venerdì, aprile 30, 2010

Lo showdown tra Oni e Ini.

Come finirà la crisi che si è aperta nel centrodestra dopo lo scontro Berlusconi-Fini? Vedremo. Certo che questo è un ulteriore segnale della incertezza che domina la vita politica italiana di questi ultimi anni. Chi lo avrebbe detto, neppure due anni fa, con il centrodestra trionfatore alle elezioni politiche, che si potessero paventare elezionianticipate …
Come vorrei poter leggere quello che, tra cent’anni, diranno gli storici sulla figura del capo del governo. Personaggio che oggi a me pare così paternalisticamente ottocentesco e premoderno, nel suo modo di intendere la politica, e invece così capace, da imprenditore, di interpretare ed anticipare, in molti casi, i tempi: l’impero mediatico, l’impatto della comunicazione. Una commistione inedita, tra il cipiglio del padrone delle ferriere, che decide e dispone e mal accetta critiche ed opposizione, e la spregiudicatezza del cittadino Kane in “Quarto potere”, antesignano dell’enorme capacità dei mezzi di informazione di influenzare e formare l’opinione pubblica. Sta qui forse la radice del successo di Berlusconi, nella sua “differenza”, nella sua capacità di impersonare ed esprimere linguaggi e codici diversi che tanto affascinano la maggioranza degli italiani. Una capacità di persuasione che arriverà a convincere il popolo, in una totale confusione tra scienza e economia, che anche il nucleare è cosa buona e giusta. Intanto l’opposizione, a mio parere, invece che discutere se Fini sia “accidente” o sostanza dovrebbe vincere il panico da elezioni anticipate e scegliere in fretta identità, alleanze e magari il candidato. Dovrebbe insomma sapere chi è e cosa vuole. Bossi lo sa, Berlusconi pure e lo sa anche Fini. Il centrosinistra ancora se lo domanda. Chiudo con la domanda, un po’ provocatoria, che l’on. Pizzetti si pone: è anomalo Berlusconi o è anomala l’assenza di un’alternativa, nel nostro Paese?

Daniele Tamburini

venerdì, aprile 23, 2010

La ricompensa per la saggezza

Per un lungo periodo, nella storia dell’umanità, l’anziano ha ricoperto un ruolo essenziale. In famiglia, si attendeva dalla sua voce il sì o il no finale ad una scelta importante. In molte società, il “consiglio degli anziani” ha retto la cosa pubblica. Al lavoro, ti dicevano: “impara da chi è più anziano di te”. Anziano come sinonimo di venerando, saggio, maestro paterno. Per alcuni versi, si trattava di una costruzione mitologica: spesso i comportamenti erano di tipo gerarchico, fortemente autoritario. Se stavi in quel modello, bene, altrimenti lo pagavi con conflitti e allontanamenti. Arriva il Novecento, e la storia galoppa, e tutte le certezze vengono messe in discussione, compresa quella del valore dell’esperienza e della tradizione. Si afferma un altro mito: la gioventù. “Giovinezza”, cantavano durante il ventennio; giovane è bello, efficace, al passo con i tempi. Essere giovani diventa sempre più un valore, nella società dell’immagine. Ma i giovani restano spesso al palo, sempre più precarizzati. E gli anziani Stanno tra Scilla e Cariddi, tra l’accusa di togliere risorse ai giovani e la realtà di un ruolo sociale sempre più scarso (escluso che in politica? Lì gli anziani prosperano …). E se una delle riforme più condivise degli ultimi anni è stata quella che ha innalzato l’età pensionabile, in Francia, Martine Aubry, leader politica recente vincitrice delle elezioni regionali, sostiene che si debba compensare la sagesse (la saggezza), innalzando, sì, ma il valore delle pensioni. Significa che nel resto dell’Europa girano anche idee diverse da quelle che qui appaiono scontate. Scontate? Provate a chiedere a un padre: “Lo sai che tuo figlio andrà in pensione a 68 anni?”.

Daniele Tamburini

venerdì, aprile 16, 2010

C'è chi non ci sta

Avviene anche qualcosa di bello. Spesso siamo portati a pensare che il nostro non sia un Paese per chi è debole: malato, povero, vecchio, svantaggiato, o semplicemente precario. Se nascono pochi bambini, è perché molte donne e molti uomini giovani si chiedono se saranno abbastanza forti per condurli ad avere tutte le opportunità che una nuova vita merita. Perché questo, penso, è il vero rispetto della vita: cercare di far sì che ognuno abbia le opportunità per crescere in dignità e in libertà. Ci sono zone del mondo in cui questo è impossibile, per la miseria estrema, per la guerra, per la persecuzione. Ci sono situazioni, anche qui da noi, sempre più difficili. Bene: per poter crescere come cittadini consapevoli, preparati, in grado di dare il proprio contributo alla società, l’educazione, la cultura e la scuola sono mattoni essenziali. Allora, qui vicino a noi, a Adro nel bresciano, un imprenditore, che ha voluto rimanere anonimo, ha saputo che le famiglie di alcuni bambini delle elementari, in difficoltà economica, non avevano pagato la mensa scolastica, e che, quindi, i piccoli stavano per essere esclusi dal servizio mensa. Giova ricordare che una legge dello Stato sancisce l’obbligo di frequenza del tempo mensa. Questo signore ha scritto una lettera bellissima, senza alcuna retorica, piena di memoria e di rispetto. Ma non solo: ha detto ”Pago io”. Ha rimesso il debito di quelle famiglie. Ha scritto: ” Io non ci sto. Sono figlio di un mezzadro che non aveva soldi, ma un infinito patrimonio di dignità… Sono certo che almeno uno di quei bambini diventerà docente universitario o medico o imprenditore o infermiere e il suo solo rispetto varrà la spesa”. Consapevole di compiere un gesto simbolico, ma di una portata enorme. Sono le ragioni della solidarietà, dell’umanità, del rispetto. Dare una mano quando si può.
Non è una cosa da poco.

