sabato, gennaio 28, 2012

L’importanza di ricordare, sempre. intervista a Michele Sarfatti, direttore del Cdec

Veenerdì  27 ricorre il Giorno della Memoria. Una legge del 2000, fortemente voluta da Furio Colombo, ha
inteso ricordare, il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, e coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Lo sterminio coinvolse anche l’etnia rom e sinti, comunisti, testimoni di Geova, omosessuali, disabili, dissidenti tedeschi e pentecostali; la deportazione si accanì contro prigionieri di guerra, anche italiani, quelli che non vollero piegarsi al Mussolini di Salò. Milioni di persone. La cura della memoria, per una civiltà che intenda definirsi tale, è fondamentale. In questo caso, memoria significa rispetto e amore verso chi ha subito sofferenze inenarrabili, ma anche un monito, perché occorre sempre vigilare. Avvenimenti che sembrano lontanissimi da noi potrebbero ripresentarsi. Lo scriveva Primo Levi: se è accaduto una volta, può accadere di nuovo. A questo proposito abbiamo posto alcune domande allo storico Michele Sarfatti, direttore del Cdec – Centro di documentazione ebraica contemporanea, che ha sede a Milano.
Dottor Sarfatti, perché è importante la legge che ha istituito il Giorno della Memoria?
«E’ importante perché fornisce un punto di incontro alle persone che vogliono coltivare la memoria, tenendola viva. E’ altrettanto importante, però, che non sia un obbligo, ma un’adesione volontaria, altrimenti la ricorrenza perderebbe il suo significato. Si tratta di compiere un percorso, individuale o collettivo, per riflettere su quanto è accaduto. Dunque la legge è buona cosa, purché sia interpretata correttamente».
L’argomento è enorme, e ovviamente non si può sintetizzare in poche righe, ma che cosa fu la Shoah?
«Fu uno sterminio scientificamente progettato da una parte della popolazione del continente europeo ai danni di un’altra parte di tale popolazione. I “decisori” della Shoah furono pochi ma innumerevoli furono i collaboratori e gli esecutori. Si tratta dunque di un problema collettivo: erano europei tanto i persecutori quanto le vittime, e quindi si è trattato di una situazione di disagio creatasi all’interno del nostro continente. Fu un fenomeno scientifico, moderno e totalitario nella sua progettazione, mentre nell’esecuzione convissero due differenti modalità: una tecnologica e moderna, ossia l’uccisione degli ebrei nelle camere a gas, metodologia che richiese studi e progettazioni e che riguardò in particolare gli ebrei italiani; l’altra, che coinvolse maggiormente ebrei russi e polacchi, fu invece una modalità antica e primitiva: quella degli eccidi di massa, nei boschi, nelle pianure o dentro le stesse sinagoghe, a cui veniva dato fuoco. Due modi diversi di
raggiungere lo stesso obiettivo, ossia eliminare delle grandi quantità di persone in poco tempo».
Si dice che in Italia la cura della memoria non abbia grande diffusione: lei che ne pensa?
«Non credo sia così. La percezione che abbiamo è che la diffusione della memoria in Italia sia notevole. Non è vissuta solo da una nicchia di persone, anzi: sono parecchi gli italiani che condividono il ricordo. Accanto a loro poi ci sono anche quelli che vogliono essere indifferenti alla cosa, e non mancano neppure i negazionisti,
che hanno una memoria gestita in modo malsano. Anche l’opinione pubblica presta molta attenzione a questa ricorrenza: basta fare caso a quanti periodici e quotidiani in questi giorni offrono film, libri e altro legati all’argomento. Questo dimostra che la richiesta di informazioni è sempre alta. Quello che si nota, invece, è che periodicamente cambiano i centri di interesse: quest’anno ad esempio è molto presente il tema del negazionismo».
 In che rapporto sta il Giorno della Memoria con altre celebrazioni successivamente create (come il Giorno del ricordo)?
«Il Giorno della Memoria non può essere in concorrenza o alternativa con altri ricordi, anche perché si trova su un altro piano: nessun’altra vicenda del ‘900, fortunatamente, ha avuto le caratteristiche della Shoah. Abbiamo visto altre violenze di massa ma nulla a quei livelli. Naturalmente tutte le vicende di questo tipo meritano di essere ricordate; nella misura in cui ci definiamo italiani assumiamo più di noi tutto il peso delle vicende legate alla nostra storia. Compreso tutto quello che è successo nell’area di confine tra Italia e Jugoslavia, come le foibe. Non si può pensare di rinunciare a un pezzo di storia, perché sarebbe una sorta di
amputazione intellettuale. Tra l’altro, quello delle foibe fu un episodio complesso, giacché tali violenze erano iniziate già negli anni ’20. Fu proprio da scontri nazionalisti di quel tipo che poi si arrivò alla Shoah: quella mentalità del considerarsi meglio degli altri e la voglia di risolvere i problemi con il sangue furono all’origine di tutto».
Il suo Centro lavora molto con le scuole. C’è sensibilità su questi argomenti, tra docenti e studenti?
«Direi di sì. Da un lato lo vedo quando vado a parlare nelle scuole, dall’altro nell’ambito del concorso nazionale, che si ripete ogni anno per tutte le scuole di ogni ordine e grado, legato proprio ai temi della Shoah. Faccio parte della giuria, e ogni anno vedo grande partecipazione e impegno da parte dei giovani. Si vede la voglia di approfondire e conoscere il tema».

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