si parla di Regioni, Province, Comuni: ma c’è ancora da tagliare? E siamo sicuri che si debba tagliare proprio qui? Intanto, il Parlamento è escluso. Complice una classe politica che è incapace di riformare e di riformarsi, siamo arrivati al punto, o, almeno, a uno dei punti. Non nasce dal nulla la crisi, che continua a colpire durissimo, ma neppure lo stato così dissestato delle nostre finanze. Monti ha indicato esplicitamente due aspetti della colpevole miopia governativa del passato: l'abolizione dell'ICI sulla prima casa (noi lo scrivemmo subito che sarebbe stato un errore) e una insufficiente attenzione (per usare un eufemismo) al rigore fiscale. E' forse la prima volta che il premier parla esplicitamente di responsabilità passate, con tanto di nome e cognome. Cosa è cambiato? Ragioniamo: il premier viene accusato di avere acuito talmente la pressione fiscale complessiva da deprimere ogni possibilità di ripresa. Impoverimento oggettivo e mancanza di lavoro: un mix micidiale. Si dice: recupera le risorse nelle tasche dei soliti. Fa pagare l'IMU a chi possiede una casa acquistata con sacrifici, su cui magari paga il mutuo, e magari ha perso il lavoro o è in cassa integrazione. Invece di creare lavoro, studia misure per licenziare di più. Non è forse per caso che si è scatenata, sui giornali vicini a Berlusconi, una campagna di quotidiana demolizione: titoloni di prima pagina contro il governo Monti. Però, ricordiamoci una cosa: Monti aveva parlato, all'inizio, di patrimoniale. Fu stoppato immediatamente. Parlò di eliminare alcuni privilegi di alcune categorie professionali: i partiti, i gruppi di interesse, anche qui stoppato: le varie lobbies hanno limato, tolto, annacquato. Azzardo un’ipotesi di Monti-pensiero? Bene, dirà: il catalogo è questo. Mi avete condizionato, e anche minacciato . Devo recuperare risorse, questo è certo. Lo faccio fare da un esterno. Se voi partiti non siete capaci di accettare una riforma seria e seriamente complessiva, continuerò a cercarle presso chi non si può nascondere. Intanto, però, gli chiedo anche di segnalare gli sprechi che vede compiere: un segnale? Di certo, cresceranno lo smarrimento, l’impotenza, la depressione, l’impoverimento, ma anche la rabbia e l’indignazione. Avete visto i sondaggi, cari partiti? L’indignazione vi sommergerà. E non sarà un bel giorno, probabilmente, per nessuno. E se, davvero, stesse ragionando così?
Daniele Tamburini

venerdì, maggio 04, 2012

Lo sviluppo culturale strategia per la crescita


di Agostino Francesco Poli
Se mai qualcuno se ne fosse dimenticato, giova tornare a quella frase dell’allora ministro Giulio Tremonti: “di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina Commedia”. La frase venne stigmatizzata e assurse a simbolo della china precipitosamente discendente percorsa da una certa Italia: quell’arroganza affaristica che negava alla cultura non solo lo status di cibo fondamentale per l’animo delle persone e dei territori, ma anche una sottovalutazione miope e grevemente ignorante delle possibilità di sviluppo offerte dalla valorizzazione della cultura stessa. Eppure, per parafrasare una frase di Hugh Grant nel ruolo di un fascinoso primo ministro inglese (il film è “Love actually”), siamo la patria di Dante, Leonardo, Michelangelo e Vivaldi, di Pirandello e di Renzo Piano, di Rita Levi Montalcini e di Margherita Hack, della mano di Filippo Brunelleschi e del piede del “Mosè”, dei panorami struggenti, delle città d’arte tra le più straordinarie del mondo, delle biblioteche, delle pinacoteche, dei musei, degli archivi, dei siti archeologici di infinita, splendida, delirante bellezza. Mi fermo qui, perché la meraviglia e la cultura che hanno dimora nel nostro Paese sono, forse, senza pari. Certo non si fanno panini con i calcinacci di Pompei progressivamente sbriciolata e del centro storico de L’Aquila, ancora ridotto a macerie. Eppure, negli ultimi anni abbiamo assistito a enti culturali decapitati, fondi allo spettacolo decurtati, teatri e cinema sempre più chiusi. Occorrerebbe un volume intero (e qualcuno ne ha scritti) per documentare i veri e propri insulti di cui sono state oggetto, negli anni, la scuola e l‘università, il sistema dell’istruzione pubblica. Ho sempre pensato però che, al fondo dell’ignoranza, si celasse un progetto preciso. Lo ha scritto in un bell’articolo Andrea Cortellessa: l’”egemonia sottoculturale” di cui parla Massimiliano Panarari non può che essere funzionale a un progetto di dominio