Daniele Tamburini

venerdì, aprile 09, 2010

Non si scrive sui muri !

Così ci intimavano quando eravamo bambini. Poi abbiamo scoperto la creatività dei murales, che fossero quelli dei messicani Siqueiros e Rivera, o quelli di Valparaiso, o del Maggio francese. La cultura e l’espressione uscivano dall’ambito chiuso di accademie e musei, e potevano e dovevano esprimersi in libertà nel tessuto urbano. Non solo immagini, ma anche slogan, pensieri, versi. Ricordo il tempo de “L’immaginazione al potere”. Negli anni, qualcuno ha parlato di una forma d’arte, la street art: ospitata in rassegne, musei, esposizioni. Da sempre si dibatte attorno alla questione di cosa sia arte. È certo che un bugnato rinascimentale o un marmo neoclassico lordati da scritte non siano tollerabili, così come una statua incisa con cuoricini infranti o, più banalmente, il muro perimetrale di un’abitazione appena ridipinto, dopo sofferte riunioni condominiali, su cui qualcuno inneggi alla squadra del cuore o dileggi l’avversario. D’altra parte, alcuni dei vecchi, brutti palazzoni della Berlino comunista sono stati coperti di graffiti e murales colorati, e questi lampi di luce rompono un grigio uniforme. Sono molte le città che scelgono anche questa strada di design urbano. A me piace il murales di via Postumia realizzato due anni fa in occasione della manifestazione Gemini Muse voluta dall’assessorato alle politiche giovanili con, oltretutto, il contributo della Regione. A Milano, invece, il Comune ha portato in tribunale, per imbrattamento molesto, uno dei più famosi “graffitari”, Daniele Nicolosi, conosciuto come Bros ,che ha peraltro esposto le sue opere anche a PalazzoReale, definito da Sgarbi “un Giotto moderno”. Chi avrà ragione, allora? Potremmo dire che le crociate, come sempre, servono a ben poco. Che questa forma di espressione è tipica della modernità e che occorre trovare modi di gestione mediata, con buon senso ed equilibrio. E che, forse, le emergenze economiche, sociali, di sicurezza di una città come Milano, e non solo, sono altre.

Daniele Tamburini

venerdì, marzo 26, 2010

Chiare, fresche e dolci acque

Non sempre, ma la saggezza popolare, nutrita da secoli di esperienza e di condivisione, dice grandi verità. Come quella per cui non si apprezza mai tanto ciò che si ha, quando lo si è perduto. Quando finisce, quando non lo si ha più. E questovale per tutto: nei rapporti umani, nelle cose materiali, nei beni e nelle speranze. Prendiamo l’amore: lo si vive, lo si assapora, lo giochiamo in una partita a volte scherzosa, a volte dolorosa, ma è lì, presente, caldo, rassicurante, quasi scontato, poi un giorno finisce e ci troviamo soli e infreddoliti. Assetati: come quando manca l’acqua. Per millenni abbiamo dato per scontato che l’acqua fosse un bene inesauribile, che le chiare, fresche e dolci acque sgorgassero per l’eternità da rocce e fondali, ma ora non è più così. Una gran parte del mondo è assetata, ma – se le previsioni dicono il vero – lo saremo presto anche noi. 2020? 2050? Cambia poco. Si dice che le prossime guerre saranno per l’acqua. Einstein diceva che non sapeva con che armi si sarebbe combattuta la terza guerra mondiale, ma che conosceva le armi della quarta: arco e frecce. Volete un altro esempio? Il nostro modello di sanità. Il modello universalistico, il welfare, pur “temperato” e convenzionato con il privato. Giustamente siamo pronti a stigmatizzare la malasanità, i disservizi, gli sprechi. Ma il presidente Obama, negli Stati Uniti, ha salutato con un sorriso radioso il voto alla Camera che estende – ma ancora non a tutti i cittadini, si badi bene – la copertura sanitaria (cavilli permettendo). Una svolta epocale, ha detto. Se questo è vero per una grande democrazia come quella statunitense, a maggior ragione dovrebbe rendere orgogliosi noi, che di tale scelta siamo modello. Una volta tanto, l’America è qui da noi. Questo grazie alla grande civiltà di una riforma sanitaria approvata, alla vigilia del Natale del 1978, e condivisa praticamente da tutti i partiti dell’arco costituzionale.
Altri tempi!
P.s. La settimana scorsa sono stato in una
nota Casa di Cura cremonese per un esame
piuttosto fastidioso. Ho trovato nel personale
medico e paramedico una grande, generosa e
confortante umanità. Grazie.

Daniele Tamburini

venerdì, marzo 19, 2010

Venga a prendere un caffè da noi

Abbiamo visto tutti alla Tv gli striscioni dei manifestanti ad Atene:non pagheremo la vostra crisi. Igreci protestano contro il piano di austerità del governo, per combattere una situazione ormai giunta ai livelli di guardia, che preoccupa l’Europa. Ma anchei n Islanda la popolazione protesta contro l’idea di pagare i debiti ereditati dall’affondamento delle banche. E gli spagnoli protestano contro il prolungamento dell’età pensionabile. Il sistema bancario ha giocato sull’ingegneria finanziaria, e alla fine l’economia reale ha presentato il conto: profondo rosso. Ma cosa può fare uno Stato,per non rischiare la bancarotta? Semplice: o aumentare le entrate o limitare le spese. E’ sicuro che una corretta politica fiscale centrerebbe il primo obiettivo, magari anche con una ripartizione più equa del carico. Si dirà che non è facile, ma non lo è neppure la seconda strada. Infatti, chi paga, così? Il rigore sarà pagato dai cittadini: con meno qualità nella scuola, nella sanità, nell’ambiente, nei servizi. Il fatto è che la crisi della finanza privata si è trasformata in crisi della finanza pubblica, e che gli Stati non riescono, non possono, non sanno metterla in conto a chi l’ha provocata. Certamente, le banche non pagheranno il conto in prima battuta: il presidente Obama ha previsto una tassa speciale per le banche, ma in un periodo di dieci anni. In questa fiera dell’irresponsabilità, dell’economia cannibale, come l’ha chiamata qualcuno, cosa resta da fare?
Magari, un Coffee party: il caffè delle persone responsabili. L’idea viene dagli Usa, ed è un movimento che si batte per la partecipazione democratica e l’unità del Paese su alcuni obiettivi prioritari, per risolvere i problemi; in particolare la “cleptocrazia”del capitalismo finanziario di rapina.
E’ un’idea importabile? Il caffè italiano è senz’altro migliore di quello made in Usa… ma la classe dirigente?

