di Daniele Tamburini
Le misure previste nel decreto legge n. 95 del 6
luglio scorso (quello sulla cosiddetta spending review, o revisione della spesa
pubblica) impattano fortemente su una spesa pubblica già sottoposta a tagli e
riduzioni di trasferimenti statali da anni a questa parte. Dopo le tasse e le
imposte, la riorganizzazione della macchina pubblica e la razionalizzazione
della spesa. È presto per dire se tutto ciò porterà a ridurre gli sprechi o,
piuttosto, a tagliare servizi. Alcune misure – vedi i tagli alla ricerca e la
sostanziale deregulation della possibilità di aumentare le tasse universitarie -
sembrano stridere con le intenzioni di crescita e sviluppo. Altre lasciano nel
limbo di “decreti attuativi” la riorganizzazione della macchina pubblica
periferica (la riduzione del numero e delle competenze delle Province). Sono
pesantemente coinvolti la sanità (siamo sicuri che un piccolo ospedale è
comunque inefficiente?) e la giustizia. Sono ancora previsti grandi tagli alla
spesa delle Regioni e degli enti locali (alcuni hanno paventato di non poter
riaprire le scuole a settembre). Sono tagliati gli organici di dirigenti e
dipendenti pubblici (ma che fine farà, questa gente?). E la reazione del Paese?
Protestano i sindacati, la Confindustria (ma con toni parzialmente attenuati,
dopo il primo giudizio di Squinzi, che ha parlato di “macelleria sociale”, e la
reprimenda di Monti) e la società civile. Alcuni economisti continuano a
sostenere che la ripresa certamente non passa da tagli, riduzione di servizi,
licenziamenti. Ma, nelle forze politiche, almeno in quelle rappresentate in
Parlamento, c’è accettazione, a volte non molto convinta (quasi che sia
l’ennesimo amaro calice da sorbire), a volte vigorosa (alcuni esponenti Pd hanno
scritto che il loro partito dovrebbe portare l’agenda Monti nella prossima
legislatura). La grande stampa plaude alle misure del governo, che incassa
l’approvazione di Ue e Bce. Insomma, tutto bene? Ne abbiamo parlato con
Guglielmo Forges Davanzati, docente di economia politica all’Università del
Salento e saggista. Professore, vorrei partire proprio da questo: se la metà
delle misure di spending review attuate o in via di attuazione da parte del
governo Monti fossero state realizzate dal governo Berlusconi, si sarebbe
verificata, su molti versanti, una vera e propria sollevazione. Adesso non è
così. Perché? Cosa è cambiato, rispetto a un anno fa?
Il Governo Monti fa gioco
sullo stato di emergenza e, in larga misura, lo crea, diffondendo il timore di
attacchi speculativi determinati da un eccessivo debito pubblico e il
conseguente possibile fallimento dello Stato italiano. Occorre preliminarmente
rilevare che un elevato debito pubblico non costituisce in sé un problema, se è
data alla Banca Centrale la possibilità di acquistare titoli di Stato non
acquistati da privati (il che non nelle prerogative della BCE). In altri
termini, la teoria economica, ad oggi, non è in grado di stabilire il limite di
sostenibilità del debito pubblico, se non rinviandolo a fattori extra-economici
che, per loro natura, attengono alla sfera delle decisioni politiche. Non si
spiegherebbe diversamente per quale ragione, a titolo esemplificativo,
l’economia giapponese non ha un problema di eccesso di debito pubblico con un
rapporto debito/PIL che supera il 220% (a fronte del 120% italiano). Il problema
italiano consiste semmai nella fragilità dei c.d. fondamentali: basso tasso di
crescita ed elevato e persistente disavanzo della bilancia dei pagamenti,
innanzitutto.
Qual è il suo giudizio complessivo sul decreto legge cosiddetto di
spending review?
La spending review è, nonostante quanto afferma il Presidente
del Consiglio, una manovra fiscale di massicce dimensioni, che viene legittimata
dalla lotta agli sprechi. “Spreco” è forse il termine più ricorrente nel
dibattito politico italiano degli ultimi anni, eppure il suo esatto significato
è piuttosto oscuro. Non si tratta, in questo caso, di avventurarsi in una
disquisizione linguistica, ma di interrogarsi sugli effetti che l’uso di questo
termine ha sulle principali scelte di politica economica. Il provvedimento sulla
spending review (revisione di spesa) intende legittimarsi precisamente intorno a
questa parola d’ordine, dato l’assunto (tutto da dimostrare) che tutto ciò che è
pubblico è fonte di spreco, inefficienza, corruzione. La chiusura di ospedali,
il licenziamento di funzionari pubblici, la decurtazione di fondi per la
ricerca, la soppressione o l’accorpamento di Enti considerati inutili, la
riduzione del numero di Province asseconda appunto il progetto dichiarato di
riduzione degli sprechi. Il fine dichiarato è rendere la pubblica
amministrazione più efficiente: il risultato consiste nell’ulteriore drammatica
manovra di contrazione della spesa pubblica, con inevitabile aumento della
disoccupazione e minore quantità (e qualità) di beni e servizi offerti dallo
Stato, ovvero riduzione del potere d’acquisto delle famiglie. Si calcola che le
misure adottate generano un effetto di decurtazione della spesa pari a 4,5
miliardi di euro per 2012, 10,5 miliardi per il 2013 e 11 miliardi per il 2014,
con particolare riguardo ai tagli dei servizi sanitari (circa 13 miliardi di
euro). Il tutto senza ridurre l’aumento dell’IVA, che verrà posticipato e che
ammonterà a circa 4 miliardi di euro, in una condizione nella quale – in assenza
di queste misure – il tasso di crescita previsto per il 2013 era di segno
negativo, nell’ordine del meno 2-2.5%. Giorgio Squinzi, Presidente di
Confindustria, ha definito questa manovra macelleria sociale. Difficile dargli
torto. Va rilevato che il provvedimento di revisione di spesa parte da un
assunto falso, ovvero che, nell’ultimo trentennio, la spesa pubblica in Italia
