domenica, luglio 29, 2012

Le interviste impossibili: Dante Alighieri


Quante volte ci siamo chiesti: se Dante fosse messo davanti allo schermo di un computer, e osservasse la scrittura che nasce attraverso gli impulsi su una tastiera, piuttosto che dal movimento articolato della mano, cosa direbbe? E se Newton conoscesse gli studi sul bosone di Higgs? E Mozart, condotto ad un concerto rock? E se Maria Curie potesse osservare gli esiti diagnostici e gli sviluppi della scoperta del radio? E Napoleone, se vedesse una guerra condotta con missili e droni? Il gioco potrebbe continuare all’infinito, in un rimando di citazioni e meraviglie ininterrotto. Allora, ci siamo detti: proviamo. Proviamo a far parlare alcuni di questi personaggi, ponendo loro domande sul nostro oggi. Una sorta di “interviste impossibili”: con quel tanto di leggero ed ironico – vogliamo sperarlo – da risultare di piacevole lettura.

di Agostino Francesco Poli

Ahi serva Italia, di dolore ostello
Un’invettiva contro chi lascia andare a male la storia, la cultura, l’arte dell’Italia

Verrebbe da chiamarla “Dante”, come usiamo conoscerla a scuola, come ci viene insegnato fin dai primi anni di studio… ma temo di osare troppo. 
«No, la mi chiami pure Dante… l’è un nome bello, importante. Lo sa cosa significa? ».
No, me lo dica. 
«Significa colui che perdura. Che persevera. E, da quello che vedo, la mia opera perdura davvero… La mia opera: “'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m'ha fatto per molti anni macro”. Ci ho lavorato davvero tanti anni, sa? Diciassette. Ero giunto, o almeno credevo, “nel mezzo del cammin di nostra vita”. In realtà, la malaria mi ha sopraffatto molto prima.
 La vedo corrucciato. Allora, non si tratta solo di una tradizione iconografica, che la ritrae così… 
«Non ho mai trovato eccessivi motivi di felicità. Secondo lei, che c’è da ridere? Mica sono un umorista: a me si confacevano la grande poesia, l’invettiva, il trasporto lirico, ma non la poesia da mammolette!
Eppure, Dante, lei ha scritto uno dei componimenti d’amore più belli di sempre, il canto di Paolo e Francesca. Per non parlare delle sue poesie, del Dolce Stil Novo. 
Il Dolce Stil Novo è cosa di gioventù, quando rimavo: “Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io/fossimo presi per incantamento,/e messi in un vasel ch'ad ogni vento/per mare andasse al voler vostro e mio”. Poi, sono arrivati l’impegno politico, la partecipazione alle vicende della mia città e del mio tempo, l’Imperatore ed il Papa, i Guelfi ed i Ghibellini, gli incarichi da ambasciatore, e il duello, a distanza ma durissimo, con il papa nemico, Bonifacio VIII. Sa che sono stato cacciato da Firenze, la mia città? che ho vissuto in esilio per venti anni? «Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e 'l salir per l'altrui scale».
Lei amava Firenze? 
«Firenze … la amavo e la odiavo. Ho reso grande anche Farinata degli Uberti, pur se ghibellino, pur cacciandolo nell’Inferno, dove meritava di stare, perché, dopo la vittoria di Montaperti, si oppose a che Firenze, sconfitta, fosse distrutta».
E che ci dice delle cose di oggi? Questa nostra Italia, come la vede? 
«Io ho creato la vostra lingua. Ho usato il cosiddetto “volgare”, gli ho dato dignità e grandezza poetica. Ho creato figure indimenticabili, come il poeta Sordello da Goito: è nel Purgatorio, ma pensa tanto alla sua patria, all’Italia, con nostalgia e dolore. Si ricorda?».
Sì.. quei versi indimenticabili, che spaventano un po’. 
«Sono versi di rabbia. Molto più importante della nostalgia è la rabbia che ne sgorga, in cui si tramuta. “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, // non donna di provincie, ma bordello!».
Parrebbero adatti al nostro oggi, in un certo senso. 
«Lo sono. Vivete in un Paese ancora ricco, forte, dotato di tradizione e bellezza incommensurabili. Perché non ve ne avvalete? Perché li gettate via? Lo sa cosa ho sentito dire?».
Che cosa? 
«Che a Firenze, nella mia città, la più bella città del mondo, ovvia… me lo faccia dire! Insomma, a Firenze non c’è modo di conservare ammodo le pergamene su cui scrivevamo ai miei tempi! Ma le pare possibile? Pare che non ci sia denaro per evitare l’umidità e il caldo! Ma dico io, siete andati sulla Luna! E non c’è modo di conservare le pergamene che narrano la storia e la memoria di una città come Firenze! Altro che intervistarmi: dovrebbe denunciare queste cose! Tutti i giornali, visto che ce li avete a disposizione, e anche quella cosa, Internet… tutto dovreste utilizzare, per un’invettiva come quelle mie, contro chi lascia andare a male la storia, la cultura, l’arte dell’Italia! Ah, potessi tornare indietro! Io scrivevo a mano, ci pensa? Potessi usare la stampa, potessi essere nato ai tempi di Gutenberg! Potessi scrivere cose da diffondere in centinaia, migliaia di copie! Sarei diventato il maggior polemista di tutti i tempi! La prego, mi dica: che ne penserebbe di un pamphlet sulla situazione politica ed economica del vostro tempo, che terminasse con “Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”?».
Penso che sarebbe un enorme successo, caro Dante, padre dell’Italia verso cui proviamo un amore dolceamaro. La ringrazio.