economico, sociale e, dunque, politico. È appena il caso di accennare al crescere del fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, su cui si è fermato più volte Tullio De Mauro. Ma forse, qualcosa si sta muovendo, e non solo a livello di ristrette élite intellettuali, quasi voces clamantes in deserto. È accaduto che, lo scorso 19 febbraio, “Il Sole 24 ORE” abbia pubblicato, nel suo inserto domenicale, sempre di grande qualità, il “Manifesto per la cultura”, intitolato “Niente cultura, niente sviluppo”. Vi si legge che “la cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo”. Altri assunti: l’Italia, e in grande misura l’intera Europa, devono oggi fronteggiare una sfida non semplice, ritrovare la via della crescita. È una opinione ancora minoritaria, ma sempre più diffusa, che la cultura debba far parte in modo importante del nuovo scenario. Lo sviluppo culturale è strategico non solo per l'Italia, ma per l'intera Europa: numerosi studi dimostrano come il sistema della produzione culturale e creativa sia anche uno dei più grandi settori, superiore per fatturato ai principali comparti del manifatturiero e alla maggior parte dei comparti del terziario avanzato. Ci sono cinque punti fermi: una Costituente per la cultura; strategie di lungo periodo; cooperazione tra ministeri; l’arte a scuola e la cultura scientifica; merito, complementarietà pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale. Il successo è stato grande, e continua a crescere. Hanno aderito, tra i moltissimi, anche tre ministri, Passera, Profumo e Ornaghi; il commissario europeo all’istruzione e alla cultura Vassiliou e il ministro danese della cultura Elbaek. Tutto bene, quindi? Direi di sì, se questa attenzione, se non altro, servisse a rimettere al centro della scena la questione cultura, l’affaire cultura. Il nostro Paese ha una legge importante, su questa materia: è il Codice dei beni culturali e del paesaggio, decreto legislativo n. 42 del 2004. Vi si legge che “in attuazione dell'articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale” e che “la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura”. Cultura e memoria, in un binomio inscindibile. Senza memoria non potremmo capire il presente né, tanto meno, attrezzarci per vivere il futuro. Ma leggiamo anche l’articolo 9 della nostra Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Come dicevo, riportare all’attenzione pubblica, politica ed amministrativa questi assunti non può che essere positivo. C’è però da dire che, come ha ricordato Tomaso Montanari, la tesi di fondo portata avanti dal “Manifesto” non è nuova. Già nel 1985, Gianni De Michelis diceva: “le risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica”. Molto sintetico, molto chiaro. Ripeto, passare dall’idea che con la cultura non si fa un panino, a quella per cui è qualcosa che comunque “conviene” valorizzare, può forse renderci moderatamente ottimisti, o non totalmente pessimisti, sul presente e sul futuro dei nostri monumenti, dei nostri musei, dei teatri, delle biblioteche e degli archivi. Ma vorrei spendere poche parole, per ora, su un’altra esperienza culturale: quella del Teatro Valle occupato, a Roma. Si sta sviluppando l’idea di gestire il teatro attraverso lo strumento di una fondazione, il cui statuto non preveda il Consiglio di amministrazione, regoli le direzioni artistiche turnarie, premi la gestione partecipata del teatro e l’autogoverno dei lavoratori dello spettacolo. In prospettiva, si vuol “rovesciare l’idea che la misura dello spettacolo in Italia sia il biglietto”. Stefano Rodotà, che vi ha collaborato, ne scrive così: “Non siamo di fronte ad una questione marginale o settoriale, ma ad una diversa idea della politica e delle sue forme, capace non solo di dare voce alle persone, ma di costruire soggettività politiche, di redistribuire poteri. È un tema “costituzionale”, almeno per tutti quelli che, volgendo lo sguardo sul mondo, colgono l’insostenibilità crescente degli assetti ciecamente affidati alla legge “naturale” dei mercati”. Il tema è ricco e meritevole di approfondimenti, che non possiamo fare qui e ora. Ma io desidererei una realtà in cui non sia del tutto vero il vaticinio di Bernard Berenson, grande critico d’arte, che, nel 1941, prevedeva un mondo “retto da biologi ed economisti, dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico”. La bellezza e la cultura devono stare anche nell’esperienza gratuita del mondo, o non sono. Ne riparleremo.

