venerdì, ottobre 21, 2011

intervista al professor Alberto Vannucci: «Dobbiamo tornare ad essere una comunità»

di Daniele Tamburini
Prosegue il nostro “viaggio all’interno della crisi”, alle sue radici, alle ragioni ed alle strategie per contrastarla e per ricostruire un orizzonte economico e sociale sempre più in sofferenza. Si parla della necessità di una nuova, ennesima manovra; i mercati si muovono secondo logiche che la politica, in tutto il Vecchio continente ma soprattutto in Italia, non riesce a governare; da parte di alcuni si mette in discussione la stessa permanenza nell’Unione europea o, quantomeno, nell’area euro, per altri, fuoriuscirne sarebbe una sorta di suicidio. Intanto, cresce la protesta sociale: anche questo, un fenomeno globale, capace di riempire le piazze delle capitali d’Europa e la stessa Wall Street.
Abbiamo rivolto alcune domande ad Alberto Vannucci, docente di Scienza politica presso dell’Università degli studi di Pisa.
Professor Vannucci, partiamo da quanto ha recentemente sostenuto Giuliano Amato: c’è poca consapevolezza, ancora, di quanto la crisi cambierà in profondità il nostro modo di essere e di fare. Non la supereremo con i metodi tradizionali, ma solo avvalendosi al meglio delle specificità e delle vocazioni di ognuno. Lei cosa ne pensa? E quali sono le vocazioni e le specificità su cui può puntare il nostro Paese?
«Credo che Giuliano Amato abbia colto un punto importante. La crisi genera incertezza, ma trovarsi in condizioni difficili può servire a risvegliare energie nascoste, trasformarsi in opportunità, favorire il consenso intorno a riforme decisive per il paese, finora bloccate da piccoli egoismi e veti incrociati. Perché questo accada occorre maturare un modo nuovo di guardare a noi stessi, di leggere la nostra storia. In Italia da troppo tempo ci culliamo nell’idea che esista una dotazione praticamente infinita di genio - il “genio italico”, appunto - e che le nostre doti innate di creatività e fantasia, magari condite da un pizzico di sregolatezza, alla fin fine ci assicurino una capacità di rispondere alle difficoltà economiche o di riprenderci dalle avversità sconosciuta ad altri popoli più “ingessati”. E’ un’immagine consolatoria e autoassolutoria, che purtroppo fa a pugni con la realtà di questi ultimi decenni. Proviamo a guardare all’Italia con gli occhi di uno straniero: siamo governati da una pattuglia di politici che ogni giorno tocca un nuovo fondo nel discredito internazionale, conosciamo da oltre un decennio i più bassi livelli di crescita economica in occidente, viviamo in un territorio che - per quanto ancora meraviglioso - è sempre più segnato dall’incuria e dal degrado, siamo quotidianamente vessati da un’amministrazione pubblica inefficiente. In cosa ci avrebbe aiutato il nostro genio
negli anni in cui siamo sprofondati nelle classifiche della produttività, della competitività, della ricchezza pro-capite? Proviamo a porci una domanda: quali sono le vocazioni che in questo paese aiutano ad emergere? Le cronache degli ultimi anni purtroppo ci raccontano troppe storie di successo di imprenditori, faccendieri o di giovani donne che hanno “sfondato” nella carriera politica o nella loro carriera soltanto perché erano abili o spregiudicati nell’organizzare o animare festini e intrattenimenti privati col potente di turno, allacciare rapporti nell’ombra, blandire i potenti, raccogliere e gestire informazioni ricattatorie. Viene da pensare che questi siano i principali canali di ascesa sociale in questo paese: se in America la rivista Times celebra il ventenne miliardario Mark Zuckerberg, l’inventore di Facebook, come uomo dell’anno, in Italia gli unici ventenni che rischiano di finire in copertina sono i partecipanti ai reality o alle feste private del Presidente del consiglio. C’è di che preoccuparsi del destino di un paese nel quale il talento, le aspirazioni, le vocazioni dei ventenni, quelle che segnano le speranze di successo individuale, sono plasmate nel migliore dei casi dal retaggio familiare, nel peggiore dall’abilità nell’inserirsi entro una rete di favori più o meno leciti da erogare o ricevere. Eppure le risorse che fanno del nostro paese una realtà unica al mondo sono ben note, spaziano dalla qualità e originalità della produzione manifatturiera alla fusione tra architettura e natura dei nostri paesaggi, e molto altro ancora. Da qui di dovrebbe ripartire, dalla capacità di dare valore a ciò che ci rende straordinari, riconosciuti ed ammirati ovunque. E’ giustificabile, tanto per fare un esempio, che l’Italia sia soltanto sesta per numero di turisti internazionali, nonostante abbia la più alta densità al mondo di beni culturali e di siti Unesco? L’immagine drammatica che è circolata negli ultimi anni sui media internazionali, “l’oro di Napoli” sepolto da cumuli di immondizia, rende meglio di mille discorsi il senso della ferita inferta dalla cattiva politica alla bellezza e alle potenzialità del nostro paese ».