Elezioni: grande preoccupazione per gli investitori


Paolo Manasse: «La tendenza dei mercati è sfuggire prima di tutto dai paesi con il debito più elevato, come l’Italia»
Secondo il docente, «La politica in Italia è un problema: né destra né sinistra hanno la minima idea di come muoversi»

di Daniele Tamburini

Se ci limitassimo a guardare i fatti, la quota che sta toccando in questi giorni lo spread (cioè, il differenziale tra i nostri titoli di stato e quelli tedeschi) non è poi così dissimile da quella che contribuì a dare il colpo finale al governo Berlusconi, lo scorso novembre. E questo, nonostante l’opera di risanamento dei conti che il premier Monti ed il suo governo stanno portando avanti, anche con scelte dolorose e assai pesanti. Ovviamente, quella che terminò a novembre era un’altra storia: ma i timori e le perplessità stanno crescendo, e danno fiato anche a chi, come l’IdV, sostiene che Monti abbia fallito e che occorra andare al voto anticipato. Grandi manovre in vista delle prossime elezioni politiche? Senz’altro. Non se ne sottraggono, ormai da settimane, sia il Pdl che il Pd. Un’altra dimostrazione di poca responsabilità delle forze politiche? O magari, queste hanno davvero ragione, e la ricetta Monti non sta funzionando? Eppure, il nostro Paese è ancora robusto, sotto diversi punti di vista (ad esempio, nel manifatturiero), e ha un Pil neppure paragonabile a quello, per esempio, della Grecia. Ne parliamo con il professor Paolo Manasse, docente di Politica Economica all’Università di Bologna.
Professor Manasse, una domanda secca, per iniziare: perché lo spread vola, nonostante la virtuosità, riconosciuta da più parti, del lavoro del governo in direzione del risanamento? 
«In questo periodo i mercati finanziari reagiscono a una serie di eventi, in parte di origine nazionale e in parte decisamente esterni all'Italia. Parte del problema, ad esempio ha a che fare con la crisi greca: è molto probabile che ci sia una opposizione da parte della Germania e del Fondo Monetario Europeo all'erogazione di una terza tranche di aiuti alla Grecia, e questi potrebbe portare al Grecia a uscire dall'area euro. Dall'altro lato c'è la crisi spagnola, che si sta aggravando notevolmente, facendo sfuggire i mercati. Del resto, ci troviamo in una situazione in cui l'Europa sembra non voler prendere delle decisioni definitive, e questo fa allontanare ulteriormente i mercati dalla zona Euro, che sta diventando sempre più fragile, tanto che iniziamo a sentire i primi scricchiolii anche in Germania. La tendenza dei mercati è sfuggire prima di tutto dai paesi con il debito più elevato, come l'Italia: le azioni restrittive del Governo potranno avere un effetto benefico nel lungo periodo, ma nel breve hanno un effetto negativo sull'economia. Del resto nel nostro Paese ci sono anche delle responsabilità nel non fare determinate scelte politiche attraverso la Banca d'Italia. Non dimentichiamo che il Fondo salva stati, senza l’aumento della sua dotazione, o senza la possibilità di ottenere credito illimitato da parte della Bce, è destinato a non decollare.
Perché la speculazione ha come obiettivo l’Italia? C’è una debolezza strutturale? 
«Effettivamente è proprio così: l'Italia è caratterizzata da un'evidente carenza strutturale. E' il Paese che cresce meno in Europa e il fatto che i tassi di interesse aumentino costantemente mette ancora più in difficoltà la solvibilità dello Stato Italiano. Ricordiamo che l'aumento di un solo punto percentuale del tasso ci costa circa 20 miliardi, ossia la metà dell'incasso dell'Imu. Questo ci mette in una situazione di grande vulnerabilità».
Il premier Monti dice: se la situazione rispecchiasse la realtà delle cose, lo spread dovrebbe essere a quota duecento. È d’accordo?
«Nessuno può dire con certezza come potrebbero essere le cose. Quello che credo sia vero è che l'aumento dello spread riflette in parte ragioni che non hanno a che fare con l'Italia. Diciamo che su un 520 di spread, solo circa la metà dipende dalle scelte del nostro Paese».
Quanto ha inciso su questa situazione il rinvio a settembre della decisione della Corte costituzionale tedesca sullo “scudo antispread”? 
«Credo non più di tanto. Anzi, direi che è stata una buona scelta quella di rinviare tale misura, in quanto attualmente lo scudo non ha soldi e non sarebbe efficace».
Rischio Spagna, rischio Grecia… sono rischi reali?
«Sono rischi molto reali. Se oggi dovessi scommettere qualcosa sulla Grecia, scommetterei sulla sua fuoriuscita dall'euro nel giro di un mese o poco più: a fronte della decisione della Germania di non continuare ad erogare aiuti al Paese, le speranze sono davvero ridotte al minimo. Allo stesso modo è reale il rischio in Spagna: in mancanza di un intervento europeo, le banche spagnole rischiano il fallimento, e lo Stato spagnolo non è in grado di salvarle. L'uscita della Grecia e un tracollo della Spagna influenzerebbero negativamente l'intera zona dell'Euro, con effetti decisamente pesanti».
L’instabilità politica del Paese, sempre in agguato, ha in ruolo in tutto questo? 
«Secondo me sì. La prospettiva di una futura guida politica per il Paese, di destra o di sinistra che sia, è vista con grande preoccupazione da tutti gli investitori, in quanto nessuno dei due schieramenti ha la minima idea di come muoversi. Le proposte di Berlusconi in merito all'uscita dell'Italia dall'area Euro, poi, hanno avuto come unico effetto quello di far aumentare lo spread, e questo è un grave problema, visto l'attuale situazione recessiva del Paese».
Si è parlato molto, in questi giorni, del cosiddetto “meccanismo europeo di stabilità” (Esm), che è stato approvato proprio nei giorni scorsi, nonostante le molte contestazioni. Secondo lei potrebbe essere uno strumento efficace? 
«Purtroppo no, in quanto esso non possiede risorse sufficienti per salvare Spagna e Italia. Questo strumento va a sostituire il Fondo europeo di stabilità finanziaria, ma ha una dotazione di circa 500 miliardi, decisamente insufficiente per ridurre lo spread. Tale fondo, tra l'altro, non solo non ha il capitale necessario, ma neppure la possibilità di ottenerlo indebitandosi presso la Banca Centrale europea. Dunque se il fondo di intervento, per il quale Monti si era strenuamente battuto, non ha risorse illimitate e gli squilibri persistono, il regime di fissazione dei prezzi prima o poi collasserà. Ad un certo punto si avrà un attacco speculativo dove gli investitori, che anticipano la caduta del prezzo, venderanno in massa al fondo di stabilizzazione, esaurendone le risorse. Questo fondo, quindi, potrebbe addirittura peggiorare la situazione».



