venerdì, dicembre 09, 2011

«La patrimoniale? Ora è tardi» Pietro Modiano, presidente di Nomisma: «Sarebbe stata efficace se adottata in maniera preventiva»

di Daniele Tamburini
Metter i conti in ordine: è una priorità. Ma, soprattutto, è fondamentale far ripartire la crescita, del prodotto e della produttività. La manovra del governo Monti va in questa direzione? Le “lacrime e sangue” che contiene, saranno efficaci? Lo abbiamo chiesto all’economista Pietro Modiano.
Modiano ha ricoperto incarichi di vertice in istituti e fondazioni bancarie e, dallo scorso anno, è presidente di “Nomisma”, società di studi economici che ha sede a Bologna, fondata nel 1981 da Nerio Nesi e Francesco Bignardi, allora presidente e direttore generale di BNL, i quali affidarono a Romano Prodi il compito di organizzarne scientificamente il lavoro di ricerca. Nel corso degli anni, “Nomisma” si è affermata come un’esperienza di punta nel campo della ricerca economica e sociale, capace di una visione interdisciplinare che contempli in modo ampio e organico la complessità delle questioni economiche del nostro tempo. Un vero “think tank”, fucina di professionalità e talenti di eccellenza. Pietro Modiano ha lanciato pubblicamente, mesi fa, con molta determinazione, l’idea di una imposta sui grandi patrimoni: una soluzione strutturale, che andrebbe a toccare la parte più abbiente della società, con un impatto recessivo molto modesto ma capace di dare una forte spinta positiva al rapporto debito-Pil. Ma la patrimoniale, anche nell’emergenza, non è entrata nell’agenda del Governo. Su questo, e su altri temi all’ordine del giorno, abbiamo rivolto alcune domande al dottor Modiano:
Vorrei partire da un elemento presente nel nome della società che presiede, evidenziato sulla pagina web: “Nomisma” – scrivete – è parola che, nel greco antico, indica il valore reale delle cose. Qual è il valore reale delle cose, oggi, nel nostro Paese? Fuor di metafora, quali sono gli elementi ancora sani, robusti, concreti, a cui appellarci per far fronte alla crisi?
«Una su tutte, la manifattura italiana, a differenza di quanto comunemente si pensi. Essa negli ultimi dieci anni ha retto molto bene la concorrenza, se non della Cina sicuramente di tutti i concorrenti europei più diretti, mantenendo su un buon livello la propria quota di mercato rispetto agli altri paesi: basti pensare che siamo secondi solo alla Germania, che aveva imposto una manifattura di grande successo. Ha retto bene alla trasformazione dei modelli di competitività, e continua a dimostrare una grande vitalità. Un settore, dunque, che per noi rappresenta un punto di forza significativo, che si trasforma continuamente nello sviluppo della qualità.»
Il governo Monti è una innegabile rottura con il passato recente. Dopo settimane di incertezze e forti tensioni, ora viene proposta una manovra sulla quale la discussione è accesa, ma che pare incontrare apprezzamento in Europa, nelle Borse e sui mercati. Le critiche, soprattutto dalle parti sociali, si concentrano sulla scarsa equità della manovra stessa, che tocca pesantemente, tra le altre cose, le pensioni, quindi il sistema del welfare. Lei cosa ne pensa?
«Premettiamo una cosa: stiamo parlando di una manovra che pesa per meno di due punti sul Pil. Certo, è notevole, ma ne abbiamo viste di peggio, anche recentemente. Il problema di questa manovra è, appunto, che va ad aggiungersi alle altre due ancora più restrittive, che si sono susseguite quest’anno. L’equità è un concetto fondamentale: una manovra per quanto restrittiva non deve essere troppo pesante, e i sacrifici devono essere distribuiti in modo equo, e questo aspetto mi sembra rispettato, in particolar modo per quanto riguarda la tassa sui capitali che hanno usufruito dello scudo fiscale, da un lato, e la rinuncia all’aumento dell’addizionale Irpef, dall’altra. Scelte che dimostrano che non si può penalizzare solo chi paga le tasse. Naturalmente, è ovvio che per recuperare 21 miliardi aggiuntivi la manovra deve colpire un po’ tutta la società. Nel complesso, sono convinto che questa squadra di governo sia attenta e tempestiva, e abbia i numeri per lavorare bene.»