Lo scorso sabato, molte piazze si sono riempite di gente che esprimeva rabbia e delusione per i modi con cui i Governi stanno rispondendo alla crisi. Lo stesso Mario Draghi ha detto che si possono capire le ragioni degli “indignados”. Il livello della disuguaglianza cresce; non solo i ceti popolari, ma anche il ceto medio si impoverisce progressivamente, e la ricchezza si concentra sempre di più in poche mani. Secondo lei, c’è il rischio che le tensioni sociali degenerino in violenza, al di là delle manifestazioni dei blackblocs?
«Manifestazioni episodiche di violenza organizzata, esplosioni di rabbia come quelle cui si è assistito alla manifestazione di sabato scorso sono sempre possibili, ma purtroppo diventano più probabili se si acuiscono le condizioni di disagio, proprio come è accaduto negli ultimi anni: l’aumento della disoccupazione giovanile, oggi a livelli record specie nelle regioni meridionali, la precarietà del lavoro, l’incertezza di un futuro al quale i giovani guardano con preoccupazione, non più con speranza, il dominio incontrastato delle multinazionali della finanza, il “99 per cento” del mondo che subisce inerme le scorribande dell’1 per cento più ricco. Del resto questi giovani appartengono alla prima generazione dal dopoguerra che è più povera di quella che l’ha preceduta, che consuma più di quanto non riesca a risparmiare, mantenendo un tenore di vita relativamente elevato grazie all’aiuto delle famiglie di provenienza. A mio avviso però siamo distanti anni luce da quel clima di esasperata contrapposizione ideologica che – assieme ad altri fattori – diede vita alla tragica stagione del terrorismo negli anni di piombo. Le rivendicazioni di chi protesta oggi sono segnate da un approccio molto più pragmatico e meno ideologico, nella stragrande maggioranza chi partecipa rifugge ogni forma di violenza, anzi tende a isolare i violenti».
Lei insegna all’Università. Cosa pensa della condizione dei nostri giovani?
«Non so quanto ne siano consapevoli, ma i ragazzi e i giovani di oggi sono fortunati. Hanno a loro disposizione strumenti di comunicazione, informazione e interazione universali potentissimi, inconcepibili soltanto pochi decenni fa. Possono intrecciare in tempo reale reti di rapporti con tutto il mondo, accedere liberamente e istantaneamente a una marea di dati, musica, notizie, filmati, e al tempo stesso contribuire a produrli, mettendo in gioco la propria creatività. Eppure sono gli stessi giovani che scontano il clima di recessione, la gerontocrazia immobile che blocca le possibilità di carriera, l’enorme debito pubblico che toccherà a loro pagare, ma di cui altri hanno beneficiato, la precarietà estenuante della condizione lavorativa. Di qui il ritardo nelle scelte cruciali, posticipate sempre di più: del resto come si può costruire un progetto di vita, magari sposarsi o fare figli, quando le prospettive sono così incerte? Ecco che nasce la tipologia dei “bamboccioni” per forza o per necessità, sulla quale è facile fare ironia. E così si spiega la “fuga dei cervelli”, triste primato italiano, che vede i migliori tra i nostri giovani talenti emigrare in paesi dove loro qualità sono valutate in base al merito e non al cognome o alle tessere. Ma vedo anche una grande energia in questa generazione che, se ben canalizzata, potrebbe trasformare la legittima frustrazione di una generazione penalizzata da scelte politiche scellerate in un vero cambiamento del nostro assetto politico ed economico ».
