di Agostino Francesco Poli
Se mai qualcuno se ne fosse dimenticato, giova tornare a
quella frase dell’allora ministro Giulio Tremonti: “di cultura non si vive, vado
alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina Commedia”.
La frase venne stigmatizzata e assurse a simbolo della china precipitosamente
discendente percorsa da una certa Italia: quell’arroganza affaristica che negava
alla cultura non solo lo status di cibo fondamentale per l’animo delle persone e
dei territori, ma anche una sottovalutazione miope e grevemente ignorante delle
possibilità di sviluppo offerte dalla valorizzazione della cultura stessa.
Eppure, per parafrasare una frase di Hugh Grant nel ruolo di un fascinoso primo
ministro inglese (il film è “Love actually”), siamo la patria di Dante,
Leonardo, Michelangelo e Vivaldi, di Pirandello e di Renzo Piano, di Rita Levi
Montalcini e di Margherita Hack, della mano di Filippo Brunelleschi e del piede
del “Mosè”, dei panorami struggenti, delle città d’arte tra le più straordinarie
del mondo, delle biblioteche, delle pinacoteche, dei musei, degli archivi, dei
siti archeologici di infinita, splendida, delirante bellezza. Mi fermo qui,
perché la meraviglia e la cultura che hanno dimora nel nostro Paese sono, forse,
senza pari. Certo non si fanno panini con i calcinacci di Pompei
progressivamente sbriciolata e del centro storico de L’Aquila, ancora ridotto a
macerie. Eppure, negli ultimi anni abbiamo assistito a enti culturali
decapitati, fondi allo spettacolo decurtati, teatri e cinema sempre più chiusi.
Occorrerebbe un volume intero (e qualcuno ne ha scritti) per documentare i veri
e propri insulti di cui sono state oggetto, negli anni, la scuola e
l‘università, il sistema dell’istruzione pubblica. Ho sempre pensato però che,
al fondo dell’ignoranza, si celasse un progetto preciso. Lo ha scritto in un
bell’articolo Andrea Cortellessa: l’”egemonia sottoculturale” di cui parla
Massimiliano Panarari non può che essere funzionale a un progetto di dominio
economico, sociale e, dunque, politico. È appena il caso di accennare al
crescere del fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, su cui si è fermato più
volte Tullio De Mauro. Ma forse, qualcosa si sta muovendo, e non solo a livello
di ristrette élite intellettuali, quasi voces clamantes in deserto. È accaduto
che, lo scorso 19 febbraio, “Il Sole 24 ORE” abbia pubblicato, nel suo inserto
domenicale, sempre di grande qualità, il “Manifesto per la cultura”, intitolato
“Niente cultura, niente sviluppo”. Vi si legge che “la cultura e la ricerca
innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e
sviluppo”. Altri assunti: l’Italia, e in grande misura l’intera Europa, devono
oggi fronteggiare una sfida non semplice, ritrovare la via della crescita. È una
opinione ancora minoritaria, ma sempre più diffusa, che la cultura debba far
parte in modo importante del nuovo scenario. Lo sviluppo culturale è strategico
non solo per l'Italia, ma per l'intera Europa: numerosi studi dimostrano come il
sistema della produzione culturale e creativa sia anche uno dei più grandi
settori, superiore per fatturato ai principali comparti del manifatturiero e
alla maggior parte dei comparti del terziario avanzato. Ci sono cinque punti
fermi: una Costituente per la cultura; strategie di lungo periodo; cooperazione
tra ministeri; l’arte a scuola e la cultura scientifica; merito,
complementarietà pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale. Il successo è stato
grande, e continua a crescere. Hanno aderito, tra i moltissimi, anche tre
ministri, Passera, Profumo e Ornaghi; il commissario europeo all’istruzione e
alla cultura Vassiliou e il ministro danese della cultura Elbaek. Tutto bene,
quindi? Direi di sì, se questa attenzione, se non altro, servisse a rimettere al
centro della scena la questione cultura, l’affaire cultura. Il nostro Paese ha
una legge importante, su questa materia: è il Codice dei beni culturali e del
paesaggio, decreto legislativo n. 42 del 2004. Vi si legge che “in attuazione
dell'articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il
patrimonio culturale” e che “la tutela e la valorizzazione del patrimonio
culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo
territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura”. Cultura e memoria, in un
binomio inscindibile. Senza memoria non potremmo capire il presente né, tanto
meno, attrezzarci per vivere il futuro. Ma leggiamo anche l’articolo 9 della
nostra Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la
ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e
artistico della Nazione”. Come dicevo, riportare all’attenzione pubblica,
politica ed amministrativa questi assunti non può che essere positivo. C’è però
da dire che, come ha ricordato Tomaso Montanari, la tesi di fondo portata avanti
dal “Manifesto” non è nuova. Già nel 1985, Gianni De Michelis diceva: “le
risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico
della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene
concepito come convenienza economica”. Molto sintetico, molto chiaro. Ripeto,
passare dall’idea che con la cultura non si fa un panino, a quella per cui è
qualcosa che comunque “conviene” valorizzare, può forse renderci moderatamente
ottimisti, o non totalmente pessimisti, sul presente e sul futuro dei nostri
monumenti, dei nostri musei, dei teatri, delle biblioteche e degli archivi. Ma
vorrei spendere poche parole, per ora, su un’altra esperienza culturale: quella
del Teatro Valle occupato, a Roma. Si sta sviluppando l’idea di gestire il
teatro attraverso lo strumento di una fondazione, il cui statuto non preveda il
Consiglio di amministrazione, regoli le direzioni artistiche turnarie, premi la
gestione partecipata del teatro e l’autogoverno dei lavoratori dello spettacolo.
In prospettiva, si vuol “rovesciare l’idea che la misura dello spettacolo in
Italia sia il biglietto”. Stefano Rodotà, che vi ha collaborato, ne scrive così:
“Non siamo di fronte ad una questione marginale o settoriale, ma ad una diversa
idea della politica e delle sue forme, capace non solo di dare voce alle
persone, ma di costruire soggettività politiche, di redistribuire poteri. È un
tema “costituzionale”, almeno per tutti quelli che, volgendo lo sguardo sul
mondo, colgono l’insostenibilità crescente degli assetti ciecamente affidati
alla legge “naturale” dei mercati”. Il tema è ricco e meritevole di
approfondimenti, che non possiamo fare qui e ora. Ma io desidererei una realtà
in cui non sia del tutto vero il vaticinio di Bernard Berenson, grande critico
d’arte, che, nel 1941, prevedeva un mondo “retto da biologi ed economisti, dai
quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un
fine strettamente biologico ed economico”. La bellezza e la cultura devono stare
anche nell’esperienza gratuita del mondo, o non sono. Ne riparleremo.
Nessun commento:
Posta un commento