«E’ una crisi studiata a tavolino» Intervista al professor Bruno Amoroso


La dinamica della crisi che affonda le radici in scelte precise, dettate dai colossi della finanza; la trasformazione del sistema bancario, con la scissione tra la banca di risparmio e quella di investimento; la speculazione sui titoli dei singoli Stati dell'area euro; i rischi del populismo in politica; i rischi dell’obbligo di pareggio nei bilanci pubblici. Temi importanti: per parlarne, l’appuntamento è a Cremona, presso Palazzo Cattaneo, venerdì 4 maggio alle 18, in un incontro promosso dal circolo culturale AmbienteScienze. con la partecipazione del professor Bruno Amoroso, docente emerito di economia internazionale dell'Università di Roskilde (Danimarca) e allievo del grande economista Federico Caffè. Prendendo spunto dal fenomeno "Occupiamo Wall Street", un movimento di protesta, nato negli Usa e poi diffusosi anche in Europa, teso a contrastare lo strapotere del capitale finanziario e l’azione delle banche, il docente farà il punto sulla situazione politica ed economica internazionale, sostenendo una tesi interessante ad allarmante: non si tratta di una “tradizionale” crisi del capitalismo, ma un percorso studiato a tavolino. Ne abbiamo parlato con lo stesso professor Amoroso. 
Per quale motivo ha deciso di concentrarsi sul fenomeno “Occupiamo Wall Street? 
«Perché questo tema mette al centro dell’attenzione due fatti sostanzialmente nuovi. Da un lato la specificità di questa crisi, che viene definita come finanziaria ma che in realtà è molto di più; dall’altro, perché “Occupy Wall Street” è una reazione piuttosto originale e inedita al fenomeno della crisi. La tradizionale protesta sociale che viene normalmente rivolta alla politica o al capitalismo, questa volta viene indirizzata nei confronti della finanza, rompendo gli schemi e uscendo dall’involucro del mero dibattito politico. Anche gli attori della protesta sono cambiati; non si tratta più, infatti, di gruppi politici o sociali organizzati: ora a scendere in piazza sono i veri danneggiati dalla crisi, coloro che hanno perso il lavoro, o che si trovano in difficoltà economiche, i quali hanno indirizzato la loro protesta contro quei gruppi di potere che finora si erano nascosti all’ombra dei tecnicismi monetari e dell’autonomia delle istituzioni bancarie e finanziarie. Un movimento che dall’America è giunto anche in Europa e in Italia, due anni dopo, quando abbiamo visto dapprima una protesta degli studenti, e dopo una mobilitazione dei giovani italiani di fronte alla Banca d’Italia; per la prima volta, dunque, i giovani hanno rivolto le loro rimostranze a un soggetto che è il vero centro del potere, dimostrando di riconoscere chi sono i reali fautori della crisi». 
Lei ha accennato al fatto che stiamo vivendo molto più di una crisi finanziaria. Cosa intende? 
