venerdì, febbraio 03, 2012

Le liberalizzazioni trasferiscono risorse ai giovani . Intervista al professor Paolo Manasse

Di Laura Bosio e Daniele Tamburini

Il cosiddetto “pacchetto liberalizzazioni”, predisposto dal governo Monti, sta suscitando grande dibattito e veementi proteste all’interno delle categorie interessate. Anche se, ovviamente, sia l’impatto, che lo stesso merito delle liberalizzazioni non hanno lo stesso peso, per dire, per tassisti, farmacisti o notai. Il concetto è chiaro: la nostra economia è stagnante, e lo è anche per lacci e laccioli, pressioni di gruppi di interessi, meccanismi di protezione dalla concorrenza. Liberalizzare, per il Governo, significa dare nuova linfa ai meccanismi del mercato, dare ossigeno e nuove risorse a famiglie ed imprese, far ripartire l’economia. Tutto questo ha scatenato, dicevamo, proteste, contestazioni e scioperi. Nella realtà italiana di oggi, complicata e difficile, il tutto si è mescolato a proteste di segno diverso, dagli autotrasportatori ai pescherecci, ma si ascoltano anche voci che, all’interno degli stessi ordini professionali interessati, parlano di provvedimenti abbastanza limitati. Abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Manasse, docente di Macroeconomia e politica economica all’Università di Bologna.
Professor Manasse, ci può aiutare a dipanare la matassa delle liberalizzazioni predisposte dal governo Monti?
«Si tratta di misure finalizzate a rimuovere le cosiddette "barriere all'entrata" di alcuni settori economici. Parliamo ad esempio del numero dei tassisti e delle farmacie, o dei requisiti per fare tirocini finalizzati all'iscrizione a un ordine professionali. Ostacoli che, limitando l'accesso alle professioni, contribuiscono a mantenere alti i prezzi. Si tratta di situazioni di privilegio che le liberalizzazioni vogliono eliminare, in una serie di settori che rappresentano circa il 40% del Pil. Tra l'altro, le barriere all'entrata ostacolano l'innovazione tecnologica: un elevato livello di monopolio, infatti, porta a non avere interesse a innovare, mentre una concorrenza più stringente incentiva l'innovazione e la ricerca».
Liberalizzare, stimolare la concorrenza, limitare, se non abbattere, le nicchie di privilegio: è questo dunque il volano della ripresa?
«Questi provvedimenti hanno effetti sia a livello settoriale che macroeconomico. Per quanto riguarda i settori economici, l'aumento del numero degli attori porta al calo dei prezzi e alla crescita delle merci in circolazione.
A perdere sono solo coloro che godevano dei privilegi. Ma facendo un bilancio sono più numerosi gli aspetti positivi, e la società ci guadagna. Magari si potrebbe pensare di compensare alcune categorie perché possano mitigare gli effetti della liberalizzazione. Per quanto riguarda gli effetti macroeconomici, possiamo rifarci alle esperienze di altri paesi in cui si è intrapresa la strada delle liberalizzazioni. Molti studi rilevano che si sono ottenuti guadagni in termine di riduzione dei prezzi in alcuni settori (es: tariffe telefoniche, linee aeree, ecc). Aumenta inoltre la propensione a innovare e fare ricerca, attraendo un maggior numero di investitori esteri. Ma tutto ciò rappresenta solo una parte della soluzione del problema. Bisogna infatti vedere quale fiducia si può nutrire in questo pacchetto di liberalizzazioni. Ad esempio un po' stupisce il fatto che vi siano liberalizzazioni solo parziali, in certi settori: ad esempio per le farmacie o i tassisti non si aboliscono le licenze, ma se ne aumenta il numero. In questo modo però le protezioni di tali categorie non vengono abolite, ma solo ridotte. Sarebbe invece stato preferibile un intervento più incisivo. Queste misure presentano inoltre alcuni problemi legati al fatto che nonostante le liberalizzazioni ricoprano un ampio ventaglio di attività, per alcuni settori non si prevede praticamente nulla. Sto parlando dei mercati finanziari, delle banche, delle assicurazioni».
In effetti sembra che il sistema del credito e della finanza non sia stato toccato più di tanto dalle riforme...
«E' proprio questo l'errore. Ci sono ambiti, come la disciplina delle partecipazioni incrociate, o il ruolo delle fondazioni bancarie, che creano molti problemi. Prendiamo ad esempio il ruolo delle fondazioni: questi organismi dovrebbero essere di controllo, ma in realtà vengono a loro volta controllati dalla politica del territorio, che a sua volta condiziona la banca stessa. Così chi vuole investire non lo farà certo in un istituto di credito dove le decisioni sono prese dal sindaco o dal presidente della Provincia. Se andiamo ad analizzare paesi che funzionano meglio dell'Italia, vediamo che le liberalizzazioni messe in campo sono proprio quelle legate ai mercati finanziari, che per i paesi avanzati sono quelle che funzionano meglio. Questo accade perché il sistema del credito è fondamentale per lo sviluppo dell'economia. Quindi possiamo dire che questa manovra è una grande svolta, ma lascia un po' di amaro in bocca. C'è poi il problema che, nonostante ci sia un testo unico che prevede norme piuttosto strette, nella pratica si usano spesso escamotage per aggirarle. Così troviamo persone che fanno parte di Consigli di amministrazione di diverse banche; oppure si trovano partecipazioni incrociate tra banche e grandi imprese che creano legami collusivi e il credito viene dirottato verso tali grosse aziende, a scapito di quelle più piccole, che hanno invece difficoltà ad accedervi. Sarebbe
quindi opportuno un inasprimento delle normative. Allo stesso modo si dovrebbe cambiare le fondazioni, privatizzandole in modo che venga evitata l'ingerenza della politica».
Cosa ne pensa delle proteste in atto? Sono solamente corporative, o c’è un qualche fondo di verità?
«Senza dubbio le categorie vengono toccate nel vivo e quindi le proteste sono legittime. Certi settori poi, come ad esempio i trasporti, sono state molto sacrificate dall'incremento dei carburanti, che incide per il 70%. Tuttavia, come ho detto prima, si potrebbe pensare, per tali categorie, a una forma di convenzione o di sgravio fiscale che attenui  gli effetti della manovra».
“La miseria dei molti e la ricchezza di pochi”, ha scritto in un suo recente articolo. Quali altre misure sarebbero necessarie per una maggiore equità?
«Fino alla crisi del 2008, in realtà, non c'era mai stata una grande disuguaglianza sociale. Il problema oggi che sta aumentando il divario tra ricchi e poveri, anche a causa di una forte redistribuzione del ceto medio: operai e impiegati sono scesi verso la povertà, mentre i lavoratori autonomi ci hanno guadagnato. L'altro aspetto da tenere presente è che la nostra è una società bloccata dalla mancanza di possibilità per chi non nasce in una famiglia abbiente. In sostanza i figli dei poveri restano poveri, e i figli dei ricchi restano ricchi. Questo perché carattere individuale e merito nel nostro paese hanno scarso peso. Proprio a questo proposito le liberalizzazioni sono importanti, andando nella direzione di trasferire risorse ai giovani. Oltre a questo sarebbe utile trasferire le risorse legate all'evasione fiscale sulla riduzione delle aliquote per le fasce medio-basse. Questo sarebbe fondamentale sia per la redistribuzione del reddito che dal punto di vista economico, con l'incremento dei consumi ».

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