Paolo L.

sabato, marzo 13, 2010

Dedicato a me, a te e al Paese

Sapete? Noi abitiamo la terra dove fioriscono i limoni, scriveva Goethe. E un giardino di limoni è il luogo profumato in cui due donne, che appartengono a due popoli in lotta tra loro, stipulano un’alleanza per la vita, contro la violenza: è la trama di un film. Ancora, in un giardino segreto, due bambini e un pettirosso trasformano la storia vuota e arida di una famiglia distrutta in una nuova vita, un nuovo inizio, una speranza: è un libro, degli inizi del Novecento. L’Eden era il luogo in cui Dio creò un giardino. I giardini che verranno dopo, forse, sono tutti debitori del rimpianto di quello, inarrivabile. Il giardino, per poeti e scrittori, è un luogo di pausa, di sussurri segreti, di sottrazione agli affanni della vita quotidiana, di amori appena dichiarati, di vita che scorre insieme alle stagioni. Nel giardini all’italiana, viali e aiuole ordinati geometricamente si accompagnano a grotte, nicchie, anfratti segreti. Le siepi sono sempreverdi, le acque sono incanalate e alimentano le fontane, i colori sono quelli dei fiori. Il giardino all’italiana come metafora di un Paese che vorremmo? Un Paese in cui possano stare insieme regole ed invenzione, fantasia e richiamo alla realtà. Abbiamo avuto un inverno terribile, e i giardini sono ammutoliti, seccati, gelati. Non sappiamo ancora cosa sia sopravvissuto, quali radici siano state danneggiate, quali abbiano resistito, protette dalla terra e dalla cura. Ma già, in qualche arbusto, fanno capolino i germogli. Non si espongono troppo, perché la stagione riserva ancora bufere. E in alcuni alberi sono spuntati i primi fiori. Quei colori e quei piccoli segni verdi, che spaccano i rami, ci dicono che, forse, l’inverno sta finendo.

domenica, marzo 07, 2010

La situazione è grave, ma non è seria

“Guai al mondo per gli scandali!”, sta scritto nel Vangelo. Lo scandalo è l’inciampo, il tranello, l’ostacolo forte alla fede. Potremmo allora dire che gli scandali, nella vita quotidiana, sono un ostacolo alla convivenza civile, al corretto andamento dei rapporti sociali ed economici. Un ostacolo che sembra insormontabile: si solleva un coperchio e, dal vaso di Pandora, escono centinaia di migliaia di euro andate in fumo, spese bizzarre e incomprensibili (i famosi megafoni del G8), regali per “ungere” certi meccanismi, denaro pubblico usato per portare in vacanza la segretaria, e chi più ne ha più ne metta. Ma non solo. Ritardi nelle procedure, strutture lasciate al degrado, ospedali mai funzionanti, carceri mai aperte. Il catalogo è questo: la situazione è grave ma non è seria, direbbe Flaiano. Eppure, non c’è reazione. Ci si potrebbe aspettare una sorta di “rivolta dei giusti”, al di là del colore politico; un movimento di indignazione, un’onda che si solleva per dire basta. Perché questo non accade? Non c’è una spiegazione unica. La paura, certo. Siamo tutti spaventati, dal presente e dal futuro: abbiamo timore di perdere ancora qualcosa, di peggiorare la nostra situazione, di infilarci in un tunnel senza uscita. Ma, soprattutto, si sono smarriti il senso e la forza dell’azione collettiva. Quella che ha permesso le tante conquiste civili, sociali e politiche che oggi diamo per scontate. Il senso di chi agiva insieme ad altri per migliorare le cose, per una prospettiva futura di cui, magari, sapeva che non avrebbe neppure goduto i frutti, ma lo faceva per i figli, per i compagni di lavoro, di fede politica, per il proprio Paese, per l’umanità.
Adesso, è come se ognuno stesse solo con le angosce e le incertezze che i tempi ci portano. È come se non si avvertisse più la responsabilità collettiva verso il posto in cui viviamo, verso la sua storia ed il suo futuro. L'Italia, direbbe ancora Flaiano, è un Paese dove sono accampati gli italiani.