lunedì, luglio 23, 2012

Le interviste impossibili: Karl Marx



Quante volte ci siamo chiesti: se Dante fosse messo davanti allo schermo di un computer, e osservasse la scrittura che nasce attraverso gli impulsi su una tastiera, piuttosto che dal movimento articolato della mano, cosa direbbe? E se Newton conoscesse gli studi sul bosone di Higgs? E Mozart, condotto ad un concerto rock? E se Maria Curie potesse osservare gli esiti diagnostici e gli sviluppi della scoperta del radio? E Napoleone, se vedesse una guerra condotta con missili e droni? Il gioco potrebbe continuare all’infinito, in un rimando di citazioni e meraviglie ininterrotto. Allora, ci siamo detti: proviamo. Proviamo a far parlare alcuni di questi personaggi, ponendo loro domande sul nostro oggi. Una sorta di “interviste impossibili”: con quel tanto di leggero ed ironico – vogliamo sperarlo – da risultare di piacevole lettura.

di Agostino Francesco Poli

Buonasera, Herr Marx. Risponderebbe a qualche domanda?
“Sì, ma ho un po’ di fretta. Devo discutere di alcune questioni con il mio amico Friedrich. Abbiamo lasciato in sospeso la definizione del socialismo scientifico”.
Mi scusi: Friedrich Engels?
“E chi, altrimenti?”
Bene, faremo presto. Lei ha indubbiamente segnato la storia del mondo, ma poi, per un po’ di tempo, è parso che il suo pensiero fosse messo in soffitta. Salvo essere richiamato proprio oggi, nella crisi attuale, in cui si parla di crisi di capitalismo, di rapporti di produzione etc.. Come ci si sente a sapere di averci visto giusto?
“Sbaglio, o qualcuno, dalle vostre parti, pochi anni or sono, parlava di “fine della storia”? Stupidaggine! Non mi sono mai divertito tanto, a leggerlo. Io ho sostenuto che la forza motrice della storia è la lotta di classe, che sono sempre esistite classi dominanti e classi dominate, e che la storia è un continuo movimento perché questa dialettica si trasformi. Altro che fine della storia! La vostra crisi, lo sa cos’è?”
No, ce lo dica…
“E’ un terribile, feroce, violento tentativo di riorganizzazione del capitale. Non è elegante autocitarsi, ma …”
Lo faccia, lo faccia…
“Ho scritto: "a un certo livello di sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà". Le forze produttive dell’Occidente sono entrate in contraddizione con fenomeni che non hanno potuto o saputo gestire (come la chiamate? La globalizzazione. O le stesse ondate migratorie, sintomo e risultato di una incredibile capacità di circolazione delle merci).
E allora?
“Io non ho scritto i Vangeli. Ma nelle mie pagine ci sono ancora molti spunti per cercare di leggere il vostro presente e trovare una via di uscita. Oggi, lo so, è tutto cambiato. Continuo a studiare, sa? L’organizzazione del lavoro e dei mercati è sconvolta, la divisione del lavoro e della geografia del potere pure; insomma, c’è una nuova configurazione dei soggetti che si confrontano. Ci sono nuove figure dello sfruttamento ( so dei precari, so dei lavoratori in nero), ma credo anche sia possibile fare leva sui punti di crisi e elaborare una nuova teoria del “valore comune”. Specie dopo quel che è successo al comunismo …”
Già. Uno dei motivi per cui lei è stato messo nella soffitta di cui parlavamo…
“Bah. A parte che le soffitte sono luoghi molto interessanti, devo dirle che il crollo dell’URSS non mi ha fatto strappare i capelli (e guardate che ne ho ancora tanti!). Chi ha voluto l’URSS fatta nel modo in cui venne realizzata, aveva letto poco di mio. Mi creda”.
Torniamo alla crisi. Ne usciremo?