sia sempre aumentata. Su fonte Banca d’Italia, si rileva, per contro, che, a
partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a
contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000
miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal
51,7% al 50,8% del PIL nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione
dell’incidenza della spesa sul PIL, che raggiunge il 49,2%. Interessante
osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal
1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua
crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al PIL
sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo
puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su PIL, in
Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania. Il documento
ministeriale imputa l’aumento della spesa pubblica nell’ultimo trentennio
unicamente a una sua gestione inefficiente (p.e. la duplicazione delle funzioni
a livello centrale e locale). Anche in questo caso, ci si trova di fronte a una
tesi opinabile, per due ragioni. • 1. Senza negare che sprechi e inefficienze ci
sono (e ci sono stati) nella gestione della cosa pubblica, occorre considerare
che l’aumento della spesa pubblica, nel periodo considerato dal documento
ministeriale, è stato essenzialmente finalizzato all’ampliamento delle funzioni
dello Stato sociale (come del resto è accaduto nella gran parte dei Paesi OCSE,
in quel periodo) che, a sua volta, si è reso necessario per venire incontro alla
crescente domanda di giustizia distributiva in una fase storica caratterizzata
da un elevato potere contrattuale dei lavoratori e delle loro rappresentanze
nell’arena politica. Appare, dunque, a dir poco riduttivo ritenere – come fa il
Governo – che la spesa pubblica è aumentata perché è stata gestita male. • 2.
Non è chiaro perché la revisione di spesa venga effettuata a partire
dall’andamento dei valori assoluti della spesa pubblica. L’andamento del valore
assoluto della spesa pubblica non tiene conto delle variazioni del tasso di
inflazione, così che non si hanno informazioni relative al suo andamento in
termini reali. In ogni caso, anche assumendo l’ipotesi governativa, si rileva –
su fonte Bundesbank – che, con la sola eccezione del 2004 e del 2011, la spesa
pubblica in valore assoluto in Germania è costantemente aumentata. Può essere
sufficiente rilevare che, nel triennio 2008-2010, la spesa pubblica in Germania
è aumentata, nel 2008, del 3,16%, del 4,66% nel 2009 e del 3,8% nel 2010, e ben
oltre il tasso d’inflazione, quindi anche in termini reali. L’aumento è
imputabile essenzialmente alla crescita degli investimenti pubblici, dei salari
dei dipendenti pubblici e della spesa per il pagamento degli ammortizzatori
sociali.
La spesa pubblica è davvero così mal gestita e pesante, nel nostro
Paese?
Ovviamente in alcuni casi lo è, e lo è soprattutto nelle aree nelle quali
è alto il tasso di disoccupazione, dal momento che lì la Pubblica
Amministrazione svolge la funzione (impropria) di datore di lavoro di ultima
istanza. Se si pone la questione in questi termini, occorrerebbe creare semmai
le condizioni per un aumento dell’occupazione per rendere meno frequenti i casi
di corruzione e cattiva gestione della cosa pubblica.
Si tratta di misure che
impatteranno sulla qualità del welfare, o ne avremo un beneficio in termini di
risparmio e razionalizzazione? In quale rapporto sta questa manovra con la
riforma dell’articolo 81 della C.I., con cui è stato inserito in Costituzione
l‘obbligo del pareggio di bilancio?
Non vedo alcun vantaggio. Si tratta, come
nel caso dell’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione,
dell’accelerazione di politiche di austerità il cui unico effetto è recessivo.
In più, le politiche di austerità (aumento dell’imposizione fiscale e riduzione
della spesa pubblica) sono del tutto inefficaci per l’obiettivo che si
propongono – ovvero ridurre il rapporto debito pubblico/ PIL. Ciò per le
seguenti ragioni: • 1.La riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della
pressione fiscale) riduce l’occupazione e dunque la produzione, con il risultato
che, sotto date condizioni, il rapporto debito/PIL può semmai aumentare; • 2. La
riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della pressione fiscale),
riducendo l’occupazione, riduce la base imponibile e, dunque, anche per questa
via, può accrescere il rapporto debito pubblico/PIL; • 3 La riduzione della
spesa pubblica (e/o l’aumento della pressione fiscale) riduce i mercati di
sbocco a danno soprattutto delle imprese che operano su mercati locali,
riducendone i profitti (o determinandone il fallimento) con ricadute negative su
occupazione e PIL. Anche per questo meccanismo, quanto meno si spende (e quanto
più si tassa) tanto più ci si indebita e tanto più si riduce la crescita.
Perché
– e lo si vede anche dai sondaggi – l’opinione corrente maggioritaria è che la
spesa, l’amministrazione e il lavoro pubblico siano fonti di inefficienza?
Non
c’è dubbio che zone di inefficienza esistono, e – nella quotidianità – si
sperimentano spesso. Ovviamente l’opinione corrente può essere largamente
influenzata dalla propaganda dominante, ma va sottolineato che l’intervento
dello Stato in economia è ciò che ha permesso la costituzione di un sistema di
Welfare che oggi si intende smantellare. La sola possibile alternativa,
perseguita da questo Governo, consiste nel privatizzare anche i servizi pubblici
essenziali (sanità e istruzione, in primis). L’esperienza storica recente
dimostra in modo inequivocabile che laddove si privatizza la qualità del
servizio non sempre migliora, mentre l’unico effetto certo riguarda l’aumento
dei prezzi.
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