Giulio Branciforte

Gli avrei affidato il mio portafoglio

Si presenta proprio bene: serio, concreto. Maglioncino da lavoro, aria decisa e pratica. Avrebbe detto mio nonno: affiderei anche il portafoglio a Guido Bertolaso. Un uomo che si è sempre proclamato al servizio dello Stato e non dei governi. Percarità, nel nostro ordinamento ognuno è presunto innocente fino a che non sia dimostrata la sua colpevolezza, ma intanto, qualcosa
Bertolaso ha ammesso. Ha detto: “Forse qualcosa mi è sfuggito e mi sono fidato troppo". Beh, ma questa non è una risposta. O meglio, non è una giustificazione. Avere una responsabilità
pubblica può portare a errori, anche commessi in buona fede, ma, senza che per questo si invochi la gogna, chi ammette che gli è sfuggito qualcosa e che si è fidato troppo, dovrebbe trarne le dovute conseguenze. Specie se quello che è sfuggito ha a che fare con appalti per milioni di euro. Specie se ci si è fidati di personaggi che si dicono al telefono cose da far drizzare i capelli.Ciò che si fa con i soldi pubblici richiede una grande responsabilità: che non è di destra o di sinistra. Si chiama coscienza civile, spirito di servizio, onestà. Bertolaso ha detto che il suo potere consiste nello stare tra la gente che soffre, nel fango e tra la neve. Ci si chiede se condividano questo pensiero anche il presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e gli imprenditori indagati, mentre parlavano al telefono di mobili, cellulari, soggiorniin hotel, ristrutturazioni di immobiliprivati e altri benefit. E di donne che, ormai,vengono usate come bustarelle. E chissà cosane pensano quegli imprenditori che ridevanopoche ore dopo il terremoto dell'Aquila, pregustando la montagna di affari.Adesso il Governo ha rinunciato a trasformare la Protezione Civile in S.p.A. Scelta saggia:saranno vie lente e farraginose, ma è bene checontinui il controllo pubblico dei soldi pubblici;ossia i nostri.
Giulio Branciforte

Sempre più isola e sempre meno felice

Tutte le strade portano a Roma, ma non passano più da Cremona. E’ ufficiale: Trenitalia ha soppresso il collegamento veloce tra la nostra città e la Capitale. Lor signori non sentono ragioni. Se vogliamo andare a Roma, in un tempo ragionevole, dobbiamo raggiungere Bologna e prendere l’alta velocità. Come? Con l’autobus! E poco importano la Fiera internazionale, la liuteria, l’agroalimentare... Cremona è sempre più isolata, anche in prospettiva Expo 2015. Già anni fa Trenitalia aveva tentato la stessa operazione, trovando però la resistenza di un fronte politico, economico e istituzionale compatto e determinato che era riuscito a impedire la soppressione. Questa volta, invece, la società che gestisce il servizio ferroviario ha vinto. Ha raggiunto il proprio obiettivo. Complici la rassegnazione e l’impotenza dei nostri?
O piuttosto una mancata capacità di reazione? Così è sembrato.Sono pochi i cremonesi che mediamenteutilizzano il Pendolino, quindi la tratta è antieconomica. E’ con queste parole che Trenitalia si giustifica. Pochi biglietti niente servizio. Quando ero ragazzo, capitava di sentir gridare, dalla carovana che faceva propaganda al circo appena giunto in città: “Venite numerosi, più gente entra più animali si vedono”. Se questa è la logica, non vale però per i malcapitati pendolari che quotidianamente si recano a Milano. Le carrozze sono sempre affollate ma il servizio rimane osceno per puntualità, conforto e pulizia. C’è qualcosa che non torna. Sembra chiaro l’intento di privilegiare l’alta velocità a discapito degli altri collegamenti, con buona pace di che ne subisce il disagio. C’è qualcosa che non va … in questo cielo.

a.b.

sabato, ottobre 31, 2009

Bravi in orale, meno nello scritto

A parole siamo tutti bravi. Alcuni meno altri concretamente di più, ma in fondo a chiacchiere ce la caviamo tutti. Soprattutto quando si sa, come diceva il mio vecchio: “Le parole non pagano il dazio”. Oramai i veri maestri, quelli che un tempo erano chiamati gli affabulatori sono politici e governanti. Costoro arrivano a dare il loro meglio, immancabilmente, con l’approssimarsi delle scadenze elettorali. Il tema preferito per promesse e sacri impegni sono di frequente e in ogni tempo, le tasse. “Meno tasse per tutti” è oramai storia. Adesso è la volta dell’Irap (l’imposta regionale sulle attività produttive). Si propone l’eliminazione della tassa per dare ossigeno all’industria in difficoltà. Difficile crederlo. Con questa imposta viene compensata tutta la spesa sanitaria. Infatti, questa, è almeno la terza volta che lo sento dire negli ultimi cinque anni. Ed è questo il punto … tanto poi nessuno chiede il conto. Avete più sentito parlare del bollo auto che doveva essere abolito? Delle gabbie salariali che solo due mesi fa erano questione di grande dibattito, con di contorno l’insegnamento del dialetto, per il quale c’era già pronta la legge? Parole che, insieme a tante altre, il vento ha portato via. Forse, con uno sforzo, se ne può ancora ascoltare la eco. Un flebile e lontano suono di slogan elettorali recenti: “Una casa per tutti “Un lavoro sicuro per tutti”, “Nuovi fondi per le forze dell’ordine”. E se facciamo ancora più silenzio, possiamo ancora captare: “Sostegni alle famiglie, asili nido, detassazione del lavoro femminile…”.Per la prossima occasione ne suggerisco uno io, di sicuro successo: “Benzina gratis per tutti”. Tanto poi una ragione per non dare seguito la si trova sempre. Eppure le parole sono importanti. Dal loro abuso e dal non dar conto di quanto si dice, è certo che, alla lunga, si ottengono solo sfiducia e scetticismo.

a.b.