Veniamo al tema dell’imposta patrimoniale, che lei ha lanciato. Come mai, pur in presenza di molte voci a favore, lo stesso Monti non ha voluto o potuto inserire una patrimoniale come quella da lei delineata? Parafrasando il titolo di un film, chi ha paura della patrimoniale?
«In realtà le voci a favore sono state poche, molte più quelle contrarie. Sulla base di motivazioni anche serie, devo dire, come ad esempio il fatto che una patrimoniale una tantum avrebbe potuto creare un effetto recessivo. A questo proposito avevamo provveduto a conteggiare i possibili effetti, e la recessione sui consumi sarebbe comunque stata limitata. Capisco comunque la prudenza di chi governa. Ricordiamo anche che una misura simile sarebbe stata tanto più efficace quanto preventiva. Infatti ne avevo parlato a luglio, quando lo spread era a 200 punti: in quella situazione sì che sarebbe stata una misura efficace, per togliere benzina dalla speculazione e permettere di fare le riforme con un po’ di tranquillità. Fatto invece nel fuoco della speculazione, un provvedimento del genere sarebbe stato più rischioso che efficace, tanto più che il problema da un livello puramente italiano si è nel frattempo spostato su un piano europeo. Aggiungo infine che un’imposta patrimoniale fortemente progressiva richiederebbe una disponibilità di dati non facile da costruire».
Lei ha recentemente dichiarato che il Paese ha bisogno di luoghi in cui le competenze si uniscano, si aprano alle novità e che ciò si traduca in azioni per le imprese, per le comunità locali e per la politica nazionale. Le misure previste dalla manovra vanno in questa direzione?
«In realtà questo non sarebbe compito della politica, ma delle classi dirigenti, che dovrebbero prendersi questa responsabilità. In questi anni ci sono mancati i luoghi di decisioni asettici e non partigiani sul futuro del Paese. Questo ha contribuito a creare leggende metropolitane come il fatto che la manifattura italiana fosse destinata a scomparire. O l’assenza di previsioni di lungo periodo sulla finanza pubblica. Temi su cui la mancanza di una riflessione scientifica e condivisa ha creato solo problemi. La speranza, ora, è che sia finita quest’epoca di contrapposizione frontale, che non serve a niente. Ora quello che occorre al Paese sono reazioni condivise. Un passaggio che l’Italia ancora non ha fatto, e fatica a portare avanti, come invece è accaduto in molti altri paesi che, usciti da un periodo traumatico, hanno saputo creare una politica condivisa. L’Italia è ancora sprovvista di istituzioni gerarchiche e grandi poli in cui la società civile possa riconoscersi».
I talenti compressi e ignorati dei giovani sono uno dei problemi più gravi del nostro Paese. Che ne pensa?
«La situazione è grave. Il rischio è che almeno un paio di generazioni potrebbero non avere voce in capitolo sul futuro del Paese. L’allungamento dell’età pensionabile, del resto, non favorisce certo l’ingresso delle giovani generazioni nel mondo del lavoro. Anche la graduale scomparsa delle grandi imprese pubbliche e private riduce le possibilità di un giovane di fare carriera, in quanto nelle aziende piccole la carriera è qualcosa di molto ridotto».
Vi sono soluzioni a questa situazione?
«Purtroppo è una malattia complessa, e come sempre in questi casi non vi sono ricette semplici. Servirebbe una classe dirigente più aperta ai giovani, e un paese che ricominci a crescere, creando istituzioni riconosciute a livello internazionale. Bisogna motivare queste generazioni a restare nel nostro Paese. La frammentazione di tutto in piccole cose, come accade in Italia, è nemica della meritocrazia e riduce la capacità di ripresa sociale e il dinamismo».
Dottor Modiano, le faccio la stessa difficile domanda che ho rivolto a tutti gli intervistati: il nostro Paese ce la farà?
«Il Paese ce la sta già facendo. Siamo usciti ancora una volta da una situazione che sembrava senza sbocchi, e abbiamo trovato la strada della coesione nazionale e della consapevolezza complessiva. Naturalmente siamo solo all’inizio, ma ora un po’ di ottimismo mi sento di esprimerlo, cosa che invece qualche mese fa avrei detto impossibile. Il passo successivo sarà tradurre questa coesione nazionale in energia per lo sviluppo collettivo. E non sarà facile».

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