Si sente spesso dire, e io stesso l’ho detto in più occasioni: la politica
ormai è un teatrino, con tanti attori che non partono da posizionamenti e scelte
precise, ma che si muovono sulla base del gradimento, del consenso, dei sondaggi
d’opinione. Ed è vero. Leggere le prime pagine dei giornali equivale, molto
spesso, a guardare un noioso incontro di tennis (che, quando è noioso, lo è
davvero!). Tant’è che anche i sommovimenti maggiori (il redde rationem nel
centrodestra, l’accelerazione della Lega in senso lepeniano, gli scossoni nel
Pd, che lascia per strada pezzi di partito, iscritti, deputati e anche il
capogruppo Speranza), diciamocelo, interessano poco. Ma… c’è un ma: abbiamo
questa sensazione di inconsistenza, perché, in realtà i giochi veri sono proprio
altrove. Il potere che oggi è quello “vero”, quello legato all’economia ed alla
finanza, eccome se si sta ristrutturando. E la sensazione è che a qualcuno
interessi moltissimo delineare la nuova mappa nazionale di questo potere. Vi si
vedono volti nuovi, ma non troppo. Rotture, ma nella continuità. Più o meno
giovani boiardi che sono cresciuti, comunque, nelle antiche case del potere, di
questo potere. Il potere è una categoria che, durante una stagione vicina
cronologicamente, ma lontana anni luce, nei contenuti e nello stile, si diceva
dovesse essere destrutturato, messo in discussione, decostruito. Questo potere è
oggi un moloch apparentemente invincibile. Gestisce le nostre cose e le nostre
vite. Garantisce il futuro di pochi, mentre per tutti gli altri il futuro sta
nella declinazione dei verbi: “Riformerò, rottamerò, farò, cambierò...”. Forse
ha ragione chi decide di scenderci a patti, perché la rivoluzione non è certo –
o non lo è mai stata – dietro l’angolo. Nel nostro “piccolo” gli esempi recenti
non sono mancati (leggi Ente Fiera), e nel bene o nel male il potere, quello che
decide, a prescindere, passa su tutto e su tutti. Tutto cambia perché nulla
cambi.
Daniele Tamburini
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