Se si dice che, nell’era della globalizzazione, il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo, chissà cosa provocherà lo sconquasso di terra e mare che è avvenuto in Giappone. Già abbiamo visto la distruzione, il dolore, le migliaia di morti; poi, le crisi di Borsa in tutto il mondo. Ma la cosa che più impressiona, e che ancora non sappiamo come evolverà, è il dramma che si sta consumando nella centrale nucleare di Fukushima. Abbiamo negli occhi la foto di un bambino impaurito, sul cui corpo un addetto in tuta protettiva sta passando un misuratore di radioattività. Che termine spaventoso, questo, e poi proprio in Giappone, dove è ancora viva la memoria dell’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Non da ora pensiamo che sia troppo pericoloso affidarsi a tecnologie e produzioni dall’impatto irreversibile. L’uranio è per sempre. La memoria corre a Three Miles Island e a Chernobyl, i due incidenti nucleari più grandi, tra quelli conosciuti. Nel primo, avvenuto negli Stati Uniti, la fusione totale del nocciolo fu evitata all’ultimo momento; a Chernobyl, si sprigionò una nube radioattiva, i cui effetti disastrosi ancora non riusciamo a valutare fino in fondo. Si disse che la prima era di vecchia generazione; per la seconda, si chiamò in causa il gap tecnologico dell’allora Unione Sovietica. Eppure, oggi è successo nella patria dell’avanguardia tecnologica, il Giappone. Che valutazioni possiamo fare? Che non possiamo pensare di controllare la natura; che è troppo rischioso affidarsi a scelte irreversibili, dalle conseguenze eterne per noi esseri umani. Last, but not least: come possiamo pensare di costruire centrali in un Paese, come il nostro, in cui i terremoti fanno cadere i palazzi e si trova la sabbia nei pilastri? Un Paese costellato di zone a rischio sismico? La conclusione non può che essere una sola: nucleare? No, grazie!.
Daniele Tamburini
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