“Non allo stesso modo in cui eravate, quando ci siete entrati. Ma senta, adesso faccio io una domanda: perché vi fanno tanta paura parole come “conflitto”, “classe”, “sfruttamento”? Basta assumere il fatto che esiste il punto di vista del capitalista, ma anche il punto di vista del lavoratore. Basta accettare che il capitalismo non sia un despota irresistibile, ma che la storia si svolge su uno scacchiere in cui il giocatore non è unico. Sono tanti i soggetti e le energie che possono confrontarsi e temperare la violenza della riorganizzazione capitalistica. È assurdo non riconoscerlo. È antistorico”.
Sta andando nel difficile…
“Voglio dire che il vostro mondo, quello che chiamate welfare, la protezione sociale e sanitaria eccetera sono nate dalla contraddizione, che sempre si rinnova, tra capitale e lavoro. Anche quando il lavoro è poco o nullo, come sta accadendo ora. Ho scritto che la macchina, nella sua relativa indipendenza, trasmette sì valore al prodotto, ma come lavoro morto. Solo l’attività degli operai, il lavoro vivo, permettono alle macchine di essere produttive. Sento parlare tanto di capitale finanziario, di finanziarizzazione. A parte che la parola è orribile (io scrivevo bene, sa?), ma dove sta, lì, il lavoro vivo? Non sarà che da lì nascono tanti problemi? Ma ora mi scusi, ho davvero un impegno”.
Con Engels…
“Mmm … beh, no: con Jenny, mia moglie. È baronessa di nascita, sa? Ed è intelligentissima, colta, politicamente molto consapevole. Ci scambiamo lettere anche se stiamo lontani solo un giorno. Oggi ne è arrivata una: io le avevo scritto … lo vuole sapere?
Certo!
“Io ti ho viva davanti a me e ti porto in palmo di mano, e ti bacio dalla testa ai piedi, e cado in ginocchio e sospiro: "Madame, io vi amo!”.
Bellissima frase! E sua moglie?
“Mi ha scritto una dolce lettera, indirizzata al “mio barbuto cinghialotto”
Grazie, Herr Marx. E porti i miei rispetti alla sua signora.


Le forbici sono utili, se c’è stoffa da tagliare


Vorrei essere chiaro: non intendo sparare su Monti, a prescindere. E' un governo che si e' trovato a gestire una situazione devastata e fortemente compromessa, e anche un po' imbarazzante. Ha fatto cose importanti: basti pensare che ha dato dignità e valore a chi paga le tasse. Ci ha evitato - per ora - il default. Ha assunto una nuova dignità in Europa. Ma, a volte, sembra che navighi un po' a vista. Non starò a ripetere la solita cosa dei provvedimenti tutti, o quasi, assunti sul piano dei tagli di spesa e delle tasse, e scarsi sul piano degli investimenti e dello sviluppo. Ci sono, però, alcuni elementi che davvero lasciano perplessi. Pensiamo alla questione riduzione delle ferie e accorpamento delle feste patronali al sabato o alla domenica. Per ora non ne fanno di nulla, ma un sottosegretario, Polillo, le invoca a spada tratta e dice che solo in Italia c'e' la cattiva abitudine a fare il "ponte". Scusate, ma c'e' di che essere allibiti. Le ferie? quando il lavoro non c'è, o ce n'è poco, davvero le ferie sono un problema? Le statistiche dicono che un italiano lavora come un giapponese, più di un tedesco. Il problema della produttività, allora, sta nella qualità di cosa si fa, non in quanto si lavora. Il problema sono gli investimenti in tecnologia e ricerca, per esempio. E l'abolizione dei "ponti"? Che ne pensano gli albergatori, i ristoratori? Non avevamo bisogno di far ripartire lo sviluppo, di cui il turismo e' una leva importante? Non dovremmo incentivare, visto che abitiamo nel Paese più bello del mondo, anche il turismo interno, oltre che quello d’oltreconfine? Non so, sono confuso. Vorrei capire che senso hanno questi annunci, se non ad aumentare la confusione. Però vorrei dire al premier Monti una cosa di semplice buon senso: che le forbici sono utili, ma quando c'è stoffa da tagliare.

