Signor Landini, una domanda sulla manovra Monti: la Cgil, ma anche le altre sigle sindacali, dicono che, ancora una volta, pagano i soliti noti. Vuol spiegarci perché ?
«La manovra decisa dal Governo di Monti colpisce i soliti noti, quelli che la crisi la pagano già da anni. Abbiamo assistito da tempo ad una redistribuzione senza precedenti della ricchezza a danno di chi lavora. Se chi lavora onestamente è povero, non arriva a fine mese, vuol dire che l’ingiustizia sociale ha raggiunto limiti intollerabili. In più c’è tutto il problema dei giovani e del lavoro precario. La manovra non affronta i problemi e i motivi che hanno determinato questa crisi, è fortemente iniqua perché fa cassa andando a colpire le pensioni, i redditi da lavoro. Inoltre ha un effetto depressivo, che non rilancia i consumi interni e, quindi, la produzione. E, intanto, la cassa integrazione aumenta, come anche il numero di aziende che chiudono. Io credo che non ci fosse bisogno di fare questo disastro. Sono totalmente contrario, perché dire che si cancellano le pensioni di anzianità e che uno dopo 41 anni di lavoro non ha diritto di andare in pensione e se ci va viene penalizzato, credo che sia un cosa che non sta in piedi.
Quali altre misure potrebbero essere adottate?
«Bisogna ricostruire una giustizia sociale che è venuta meno. Anche nell'emergenza, il Governo poteva fare altre scelte. Chi impediva di istituire una patrimoniale, di far pagare di più a chi possiede di più, di affrontare con durezza l'evasione fiscale, di ridurre gli stipendi dei parlamentari e dei manager? E’ normale varare una manovra così pesante e, contemporaneamente, dare a Guarguaglini una buona uscita di 5,5 milioni di euro? E’ il momento di far pagare chi non l’ha mai fatto. Secondo i dati ufficiali, nel nostro Paese l'evasione raggiunge i 120 miliardi di euro. La manovra del Governo è recessiva e non mette in campo azioni che siano in grado di mettere al centro l’obiettivo del lavoro, dell’occupazione e di un nuovo modello di sviluppo».
Veniamo nello specifico al suo comparto, cioè la Fiom, e la lotta, che oramai dura da tempo, contro il cosiddetto "modello Marchionne", imposto dalla Fiat. Lei dice: i diritti dei lavoratori e i diritti sindacali non sono comprimibili. Marchionne è uscito da Confindustria, ha disdettato il contratto in essere e minaccia, nei fatti, di lasciare l'Italia. Come è possibile uscire da questa impasse?
«L’estensione del modello Pomigliano a tutto il gruppo Fiat e ai suoi 86mila lavoratori rappresenta un attacco
ai diritti, alle libertà e alla democrazia perché sancisce la cancellazione del Contratto nazionale e l’esclusione della Fiom-Cgil, il sindacato maggiormente rappresentativo in Fiat e in tutto il settore manifatturiero, dal gruppo. Non è l’azienda che può scegliersi il sindacato, sono i lavoratori che si scelgono i loro rappresentanti. Il tutto avviene senza aver ricevuto alcun mandato dai lavoratori. Nessuno ha chiesto ai dipendenti dell’Iveco, della Ferrari, della Maserati se volevano uscire dal Contratto nazionale e peggiorare le
loro condizioni. Inoltre, Fim e Uilm hanno ceduto al ricatto della Fiat, accettando di ridursi a sindacati aziendali e corporativi, abdicando così alla loro storia di sindacati confederali. Pensiamo che il Governo non possa stare a guardare perché l'accordo non dice nulla degli investimenti nel più grande gruppo industriale del nostro Paese e perché mette in discussione le libertà sindacali garantite dalla Costituzione. Con questa manovra, così come sta facendo la Fiat, non si affronta il problema della crescita e degli investimenti. La Fiat sta cancellando i contratti, non fa investimenti, aumenta la cassa integrazione e chiude stabilimenti».
Come vede il futuro del nostro Paese?
«Tutti gli esperti dicono che il 2012 sarà un anno peggiore di questo. Bisogna intervenire sulle ragioni che hanno determinato la crisi, ripensare un nuovo modello di sviluppo che sia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale. Ripensare sia le produzioni, che il prodotto. In questi anni le imprese per anni hanno usato i profitti per fare speculazioni e non investimenti. E’ necessario invertire questa tendenza puntando sullo sviluppo e sulla ricerca, anche partendo dall’Università. Inoltre, è fondamentale rimettere al centro il contratto nazionale come elemento di unità e di tutela, anche delle stesse imprese. Altro punto fondamentale è ripensare il sistema del welfare, combattendo la precarietà. Altrimenti, la competizione si giocherà sulle
condizioni di lavoro invece che sulla qualità dei prodotti».
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