«Molti sono convinti che questa fase sia riconducibile alle tradizionali crisi del capitalismo. In realtà ci troviamo di fronte a un vero e proprio percorso organizzato e studiato a tavolino. Questa crisi non rappresenta un fallimento, quindi, ma il successo di chi ha voluto pianificare tale azione, e che ora si trova al potere. Sto parlando dei colossi della finanza. Basta analizzare quanto è accaduto dapprima negli Usa e poi in Europa, per comprendere queste dinamiche: negli Stati Uniti tutto ha preso il via tra gli anni ‘80 e ’90, quando si è voluto trasformare un sistema bancario che all’epoca era basato su regole molto oculate e dotato di vincoli ben precisi sugli investimenti a rischio, che impedivano alle banche di speculare con i fondi dei risparmiatori; ciò è cambiato con la scissione tra la banca di risparmio e quella di investimento. Nel decennio successivo, con Clinton e Bush, si è consentito alle banche di investire in operazioni finanziarie rischiose. Da noi lo stesso percorso è avvenuto qualche anno dopo, a partire dagli anni ’90, con la privatizzazione del sistema bancario italiano: sono quindi spariti i piccoli istituti di credito, sostituiti da grandi gruppi bancari di investimento, che hanno messo in circolo in Italia i titoli spazzatura provenienti dagli Stati Uniti. Da qui il passo verso tracolli e crack finanziari è stato breve. La crisi che stiamo vivendo discende da tutto questo». 
In uno scenario come quello che ha descritto, cosa può accadere all’Europa? 
«Facciamo un passo indietro, a quando fu introdotto l’euro per sopperire alla debolezza delle monete nazionali dei singoli stati europei. Di fatto non tutti i paesi hanno aderito alla moneta unica, così ci troviamo di fronte alla presenza di 11 diverse valute, con il risultato che nel mirino della speculazione non sono finite le monete degli Stati piccoli, ma le debolezze dei titoli dei singoli Stati dell'area Euro i quali, pur essendo espressi nella stessa moneta, vengono valutati diversamente nei mercati finanziari. A peggiorare le cose ci sono le politiche che l'Unione sta portando avanti; emblematico è il caso del pareggio di bilancio: notoriamente per uscire da una crisi di dovrebbe aumentare il debito pubblico, dando così soldi alle imprese e alle famiglie, invece chiedendo il pareggio si fa esattamente il contrario. Inoltre sono convinto sia assurdo pretendere che il bilancio del settore pubblico sia in pareggio, in quanto esso viene comunque controbilanciato dal risparmio privato. Dunque sarebbe corretto chiedere il pareggio del bilancio dell'economia nazionale, che comprende pubblico e privato. Intanto oggi nei posti di potere abbiamo proprio coloro che sono i primi responsabili della crisi. Basti vedere quanto peso hanno assunto le agenzie di rating, i cui pareri vengono accettati a occhi chiusi anche se in realtà esse sono parte integrante del sistema finanziario speculativo che dovrebbero controllare. I sistemi finanziari hanno costruito legami che impediscono ogni forma di competizione interna e hanno anche il pieno controllo dei sistemi monetari (dollaro, sterlina e euro) come dimostra la loro presenza nei posti chiave del governo dell'economia e della moneta sia negli Stati Uniti sia in Europa». 
Cosa stiamo rischiando? 