Daniele Tamburini

sabato, luglio 14, 2012

Intervista a Guglielmo Forges Davanzati: «Il vero problema italiano? basso tasso di crescita e elevato disavanzo della bilancia dei pagamenti»

«Le politiche di austerità hanno effetto recessivo»

di Daniele Tamburini
Le misure previste nel decreto legge n. 95 del 6 luglio scorso (quello sulla cosiddetta spending review, o revisione della spesa pubblica) impattano fortemente su una spesa pubblica già sottoposta a tagli e riduzioni di trasferimenti statali da anni a questa parte. Dopo le tasse e le imposte, la riorganizzazione della macchina pubblica e la razionalizzazione della spesa. È presto per dire se tutto ciò porterà a ridurre gli sprechi o, piuttosto, a tagliare servizi. Alcune misure – vedi i tagli alla ricerca e la sostanziale deregulation della possibilità di aumentare le tasse universitarie - sembrano stridere con le intenzioni di crescita e sviluppo. Altre lasciano nel limbo di “decreti attuativi” la riorganizzazione della macchina pubblica periferica (la riduzione del numero e delle competenze delle Province). Sono pesantemente coinvolti la sanità (siamo sicuri che un piccolo ospedale è comunque inefficiente?) e la giustizia. Sono ancora previsti grandi tagli alla spesa delle Regioni e degli enti locali (alcuni hanno paventato di non poter riaprire le scuole a settembre). Sono tagliati gli organici di dirigenti e dipendenti pubblici (ma che fine farà, questa gente?). E la reazione del Paese? Protestano i sindacati, la Confindustria (ma con toni parzialmente attenuati, dopo il primo giudizio di Squinzi, che ha parlato di “macelleria sociale”, e la reprimenda di Monti) e la società civile. Alcuni economisti continuano a sostenere che la ripresa certamente non passa da tagli, riduzione di servizi, licenziamenti. Ma, nelle forze politiche, almeno in quelle rappresentate in Parlamento, c’è accettazione, a volte non molto convinta (quasi che sia l’ennesimo amaro calice da sorbire), a volte vigorosa (alcuni esponenti Pd hanno scritto che il loro partito dovrebbe portare l’agenda Monti nella prossima legislatura). La grande stampa plaude alle misure del governo, che incassa l’approvazione di Ue e Bce. Insomma, tutto bene? Ne abbiamo parlato con Guglielmo Forges Davanzati, docente di economia politica all’Università del Salento e saggista. Professore, vorrei partire proprio da questo: se la metà delle misure di spending review attuate o in via di attuazione da parte del governo Monti fossero state realizzate dal governo Berlusconi, si sarebbe verificata, su molti versanti, una vera e propria sollevazione. Adesso non è così. Perché? Cosa è cambiato, rispetto a un anno fa? 
Il Governo Monti fa gioco sullo stato di emergenza e, in larga misura, lo crea, diffondendo il timore di attacchi speculativi determinati da un eccessivo debito pubblico e il conseguente possibile fallimento dello Stato italiano. Occorre preliminarmente rilevare che un elevato debito pubblico non costituisce in sé un problema, se è data alla Banca Centrale la possibilità di acquistare titoli di Stato non acquistati da privati (il che non nelle prerogative della BCE). In altri termini, la teoria economica, ad oggi, non è in grado di stabilire il limite di sostenibilità del debito pubblico, se non rinviandolo a fattori extra-economici che, per loro natura, attengono alla sfera delle decisioni politiche. Non si spiegherebbe diversamente per quale ragione, a titolo esemplificativo, l’economia giapponese non ha un problema di eccesso di debito pubblico con un rapporto debito/PIL che supera il 220% (a fronte del 120% italiano). Il problema italiano consiste semmai nella fragilità dei c.d. fondamentali: basso tasso di crescita ed elevato e persistente disavanzo della bilancia dei pagamenti, innanzitutto. 
Qual è il suo giudizio complessivo sul decreto legge cosiddetto di spending review? 
La spending review è, nonostante quanto afferma il Presidente del Consiglio, una manovra fiscale di massicce dimensioni, che viene legittimata dalla lotta agli sprechi. “Spreco” è forse il termine più ricorrente nel dibattito politico italiano degli ultimi anni, eppure il suo esatto significato è piuttosto oscuro. Non si tratta, in questo caso, di avventurarsi in una disquisizione linguistica, ma di interrogarsi sugli effetti che l’uso di questo termine ha sulle principali scelte di politica economica. Il provvedimento sulla spending review (revisione di spesa) intende legittimarsi precisamente intorno a questa parola d’ordine, dato l’assunto (tutto da dimostrare) che tutto ciò che è pubblico è fonte di spreco, inefficienza, corruzione. La chiusura di ospedali, il licenziamento di funzionari pubblici, la decurtazione di fondi per la ricerca, la soppressione o l’accorpamento di Enti considerati inutili, la riduzione del numero di Province asseconda appunto il progetto dichiarato di riduzione degli sprechi. Il fine dichiarato è rendere la pubblica amministrazione più efficiente: il risultato consiste nell’ulteriore drammatica manovra di contrazione della spesa pubblica, con inevitabile aumento della disoccupazione e minore quantità (e qualità) di beni e servizi offerti dallo Stato, ovvero riduzione del potere d’acquisto delle famiglie. Si calcola che le misure adottate generano un effetto di decurtazione della spesa pari a 4,5 miliardi di euro per 2012, 10,5 miliardi per il 2013 e 11 miliardi per il 2014, con particolare riguardo ai tagli dei servizi sanitari (circa 13 miliardi di euro). Il tutto senza ridurre l’aumento dell’IVA, che verrà posticipato e che ammonterà a circa 4 miliardi di euro, in una condizione nella quale – in assenza di queste misure – il tasso di crescita previsto per il 2013 era di segno negativo, nell’ordine