Il movimento di studenti universitari, ricercatori, docenti che ha percorso il Paese nei giorni scorsi e che continua a protestare, non può essere preso sottogamba. Per molti motivi. Il primo è che gli studenti universitari sono giovani uomini e giovani donne che sono cittadini attivi, godono del diritto di voto e, domani, saranno la classe dirigente del Paese (o almeno si spera). A maggior ragione, i docenti e i ricercatori sono coloro che stanno formando questi ragazzi a ricoprire quel ruolo. A questo serve, l’Università, anche se non solo a questo. Dovrebbe servire, infatti, anche a produrre innovazione, a lanciare idee nuove, a esprimere pensieri e pratiche lungimiranti e appassionanti. Spesso lo fa, ma con sempre maggiore difficoltà. Chi protesta, noi pensiamo, ha a cuore, magari sbagliando, questa dimensione dell’Università. Lo fa da ricercatore precario che sa di rimanere tale chissà ancora per quanto. Lo fa da studente, che non sa cosa, quando e dove lavorerà. Per commentare questo stato di cose non servono le facili battute stile “State a casa a studiare che è meglio”. Un refrain già sentito, spesso ad ogni moto di piazza, ma che non tiene conto della società reale. Per moltissimi, la riforma non è adeguata a rispondere alla questione Università. Una legge realmente innovativa avrebbe dovuto rompere l’attuale schema rigido, basato sul ruolo acquisito e sulla ripartizione in fasce di docenza, e che delega moltissimo a chi, precario, non può avere il senso del proprio futuro, del proprio progetto. Si doveva prevedere l’immissione in ruolo dei tanti precari che da anni lavorano: un’iniezione di forze giovani, attraverso le procedure contemplate dalla legge. Dispiace leggere le parole di chi plaude al blocco dei concorsi per via della scarsa trasparenza con cui negli anni passati si sono svolti: è una resa, nei fatti, all’impossibilità di agire con pulizia e onestà. C’era bisogno di democratizzare i processi di gestione degli atenei, di creare nuovi spazi di innovazione e modernizzazione. Quello che più preoccupa è che, probabilmente, i “cervelli” continueranno a emigrare.
Daniele Tamburini
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