Quale ruolo ha avuto il sistema creditizio, nella crisi e nella risposta alla crisi stessa?
«Direi che è il responsabile principale, assieme a tutto il variegato mondo della finanza, coadiuvato in questo da un potere politico imbelle, colluso o - nella migliore delle ipotesi - del tutto inerme. La speculazione sui molti tavoli dei mercati globalizzati, i giochi di prestigio finanziari, hanno permesso di offuscare le responsabilità di chi prendeva decisioni azzardate e senza rinunciare ai propri bonus milionari scaricava su altri - risparmiatori o bilanci pubblici - il costo dei propri sbagli. Non solo: hanno contribuito ad allargare la forbice della disuguaglianza sociale, a polarizzare la distribuzione dei redditi, mai così sbilanciata a favore dell’1 per cento di privilegiati contro cui protestano gli indignati. Eppure il mondo della finanza è rimasto pressoché impermeabile di fronte alla crisi. Nessuna auto-riforma, nessuna seria assunzione di responsabilità, al contrario un tentativo – fin qui perfettamente riuscito – di far gravare sui bilanci pubblici o sui risparmiatori il costo degli investimenti fallimentari, neutralizzando qualsiasi tentativo di riforma.Tenendo i governi in scacco, visto che il loro fallimento avrebbe ricadute disastrose sui bilanci pubblici, le grandi banche e le multinazionali della finanza hanno evitato tanto la sanzione del mercato che la prospettiva di una regolazione più rigorosa dei loro strumenti finanziari e attività. Ancora oggi, nonostante ci si avviti nella crisi, continuano indisturbate a realizzare le loro scorribande in quella sorta di una terra di nessuno che sono i mercati finanziari globalizzati, nel vuoto di regole efficaci a tutela dei soggetti deboli, che una volta tanto non sono solo i risparmiatori, ma anche gli Stati».
Lei è uno studioso attento di un fenomeno che colpisce fortemente il nostro Paese: la corruzione. Ricordo un suo titolo di anni fa, “Il Belpaese dalle mani impunite”. Una stima della Procura generale quantifica in 50-60 miliardi all’anno la “tassa occulta” della corruzione. Ce ne vuole parlare?
«Si tratta di una stima ottimistica, temo, per un paese come l’Italia, che è crollata dal 41° posto del 2006 al 67° del 2010 nelle classifiche della corruzione, meglio di noi fanno persino Rwanda, Ghana, Macedonia, Tunisia, Namibia, Malesia, Giordania. Ai 50/60 miliardi di euro di costo annuo stimati nel 2009 dalla Corte dei Conti – una “tassa occulta e immorale” che grava per mille euro l’anno su ogni cittadino italiano – occorre aggiungere poi i costi economici indiretti, come quelli derivante da ritardi, cattive realizzazioni, inutilità, sovradimensionamento, scarsa qualità di opere e forniture pubbliche, oppure dal degrado nel governo del territorio (cementificazione, abusi edilizi, etc.). Del resto, quando i funzionari pubblici sono in vendita in cambio di una tangente, il malfunzionamento degli apparati pubblici e dei meccanismi di tutela degli interessi collettivi è assicurato: le ricadute visibili della corruzione sono le valvole cardiache difettose, i vermi nel cibo delle mense per bambini, le case e le opere pubbliche che si sgretolano per il cemento scadente, le morti bianche degli operai dovute al mancato rispetto delle norme sulla sicurezza. Dietro agli sprechi nella gestione della spesa pubblica quasi sempre si nasconde un giro di mazzette. Non bisogna poi dimenticare che un sistema politico dove la corruzione è prassi abituale intacca alla radice il vincolo di fiducia che lega i cittadini alle istituzioni rappresentative e le delegittima. La corruzione non scava soltanto voragini nei bilanci pubblici, ma genera un deficit di democrazia. Va a falsare la competizione elettorale, visto che le tangenti assicurano risorse addizionali proprio ai corrotti che reinvestono il ricavato delle tangenti. La corruzione intacca poi i valori democratici fondamentali: come i principi di trasparenza e di uguaglianza. Non può esservi
uguaglianza nel diritto dei cittadini di accedere ai servizi dello stato, non occorrono i requisiti previsti dalle regole imparziali dello stato di diritto. In un sistema corrotto, al contrario, regnano l'arbitrio, l'imprevedibilità,
i contatti personali. Così, come dimostrano diverse ricerche, tra le ricadute della corruzione vi sono l’accrescersi delle disuguaglianze economiche e sociali e il ridursi delle opportunità legate al merito individuale, fenomeni purtroppo ben noti in Italia». 