del meno 2-2.5%. Giorgio Squinzi, Presidente di Confindustria, ha definito questa manovra macelleria sociale. Difficile dargli torto. Va rilevato che il provvedimento di revisione di spesa parte da un assunto falso, ovvero che, nell’ultimo trentennio, la spesa pubblica in Italia sia sempre aumentata. Su fonte Banca d’Italia, si rileva, per contro, che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000 miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal 51,7% al 50,8% del PIL nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione dell’incidenza della spesa sul PIL, che raggiunge il 49,2%. Interessante osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al PIL sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su PIL, in Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania. Il documento ministeriale imputa l’aumento della spesa pubblica nell’ultimo trentennio unicamente a una sua gestione inefficiente (p.e. la duplicazione delle funzioni a livello centrale e locale). Anche in questo caso, ci si trova di fronte a una tesi opinabile, per due ragioni. • 1. Senza negare che sprechi e inefficienze ci sono (e ci sono stati) nella gestione della cosa pubblica, occorre considerare che l’aumento della spesa pubblica, nel periodo considerato dal documento ministeriale, è stato essenzialmente finalizzato all’ampliamento delle funzioni dello Stato sociale (come del resto è accaduto nella gran parte dei Paesi OCSE, in quel periodo) che, a sua volta, si è reso necessario per venire incontro alla crescente domanda di giustizia distributiva in una fase storica caratterizzata da un elevato potere contrattuale dei lavoratori e delle loro rappresentanze nell’arena politica. Appare, dunque, a dir poco riduttivo ritenere – come fa il Governo – che la spesa pubblica è aumentata perché è stata gestita male. • 2. Non è chiaro perché la revisione di spesa venga effettuata a partire dall’andamento dei valori assoluti della spesa pubblica. L’andamento del valore assoluto della spesa pubblica non tiene conto delle variazioni del tasso di inflazione, così che non si hanno informazioni relative al suo andamento in termini reali. In ogni caso, anche assumendo l’ipotesi governativa, si rileva – su fonte Bundesbank – che, con la sola eccezione del 2004 e del 2011, la spesa pubblica in valore assoluto in Germania è costantemente aumentata. Può essere sufficiente rilevare che, nel triennio 2008-2010, la spesa pubblica in Germania è aumentata, nel 2008, del 3,16%, del 4,66% nel 2009 e del 3,8% nel 2010, e ben oltre il tasso d’inflazione, quindi anche in termini reali. L’aumento è imputabile essenzialmente alla crescita degli investimenti pubblici, dei salari dei dipendenti pubblici e della spesa per il pagamento degli ammortizzatori sociali. 
La spesa pubblica è davvero così mal gestita e pesante, nel nostro Paese? 
Ovviamente in alcuni casi lo è, e lo è soprattutto nelle aree nelle quali è alto il tasso di disoccupazione, dal momento che lì la Pubblica Amministrazione svolge la funzione (impropria) di datore di lavoro di ultima istanza. Se si pone la questione in questi termini, occorrerebbe creare semmai le condizioni per un aumento dell’occupazione per rendere meno frequenti i casi di corruzione e cattiva gestione della cosa pubblica. 
Si tratta di misure che impatteranno sulla qualità del welfare, o ne avremo un beneficio in termini di risparmio e razionalizzazione? In quale rapporto sta questa manovra con la riforma dell’articolo 81 della C.I., con cui è stato inserito in Costituzione l‘obbligo del pareggio di bilancio? 
Non vedo alcun vantaggio. Si tratta, come nel caso dell’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione, dell’accelerazione di politiche di austerità il cui unico effetto è recessivo. In più, le politiche di austerità (aumento dell’imposizione fiscale e riduzione della spesa pubblica) sono del tutto inefficaci per l’obiettivo che si propongono – ovvero ridurre il rapporto debito pubblico/ PIL. Ciò per le seguenti ragioni: • 1.La riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della pressione fiscale) riduce l’occupazione e dunque la produzione, con il risultato che, sotto date condizioni, il rapporto debito/PIL può semmai aumentare; • 2. La riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della pressione fiscale), riducendo l’occupazione, riduce la base imponibile e, dunque, anche per questa via, può accrescere il rapporto debito pubblico/PIL; • 3 La riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della pressione fiscale) riduce i mercati di sbocco a danno soprattutto delle imprese che operano su mercati locali, riducendone i profitti (o determinandone il fallimento) con ricadute negative su occupazione e PIL. Anche per questo meccanismo, quanto meno si spende (e quanto più si tassa) tanto più ci si indebita e tanto più si riduce la crescita. 
Perché – e lo si vede anche dai sondaggi – l’opinione corrente maggioritaria è che la spesa, l’amministrazione e il lavoro pubblico siano fonti di inefficienza? 
Non c’è dubbio che zone di inefficienza esistono, e – nella quotidianità – si sperimentano spesso. Ovviamente l’opinione corrente può essere largamente influenzata dalla propaganda dominante, ma va sottolineato che l’intervento dello Stato in economia è ciò che ha permesso la costituzione di un sistema di Welfare che oggi si intende smantellare. La sola possibile alternativa, perseguita da questo Governo, consiste nel privatizzare anche i servizi pubblici essenziali (sanità e istruzione, in primis). L’esperienza storica recente dimostra in modo inequivocabile che laddove si privatizza la qualità del servizio non sempre migliora, mentre l’unico effetto certo riguarda l’aumento dei prezzi.