«Molti pensano di essere già arrivati all'apice della crisi, ma in realtà gli effetti più devastanti, dal punto di vista sociale ed economico, si presenteranno tra il 2012 e il 2013, come conseguenza delle politiche restrittive che l'Europa ha imposto agli Stati membri. Ciò si andrà a sommare ai problemi già esistenti di perdita di lavoro e di reddito, con ripercussioni e conseguenze pesantissime. Avremo infatti due forme diverse di reazione. Da un lato quella degli strati più bassi della popolazione, che reagiscono cercando di riorganizzarsi, incrementando il lavoro sommerso e spesso cadendo nella microcriminalità. Dall'altro lato avremo invece la reazione più "pericolosa", quella del ceto medio. Il sistema di welfare italiano, infatti, è incentrato sulla famiglia e sul sostegno ai figli da parte dei genitori. Dunque chi arriva ad avere magari due o tre appartamenti a sessant’anni non è in realtà un ricco, ma una persona che ha lavorato una vita risparmiando per poter dare una casa ai figli. Le misure del governo Monti, in questo senso, toccano il cuore del sistema familiare italiano, mettendo in discussione i rapporti intergenerazionali. Questo sta scatenando una reazione contro i gruppi sociali più poveri e in difficoltà, come quello degli immigrati. Anche le maxi operazioni che si stanno portando avanti contro l'evasione fiscale rischiano di essere dannose: si colpiscono infatti i piccoli commercianti, che se lavorano in nero lo fanno solo per sopravvivere, mentre nessuno tocca chi ha procurato l'illecito nelle grandi speculazioni, come ad esempio il sistema bancario. Si sta concentrando la rabbia su chi comunque non potrà mai risolvere il problema economico del paese, e in questo modo si fomenta una reazione del ceto medio contro quello povero, fino a cadere in una vera e propria "guerra tra poveri". Conseguenza di ciò sarà un imbarbarimento della politica, che sta scadendo nel populismo. L'avvento del fascismo, negli anni '30, fu generato proprio da uno stato di cose simile: una situazione di disordine sociale che il re volle placare mettendo Mussolini al potere».
«La soluzione? Non tanto il superamento del sistema monetario dell’euro, ma la divisione dell’Eurozona in due parti, con rapporti di cambio concordati e meccanismi di solidarietà»




«Le proposte critiche si sono orientate in due direzioni principali. Gli economisti keynesiani propongono il superamento del sistema monetario dell'euro, che diventa un ostacolo per la ripresa economica. Il precedente sistema monetario europeo era basato sulle valute nazionali, con un sistema di fasce di cambi pre-concordati che consentivano una certa flessibilità e che hanno funzionato per 20 anni. L'euro ha sostituito la cooperazione tra monete nazionali, ma ha avuto l'effetto di dividere l'Europa. Basandosi su queste riflessioni, i keynesiani propongono di ristabilire le condizioni pre-euro. Inoltre si propone un fondo di solidarietà al quale dovrebbero concorrere sia i paesi con un eccesso di surplus sia quelli con un eccesso di deficit nella bilancia dei pagamenti. Il fondo dovrebbe aiutare in modo mirato i paesi in difficoltà. Si tratta di una proposta di buon senso, ma ha una debolezza: presuppone l'esistenza di governi nazionali autonomi, che invece in Europa non esistono più, in quanto tutti sono occupati dal sistema delle banche. La mia proposta è invece quella di tentare di risolvere i problemi prodotti dall'euro dentro questo sistema. I problemi nascono da una divisione tra i paesi dell’area tedesca e quelli dell’Europa del sud. Per questo è ipotizzabile una divisione dell'euro in due zone, con rapporti di cambio concordati e meccanismi di solidarietà. La divisione della zona euro costringerebbe i governi e i movimenti politici dell’Europa del sud a riprendere una propria iniziativa più aderente alla realtà dei propri sistemi produttivi e sociali e consentirebbe uno spazio d’intervento ai movimenti sociali, politici e sindacali di questi Paesi. In secondo luogo, si riaprirebbe un processo di rifondazione dell'assetto istituzionale europeo, nella direzione di una struttura federale europea costruita non su singoli Stati e Paesi, ma su aree mesoregionali omogenee. Questo è quanto di fatto già avviene nell'area dei paesi baltici e dell'Europa centrale. Ricordo che, ad esempio,nel '700 esisteva una "moneta latina", che veniva identificata con il franco. Tale sistema venne sciolto dopo alcuni anni, ma ancora oggi esistono il franco svizzero, quello francese, quello belga, e così via. Un fenomeno simile accadde nei paesi scandinavi, con la corona. Lo stesso dovrebbe accadere con l'euro, nel momento in cui non ha più la funzione di unire”.