venerdì, ottobre 09, 2009

Del ponte di Messina non m’importa niente

Della costruzione del ponte sullo Stretto a me non importa niente, e a voi? Dico questo dopo aver ascoltato il monito del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (in questi giorni chiamato in causa da molti) che, all’indomani dei tragici eventi di Messina, aveva esortato: «O c'è un piano serio che piuttosto che in opere faraoniche investa sulla sicurezza in questo paese o si potranno avere altre sciagure». Ho immaginato che si riferisse allatanto discussa econtroversa ipotesi di costruzione del ponte di Messina. Il giorno dopo, in una trasmissione televisiva (e dove se no?), ecco che risponde un rappresentante della maggioranza di governo che in sostanza dice: “ Il ponte si farà perché lo vogliono gli italiani. La costruzione del ponte sullo stretto è nel programma di governo che gli italiani hanno votato”. Ipse dixit. Il ragionamento mi lascia perplesso. Però dice che siamo in democrazia e pertantola maggioranza decide, sempre. A prescindere. Quindi tutto quello che il governo fa o disfa,lo fa perché lo vogliono gli italiani. Io, che sono fuori dal gioco, sono andato dal mio amico Attilio. Lui ha votato per l’attuale maggioranza, e gli ho chiesto: “Tu vuoi il ponte di Messina?” Mi guarda sorpreso, con facciasgomenta, e dice: ” Io? Ma fammi il piacere. Sai cosa me ne frega a me del ponte. E’ un’opera inutile, costosissima che in pochi vogliono. Rischiosa. Finirà che la pagheremo noi. Prima o poi un terremoto la tirerà giù perché la zona è a forte pericolo sismico. A causa del vento non sarà utilizzabile per almeno cento giorni l’anno. E’buona solo per gli interessi di mafia e ‘ndrangheta. Lascia pur li”. Condivido. Signor Presidente del Consiglio, se vuole fare il ponte lo faccia (e chi può impedirlo?), ma, per favore, non dica che sono gli italiani a volerlo. Nemmeno la maggioranza dei siciliani è favorevole. Di fronte a un quesito referendario del tipo: cari italiani, siete favorevoli alla costruzione del ponte sullo stretto… quale sarebbe il risultato? Not in my name. Per favore.

a.b.

venerdì, settembre 18, 2009

Meglio non fidarsi del popolo italiano

Coloro che hanno la possibilità, il tempo e la voglia di informarsi, magari non solo attraverso la tv, ma anche leggendo i quotidiani, online e non, sapranno che una parte della stampa, soprattutto quella internazionale insieme con alcuni commentatori politici, racconta di un Silvio Berlusconi politicamente in difficoltà; giungendo a profetizzare l’imminente e inesorabile inizio della sua parabola discendente. Detto così, ciò appare bizzarro e inverosimile e forse lo è. Lo è ancor di più quando ascoltiamo il Cavaliere ripetere che egli gode del sostegno del 68% degli italiani; i quali vorrebbero essere come lui. Pertanto non lo scalfiscono le critiche di “certa stampa piena di farabutti”, i richiami alla moralità e i recenti contrasti con i vescovi. Forte del consenso, non lo preoccupano più di tanto gli eventuali pronunciamenti negativi della Corte Costituzionale sulla legittimità del lodo Alfano con il conseguente processo Mills, né tanto meno le supposte inchieste, di alcune procure, su periodi nebulosi, lontani nel tempo, di questa nostra Italia. Eppure, la storia insegna. Del popolo italiano non c’è da fidarsi. L’italica progenie, opportunista per fede, è sempre pronta a salire sul carro del vincitore. “Attento ai plauditori” gli grida Gianfranco Fini, invitandolo a guardare tra i suoi. Mio zio Gastone mi raccontava che durante il regime, in Italia, c’erano quaranta milioni di fascisti. Dopo la caduta di Mussolini, invece, si contavano quaranta milioni di “eroi della Resistenza”. Lui estremizzava ma era chiaro ciò che voleva insegnare. Era sfuggito miracolosamente e astutamente, insieme a mio padre, al plotone di esecuzione tedesco nei pressi di un paesino in Toscana: Terrinca, in Alta Versilia. Zona che fu teatro di fatti difficili da immaginare e raccontare; orrori dell’umanità culminati con l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, un’atrocità inutile e per questo ancor più difficile da capire. Mi raccontano che quando un gregge di pecore, seguendo il pastore in transumanza, attraversava la via, Gastone si fermava e, cappello e sigaro in bocca, con voce richiamante gridava: “Fermi tutti, passa il popolo italiano”. Officiato il suo rito, riprendeva la passeggiata mattutina sistemandosi il borsalino sulle ventitré. La storia ci racconta, anche, che quattro mesi prima che il popolo milanese inveisse sui miserevoli resti del Duce e della sua compagna, un bagno di folla acclamante e osannante aveva accolto Mussolini in città. Adesso per sdrammatizzare, vi dico di quel mio amico, convinto elettore della Lega, che di ritorno da Torino dove, la settimana scorsa, ha assistito alla partita Italia – Bulgaria, ha detto di essersi commosso quando, al vantaggio degli azzurri, con orgoglio ed entusiasmo, ha cantato: “Fratelli d'Italia, l'Italia s'èdesta, dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa. Dov'è la Vittoria? Le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò…”
Mai fidarsi.
Aldemario Bentini