Che fine sta facendo il “contratto sociale”?



Verrebbe da chiedersi: ma perché si è cittadini? A scuola ci parlavano del contratto sociale. Per far parte di uno Stato, ognuno di noi deve sottostare ad alcune regole: per esempio, pagare le tasse, osservare le prescrizioni del codice penale, del codice civile, e così via. In cambio, il cittadino sa che la sua sicurezza è tutelata, che i figli potranno andare a scuola, che verrà curato se si ammala, che riceverà una pensione al termine della sua vita lavorativa, eccetera. Perlomeno, queste erano certezze fino a poco tempo fa. Mi sembra che questo sistema di certezze si stia sgretolando, e forse sta qui la radice della grande paura che si sente crescere intorno. Altro che lo spread, ci pare di capire. Qui, se le compatibilità di bilancio non ci sono, tagliano la possibilità che tuo figlio possa frequentare l’università e che tu venga curato. Hai lavorato una vita, ti propongono l’”esodo”, poi scopri che non ci sono soldi per la pensione e così non hai né quella né il lavoro. O comunque non si hanno più certezze su quando potrai andare in pensione. Ma il patto, il contratto, dove sono finiti? Lo Stato non sta più onorando i suoi impegni nei confronti dei cittadini? Chi ha pagato le tasse, ha lavorato, si è comportato bene, quindi ha onorato le clausole contrattuali, pretende, giustamente, che vengano rispettati anche gli obblighi contratti dall’altra parte. Del resto lo stesso Mario Monti evoca il contratto sociale, quando dice che l’evasione fiscale è una grave violazione del patto tra Stato e cittadini. Sicuramente ha ragione. Ma allora, cosa dovrebbero dire i cittadini? Quando lo Stato non rispetta i patti, a quale giudice dovrebbero appellarsi? E’ a questo punto che la Politica con la P maiuscola dovrebbe, attraverso i partiti, farsi interprete… Per adesso, attendiamo fiduciosi.
Daniele Tamburini

sabato, luglio 07, 2012

Ma che colpa abbiamo noi?


Sapete una cosa? A me, come cittadino, questa continua chiamata in causa per condividere le colpe e le responsabilità' della crisi è venuta a noia. E' un coro di voci del tipo: siamo tutti responsabili, quindi tutti dobbiamo fare sacrifici. Ci ricordano continuamente che i conti dello Stato sono in dissesto per colpa della cattiva gestione della cosa pubblica, protrattasi per tanti anni. Sarà mica colpa mia? Sembrerebbe di sì, visto che anch’io, come quasi tutti gli italiani, sono chiamato a risponderne. Aumento delle tasse, aumento delle tariffe, età pensionabile che si eleva, minori servizi… Il fatto è che, quando la colpa è di tutti, non è poi di nessuno. Scrive il professor Giacomo Vaciago, nell'intervista che pubblichiamo su questo numero: “In Italia stiamo pagando il costo dei tanti errori commessi”. Nella vita ho certamente commesso tanti errori, ma non tali, credo, da aver procurato questo sfascio nello Stato. Pertanto, fuori i colpevoli, ma che siano i colpevoli veri, e comincino a pagare anche i responsabili del dissesto. Nel decreto sulla spending review ho visto un accanimento contro i dipendenti pubblici, quasi a rispondere a un diffuso sentimento, presente nell’immaginario collettivo, di rifiuto di tutto ciò che è pubblico, frutto di anni di campagne mediatiche superficiali e qualunquiste. Ma non ho visto gli annunciati tagli agli armamenti. Vorrà dire che saremo anche un paese con le pezze al culo, ma armato fino ai denti. Evviva.

Daniele Tamburini

sabato, giugno 30, 2012

Avulsi dalla realtà

L’Italia batte la Germania, almeno sul campo di calcio, e che gran bel calcio: una lezione. È presto per commentare gli esiti del vertice europeo in corso, ma sappiamo che la partita, lì, è dura, più che a Varsavia. Intanto, nonostante la cancelliera tedesca avesse detto che non le piaceva proprio il piano antispread di Monti, sembra ci sia stato accordo sull’individuazione delle misure per salvare l’euro. Vedremo. Qualcuno (Guido Gentili) ha detto che l’Italia, così come si è presentata a Bruxelles, è un Paese con il fiato grosso che cammina sull’orlo del precipizio. Lo sanno i commentatori, i giornalisti, gli analisti. Lo sa Monti. Lo sa, anche troppo bene, la gente comune. Lo sanno tutti? No. I politici, no; o almeno, questo appare dalle dichiarazioni che continuano a rilasciare. Roba da non credere. Prima l’uscita di Berlusconi: “pronto a fare il ministro dell’economia (sic) in un governo Alfano” (poi, come da copione, ha fatto marcia indietro, ma il danno ormai era fatto … ed è costato 16 punti di spread). Poi fanno intendere di voler andare al voto anticipato: sarebbe un disastro. Da ultimo Cicchitto, e qui siamo sul surreale, che sbraita: “Non toccate le nostre ferie, se ci toccate Agosto sarà crisi”. Una frase la sua che, se mai ce ne fosse stato bisogno, ha fatto imbufalire milioni di persone. La maggioranza dei politici sembra essere distaccata dalla realtà, lontana dai problemi della gente, ai cui la politica non dà risposte. Il loro teatrino sembra, a volte, rasentare la schizofrenia, non si rendono conto di quanto sta accadendo. Ormai da tutte le parti, è un coro, un boato, una marea che monta: di questa politica, di questi politici non ne possiamo più. Si gingillano con percentuali elettorali, calcolate però su chi vota. Nei sondaggi, ad esempio, il Pdl è dato al 17% dei votanti, ossia di circa il 62%; ma più propriamente questo 17% corrisponde a poco più del 10% degli aventi diritto al voto. Cari signori, se non vi svegliate, se non vi date una mossa, Grillo vi sommergerà. Grillo porterà a votare i delusi, gli arrabbiati, … tutti coloro che vorrebbero fare piazza pulita, nel bene e nel male. Altro che alchimie, altro che alleanze, altro che giochini di potere. E magari ci governerà, a furor di popolo, chi è pieno di buona volontà, ma che è senza esperienza, senza idea di come muoversi, orientarsi, comportarsi. Quando, oggi più che mai, c’è bisogno di persone preparate, competenti. Abbiamo visto le fatiche di Pizzarotti a Parma nel comporre la giunta. Eppure, i Berlusconi i Cicchitto i Maroni i Bersani i Casini dichiarano, e poi ancora dichiarano, e magari dichiarano... Un Paese in affanno sull’orlo del precipizio? Non lo so, ma certi politici sembrano danzare sulla tolda del Titanic, mentre la nave affonda.
Daniele Tamburini