Parlando di enormi risorse che vengono sottratte al circuito economico legale, il pensiero va all’evasione e all’elusione. La sua opinione in merito? 
«Proviamo a fare due calcoli: ai 60 miliardi di costo della corruzione di cui si parlava sopra aggiungiamo i 120 miliardi annui di evasione fiscale, secondo i prudenti calcoli del Ministero dell’economia. E magari pure i circa 150 miliardi di euro annui di fatturato delle organizzazioni criminali, stimati dalla Commissione antimafia. Così si ha un’idea dell’ordine di grandezza del fardello dell’illegalità: fanno 330 miliardi di euro, l’equivalente di una decina di manovre finanziarie, quanto basta e avanza per riportare in ordine i conti pubblici e sottrarci dal mirino della speculazione internazionale. Soltanto un paese presenta in Europa livelli simili di evasione, e stiamo parlando della Grecia in bancarotta. Guardando all’evasione, come può un paese tollerare che i commessi di gioielleria, in quanto lavoratori dipendenti, dichiarino in media un reddito superiore ai proprietari delle gioiellerie, i quali poi – a differenza dei primi – al pari di molti altri “nullatenenti” con imponenti patrimoni
immobiliari avranno la possibilità di ottenere esenzioni sui ticket o altri benefici? Livelli tanto patologici di evasione fiscale non sono soltanto un problema etico, che per giunta ha effetti disastrosi sulla nostra economia, ma anche un fenomeno che accentua le disuguaglianze nascoste, lacerante e pericoloso per la stessa pace sociale. La questione ha radici profonde, ma discende in definitiva da un patto implicito tra consenso e tolleranza fiscale. Un accordo tacito che sta affossando il paese, ma che ha assicurato per decenni la sopravvivenza di una classe politica irresponsabile, che tuttora continua a proporre e approvare in rapida successione misure dagli effetti devastanti come condoni, concordati, scudi fiscali. Ed è legittimata dalla diffusione di massa di una vera e propria “cultura dell’illecito”, grazie alla quale l’evasore di norma non viene mai denunciato né stigmatizzato dai cittadini o dai colleghi. Insomma, come in altri contesti, nel caso dell’evasione cattiva politica e “società incivile” si sostengono e si legittimano a vicenda». 
Per finire, una domanda difficile, ma obbligata: ce la farà l’Europa, ce la farà il nostro Paese, ce la faremo? 
«Visto che molte delle mie considerazioni hanno un tono poco incoraggiante, vorrei chiudere con una nota meno cupa. I popoli europei ha fatto progressi impensabili rispetto a pochi decenni fa, quando si massacravano nei campi di battaglia. Oggi il loro problema è quanto investire nei fondi di solidarietà, o come negoziare quelle rinunce di sovranità che permetterebbero di consolidare le fondamenta una vera casa comune europea. Ma gli interessi in gioco sono ormai in larga misura condivisi, sono convinto che un accordo è a portata di mano. Lo stesso vale per l’Italia. Abbiamo fatto progressi enormi, godiamo di una gamma di diritti civili e sociali che ancora ci colloca tra i paesi dove più alta è la qualità della vita. Nonostante la crisi, resistono aree di eccellenza assoluta, non a caso in quelle organizzazioni pubbliche e private dove valgono le regole virtuose del merito e dell’efficienza. Certo, bisogna far sì che questi esempi positivi crescano e si moltiplichino, occorre ricominciare - magari proprio grazie alla crisi - a pensarci come una comunità, anziché la somma di tante corporazioni, egoismi privati o “cricche” assortite. Promuovere un impegno condiviso per allargare gli spazi di solidarietà e di partecipazione. Svecchiare la classe dirigente. E’ una sfida per ciascuno di noi, quale che sia il nostro ruolo. Magari lavorando nel piccolo, ma senza rinunciare a pensare in grande».

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