venerdì, agosto 28, 2009

Ore 8, prova scritta di dialetto

Il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, è un genio della politica? I suoi fans ne sono convinti. Con le ultime sue uscite, in rapida successione, ha conquistato la scena agostana e ha tenuto il Cavaliere in apprensione, tormentandolo con una trovata dietro l’altra, infastidendolo non poco durante un’estate già di per sé noiosa e forzatamente morigerata. Il nostro ministro ha esordito con le bandiere e gli inni regionali, poi ha attaccato con le gabbie salariali per il meridione e l’inno di Mameli, ha proseguito con la proposta d’insegnamento del dialetto, imposto per legge, a scuola, dopo aver detto altresì: niente soldi per i festeggiamenti dei 150 anni dell’unità d’Italia. E da ultimo la diatriba con il Vaticano sulla questione degli immigrati. Per il ministro La Russa è tutto frutto del sole di agosto. Anche Berlusconi ha minimizzato: “Sono soltanto messaggi che interessano i suoi elettori". Io credo, invece, che tutto questo sia strategico e propedeutico in funzione delle prossime elezioni regionali. Il senatur, nei giorni prossimi al ferragosto, ha dichiarato che lo studio del dialetto a scuola deve essere obbligatorio e che il ministro Calderoli sta, di conseguenza, preparando il disegno di legge. Non ho niente contro il dialetto, anzi, lo ritengo un arricchimento culturale, purché non sia in contrapposizione con l’italiano inteso come lingua comune. Immaginando che non s’intenda di voler insegnare una parlata diversa per singolo territorio, mi domando quale dialetto? Il lombardo? Non esiste un dialetto lombardo. Esiste caso mai il dialetto milanese, il pavese, esiste il bergamasco (quello di città e quello delle valli), esiste il cremonese, e poi il cremasco e tante e tante inflessioni locali. Idem per la regione Veneto. Il veneziano è diverso dal padovano, dal vicentino, dal trevigiano e così via. E poi su quali testi verrebbe studiato? Però, come diceva mio nonno: ” Volere è potere”, con il verbo essere che ha funzione di copula, se la Lega dovesse riuscire a imporre una tal legge, troverà anche la soluzione per individuare i dialetti identificativi regionali. In Lombardia potrebbe essere il milanese, in Veneto il veneziano, in Piemonte il torinese… e in Alto Adige? In quella regione si insegna ovviamente il tedesco. Ecco, forse è meglio imparare il tedesco. Sono convinto che ai nostri giovani serva più la padronanza dell’inglese e del tedesco e magari conoscere un po’ più l’italiano. Molti giovani hanno problemi di analisi logica e di congiuntivi, che non servono tanto a parlar forbito ma principalmente a strutturare il pensiero e a comprendere quel che si legge. Ragazzi miei, se volete avere maggiori chance e condizioni più favorevoli per riuscire in una società che diventa sempre più competitiva, imparate bene l’inglese, il tedesco e magari, visti i tempi, il cinese.
Studiate, studiate perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza.

Aldemario Bentini

sabato, maggio 30, 2009

Vincere di Marco Bellocchio

Un film importante, di grande tensione civile, etico e duro. E’ “Vincere”, di Marco Bellocchio, salutato a Cannes da una lunga standing ovation, tutta meritata. Il film si dipana attorno alla storia di Ida Dalser, una donna importante nella vita del giovane Benito Mussolini, forse sua moglie forse no, sicuramente madre di suo figlio, Benito Albino – che Mussolini infatti riconobbe. Ida è bella, giovane, appassionatamente attratta da quell’uomo: lo aiuta, lo sostiene quando se ne va dall’”Avanti!” e fonda “Il Secolo d’Italia”. La pensa come lui, vive per lui. Ma il giovane Mussolini ribelle, anticonvenzionale, anticlericale cova un’anima perbenista e da “uomo d’ordine”: sceglie Rachele, la rassicurante massaia rurale. Una fotografia ed un montaggio splendidi accompagnano nella estrema violenza sociale e politica del “periodo furioso che copre il primo ventennio del secolo”. Alla violenza dei moti di piazza interventisti (“Guerra sola igienedel mondo”), a cui Mussolini subito si avvicina, fanno da contrappunto le immagini di violenza da Sarajevo, dal fronte della Grande guerra e poi quelle del fascismo nascente: gli squadristi, gli assalti ai giornali di sinistra, alle case del popolo, alle feste socialiste. Fiamme, urla, fez issati su volti stravolti dall’odio, bastonature, prepotenze, linguaggio violento e ferino a cui si accompagna passo passo la grande, vergognosa violenza usata verso la donna Ida e suo figlio. Mussolini, ad un certo punto, la cancella: il fascismo rientra completamente in ranghi perbenisti e reazionari, si prepara la firma del Concordato con la Chiesa cattolica. Ida rincorre il suo uomo, gli mostra il piccolo: invano, riceve solo umiliazioni. Frappone tra la verità e le menzogna se stessa ed il suo corpo, si para davanti ai gerarchi nei momenti ufficiali, in cui i fez e le camicie nere si mescolano alle grisaglie borghesi ed alle tonache dei prelati: è troppo. Ecco l’esilio nella casa della sorella e del cognato, che comunque sosterranno sempre con grande affetto e sacrificio personale lei e il piccolo Benito, ecco l’internamento in manicomio e la sottrazione del figlio. Isa grida sempre la sua verità: non si accontenta che tutti sappiano, vuole che si riconosca la verità, lo vuole pervicacemente ed ossessivamente. Figura di un compulsivo eccesso femminile, Ida vuole che le parole riconoscano la verità, che la dicano. E il machismo, il disprezzo verso la donna, il perbenismo, la menzogna fascista risaltano per contrapposizione a questa donna sola nel suo essere internata, umiliata, cancellata, ma sempre resistente. Bellocchio ci mostra cos’erano i manicomi, prima della grande e civile legge Basaglia: in una sequenza indimenticabile, in un manicomio, quello di Venezia, più “umano”, Ida e gli altri internati vedono “Il monello” di Chaplin, la povertà forte della propria dignità e del proprio amore che resiste alla violenza e alla mancanza di umanità dell’ordine costituito. Piangono tutti, poi, quando Charlot si riprende il monello, scoppia un applauso incontenibile: l’amore può vincere. Ida e suo figlio, chiuso in un istituto, seguono lontani l’uno dall’altra la carriera di Mussolini, che diventa sempre più grottesco nelle parole e nei modi: un clown feroce, la maschera farsesca di una tragedia che si avvicina alla fine. Icona violenta, farisaica, volgare di un ventennio che ugualmente violento e volgare, le teste di Mussolini rotolano giù mentre rotolano nei cieli le bombe portate dalla guerra fascista, che metterà a ferro e a fuoco il nostro Paese: le nostre belle città in fiamme, i volti di chi soffre, un uomo carezza dolcemente le caviglie di una donna stesa su un carro, forse ferita, forse morta. E sapere che era già tutto là, in quel linguaggio pieno di odio, in quella vertigine di violenza e di volgarità che l’amore di Ida non ha potuto fermare. Benito junior finirà anche lui in manicomio, distrutto dal sapere di essere figlio dell’altro Benito ma deprivato,progressivamente,
della madre, degli zii, e poi del cognome: finiranno col chiamarlo Dalser, come la madre. E lui finirà con lo scimmiottare il padre, rifacendogli il verso nei momenti più grotteschi, uguale a lui in modo imbarazzante. Troppo, anche per le sua stabilità mentale. Nero e una gamma di grigi è il colore di questo film bellissimo: soli fotogrammi più chiari quelli dei rari momenti di quiete di Ida, una Giovanna Mezzogiorno meravigliosa, nel corpo, nel volto, nello spirito, che morirà anch’ella in manicomio. Sapete, questo film suscita grande ammirazione, ma anche pena ed imbarazzo. E’ un film fieramente antifascista. E' un agghiacciante memento di quello che il fascismo è stato: repressione, manipolazione, machismo, militarismo, sadismo. Ci mette implacabilmente di fronte a uno specchio. E' in quello specchio che in tanti non sopportano di guardarsi”. E non c’è niente di più difficile, e di più importante, che sapersi specchiare bene.

P.M.

sabato, maggio 16, 2009

Senza Commento

Propongo ai lettori de il Piccolo questo pezzo di storia. Si tratta di una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso Americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti. La relazione è del 1912. Può essere motivo di riflessione e ognuno, se vuole, in cuor suo lo faccia. Questo il testo. "Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città, dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro, affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, diventano violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali"…
La relazione conclude dicendo: "Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostrasi curezza deve essere la prima preoccupazione".

a.b.

venerdì, aprile 24, 2009

Da Jair a Balotelli

Il calcio non mi appassiona più. Da ragazzino la passione era sfrenata. Una passione che si trasferiva tutti i giorni sul ruvido cemento dietro casa. La domenica stavo incollato alla radio ad ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto “Se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con Stock 84, se ha perso, consolatevi con Stock 84’’. Tutta colpa di Omar Sivori. Fu lui, el cabezon, che mi ammaliò. Un tracagnotto trotterellante con una testa folta e arruffata, faccia da indiano apache, irriverentemente estroso, un genio della pelota. Giocava solo con il piede sinistro, calzettoni sfrontatamente abbassati, irritante con quel suo dribbling stretto alla ricerca dell’umiliante tunnel. Esercitava su di noi ragazzini un grande fascino con quel carattere ribelle, rissoso, beffardo e vendicativo. Altri tempi. Erano anche i tempi in cui giocava nell’Inter, anzi nell’Internazionale, un certo Jair. Da Costa Jair, giocatore brasiliano, un fuoriclasse veloce come una saetta. Una delle tante scommesse del mago Herrera. Un furetto, scartato dal Milan, che con l’Inter vinse quattro scudetti, due coppe dei campioni e due coppe intercontinentali. Jair era nero, ma in quel tempo si diceva “negro” e nella parola non c’era alcun senso di offesa. Nero, proprio come Mario Balotelli, un ragazzo di colore non ancora ventenne che nel carattere mi ricorda Sivori. Non ho mai sentito cori di disprezzo né tantomeno odiose battute razziste contro Jair. Mai. Sabato scorso mezzo stadio di Torino ha rovesciato su Balotelli ogni genere di insulto, mentre l’altra metà dello stadio è rimasta impassibile. Vergogna. Ventimila persone. Non soltanto i soliti immancabili quattro cretini, quelli che inducono a dire: ” La mamma degli stolti è sempre incinta”, ma uno stadio intero. Cosa sta accadendo? Quanto tempo è trascorso da Jair a Balotelli? Di chi la responsabilità? Il presidente dell’Inter ha detto che se fosse stato a Torino sarebbe sceso in campo per ritirare la squadra. Che occasione persa presidente Moratti. Sarebbe stato un gesto con una valenza più forte di cento squalifiche del campo o di altrettante partite giocate a porte chiuse. Balotelli, un ragazzo con tanta amarezza dentro che, anziché gioire come un pazzo quando fa goal, reagisce come se fosse a fine carriera. Coraggio Mario, quando sarai in Nazionale, gli stessi stolti ti osanneranno.

d.t.

venerdì, aprile 17, 2009

Ma dove ti ho trovato?

Nel Tide! Così scherzavamo da ragazzi. Chi si ricorda del Tide? Immagino quelli della mia generazione. Siamo negli anni 60. Noi ragazzi pregavamo le nostre mamme perché comprassero quel detersivo in polvere. Conteneva una sorpresa, solitamente soldatini di plastica, spesso dell’esercito americano. Ce n’erano in varie pose: quello con la mitragliatrice, quello che lancia la granata, quello a terra con la ricetrasmittente. Il mio ricordo è nitido anche perché in estate, finita la scuola, andavo a lavorare da mio zio in Versilia. Lo zio faceva l’ambulante, vendeva detergenti, saponi e lisciva nei mercati di Forte dei Marmi, Pietrasanta, Querceta, Seravezza. La mattina sveglia alle cinque e con il motocarro Guzzi raggiungevamo il mercato per preparare il banco dei mille profumi. Al pomeriggio meritato bagno in mare: spiaggia libera del Cinquale. Ricordo che con una piccola quantità di polvere diluita in una bacinella d’acqua, usando un pennello, pulivo il motorino. Olio e grasso si disgregavano con estrema facilità, il motore tornava come nuovo. Penso che il Tide, allora, fosse un detersivo tra i più inquinanti in commercio. In quel tempo si parlava poco di ecologia. Non che fino ad oggi si sia fatto molto in difesa dell’ambiente. Attendiamo il New Deal ecologico del presidente Obama. Forse, se funzionerà negli States, se sarà in grado di risollevare l’economia americana, può essere che anche qualcuno dei nostri governanti si decida a prendere in considerazione le opportunità che una riconversione ecologica può offrire. Si potrebbe già cominciare dal cosiddetto piano casa che dovrebbe, a mio parere, favorire principalmente le ristrutturazioni ad alta efficienza energetica; prevedere incentivi verso la bioedilizia, concedere sostegni consistenti per l’edilizia antisismica, con particolare riguardo a scuole, ospedali e edilizia popolare. Sarebbe conveniente, poi, investire nelle energie alternative: sole, vento, maree, biomasse, motori elettrici, pannelli solari e conseguentemente nelle infrastrutture necessarie. Invece sentiamo parlare di centrali nucleari… lasciamo stare per favore. Ho una mia personale teoria: l’età anagrafica è inversamente proporzionale alla lungimiranza. E’ un limite psicologico? Sembra di sì, tanto che s’immagina un futuro che al massimo raggiunge i prossimi cinquanta anni; quando, ci dicono, il combustibile per le centrali nucleari sarà esaurito. Oppure si progetta di costruire un ponte nel posto peggiore. Lo dicono geologi: prima o poi un terremoto lo tirerà giù. Se non fosse che intorno alla costruzione del ponte di Messina ci sono interessi esorbitanti direi che è una nuova Torre di Babele: una sfida alla natura e a Dio, frutto della vanità e dell’arroganza degli uomini.

d.t.
venerdi 17 aprile 2009

domenica, marzo 01, 2009

Quel brindisi di Corada è un bicchiere mezzo pieno

E' apparsa su tutti i giornali locali la fotografia del sindaco Gian Carlo Corada che brinda nel cantiere di piazza Marconi, insieme ad alcuni dirigenti comunali e ai vertici di Sea, l’azienda che si è aggiudicata il secondo lotto dei lavori. Si è fatta dell’ironia su quel brindisi. Legittima. Così come i dirigenti del centrodestra hanno usato il sarcasmo guardando quell’immagine. Legittimo pure questo. Ironia e sarcasmo sono il sale della democrazia. Questa fotografia che dalla cronaca passerà alla storia è come il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Noi l’abbiamo visto mezzo pieno. Non per partito preso dal momento che questogiornale non parteggia per alcuno. Ma perché faceva tenerezza vedere il sindaco brindare, soddisfatto, come se avesse sconfitto una maledizione che gravava su quel cantiere. Siamo sinceri: ognuno di noi si porta le sue croci e le sue colpe, ma non possiamo negare che in piazza Marconi, in questi anni, è successo davvero di tutto: ritrovamenti di siti archeologici, ricorsi e controricorsi, sentenze del Tar. Che andavano a demolire quanto si stava cercando di costruire. Quel brindisi deve, quindi, essere di buon augurio per tutti i cremonesi. Il malocchio sul cantiere, forse, è stato sconfitto del tutto. E per sempre. Chiunque sarà il prossimo sindaco della città, si ritroverà una piazza Marconi messa a nuovo. Al servizio di tutti i cremonesi. Che hanno dovuto pazientare per alcuni anni, ma ora vedono il traguardo vicino. Nella vita, anche la fortuna o la sfortuna contano. E alla fine i conti si pareggiano. Per Gian Carlo Corada, quel cantiere ha rappresentato la parte meno piacevole del suo mestiere di sindaco. Quella che gli ha provocato i maggiori mal di pancia. Così, quando ha potuto brindare all’apertura dei lavori, si è sentito come liberato di un peso. Anzi di un macigno.E ha tirato un sospiro di sollievo. Quel calice alzato era anche il suo calcio alla sfortuna, al malocchio, alla iella. Perché rovinargli, e rovinarci, la festa? Brindiamo, almeno oggi. La crisi economica e finanziaria che si sta abbattendo anche su Cremona e il suo territorio, è peggio di un milione dipiazze Marconi.
s.c.
venerdi 27 febbario 2009

Non c'è più tempo da perdere,contro la crisi non basta il lotto

Scorrendo le pagine di internet alla voce «homeless», come gli anglosassoni definiscono i nostri «senza casa» o «barboni», sono rimasto impressionato nel leggere quanti siti esistano attraverso i quali è possibile trovare indicazioni per le cose più disparate: assistenza legale, aiuti per trovare un rifugio, distribuzione di pasti e così via. Ma sono le notizie sulla nostra società che mi colpiscono e mi impressionano quando indicano fra i 70 ed i 100mila i barboni che popolano le nostre strade a fronte degli stimati ventimila tedeschi o ventunmila spagnoli, con numeri in costante e preoccupante crescita. E chi sono questi vicini di cui sino ad oggi non ci eravamo accorti? Cominciamo col dire che i barboni nostrani non sono più quei personaggi da letteratura che avevano scelto la vita di strada per romanticismo, ma sono persone fra i 40-50 anni che hanno perso il lavoro e non ne trovano un altro, sono i pensionati con redditi insufficienti, sono i divorziati che non ce la fanno a coprire le spese di due famiglie, sono iconiugi con più di 3 figli, sono i singoli con stipendi da 650/700 euro che ne devono pagare 500 di affitto, gli anziani monoreddito, sono quei 7 milioni e mezzo di «poveri relativi» come li definisce l’ISTAT, cioè coloro che hanno meno della metà del reddito di sopravvivenza, e, altra sorpresa, la metà circa sono nostri connazionali. Stazioni ferroviarie, conventi e sedi di enti assistenziali stanno sempre più diventando mete di pellegrinaggi giornalieri di chi chiede un pasto, soldi per i libri dei figli, assistenza legale od un aiuto per pagare luce e gas. Ancora più triste è la lettura di altri indicatori di povertà: in Italia i furti nei supermercati sono aumentati del 4% contro una media europea dello 0,8%, i pignoramenti di case sono passati dai 15mila del 2006 ai 21mila del 2008 e la Banca d’Italia afferma che ben un 8% del reddito mensile se ne va per pagare debiti, senza tener conto della quota pagata agli usurai. L’anno 2010 è stato proclamato «Anno europeo contro la povertà» evidenziando la consapevolezza di tutti che non c’è tempo da perdere e che i botteghini del lotto non possono divenire l’unico luogo in cui trovare conforto.

Enrico Tupone
tuponee@alice.it
venerdi 20 febbraio 2009