sabato, giugno 23, 2012

Dateci almeno un senso di futuro



Sono tempi strani. Si dice che il premier Monti debba presentarsi, al vertice europeo del prossimo 28 giugno, con "qualcosa" in mano: riforma del lavoro, spending review etc. Ammettiamolo: c’è qualcosa di un po' surreale nell'immaginare l'austero ex rettore della Bocconi nei panni di uno studente con il compito fatto. Intanto, le notizie sicuramente positive del decreto sviluppo rischiano di essere sovrastate dal continuo senso di allarme in cui viviamo. Tante uscite estemporanee (la riduzione delle ferie? La mobilità per gli statali ultrasessantenni? Il moltiplicarsi, ahimè non dei pani e dei pesci, che aiuterebbe molti, di questi tempi, ma degli esodati?). Si apre il giornale e non si sa cosa aspettarsi. Invece la gente avrebbe bisogno di sperare in qualcosa, di vedere una luce in fondo al vicolo scuro e accidentato che percorriamo; avrebbe bisogno di essere certa che sta facendo sacrifici per il proprio futuro e per quello dei figli, invece che per combattere lo spread. Ma che spread d'Egitto, avrebbe detto Totò... Intanto, Monti potrebbe chiedere l'allentamento del patto di stabilità: 13 città metropolitane italiane potrebbero rimettere in circolo fondi per circa un miliardo di euro, che hanno lì, congelati, e che non possono spendere, fino a giungere a triplicarli, se potessero usare le giacenze di cassa. Sarebbe una bella boccata di ossigeno, lavoro, pagamenti, manutenzioni... insomma, un senso di futuro. Andremo in pensione più tardi, abbiamo pagato l’Imu, pagheremo sempre di più i servizi sociali, stiamo facendo rinunce... Io credo che sia giunto il tempo di cominciare a pretendere, almeno questo: appunto, il senso di futuro.
Daniele Tamburini

sabato, giugno 02, 2012

Diteci come stanno realmente le cose, perché stiamo diventando nervosi



Non ditemi che si tratta di un problema di linguaggio. Primo, le parole sono importanti; secondo, attraverso il linguaggio, per fare un esempio, si educa. C’è poco di educativo nel dire che il calcioscommesse è opera di 40-50 “sfigatelli”. Prandelli lo avrà detto con tutte le migliori intenzioni del mondo, ma le parole, appunto, sono importanti. E Buffon che si indigna? Io, quando la Nazionale giocava e si comportava bene, ero orgoglioso del mio Paese. Ne sono sempre orgoglioso, nonostante tutto. Certo non di quel che esprime il suo calcio. Non lo sono neppure granché del fatto che alcuni velivoli della nostra aeronautica militare verranno presto armati con missili e bombe a guida satellitare. Pare che siamo l’unico alleato ad aver ricevuto da Washington i cosiddetti “droni” e i relativi armamenti. Non so: che costi comporterà, tutto questo? Ma non dovevamo lavorare alla “spending review”? E le spese militari, non sono spesa pubblica? Sarà un mio limite, ma no, non ne sono orgoglioso. Lo sono, quando vedo il coraggio, la dignità, il senso del lavoro e dell’impegno ostinato e tenace delle popolazioni dell’Emilia, che lo dimostrano anche sotto le macerie. Quando vedo la catena di solidarietà e di reciproco aiuto che si è messa in moto. Voglio solo sperare che non ci siano telefonate dove qualcuno ride, pregustando affari futuri, e che non finisca come a L’Aquila: dice che anche il premier sia preoccupato del precedente abruzzese. A proposito: e Monti? Lo spread è a 460: ciò che è stato fatto finora non è servito a niente? L’allarme nazionale non c’è più? Allora, fatemi capire: dove sta la verità? In mano a chi siamo, veramente? Delle banche e della finanza non parla più nessuno: si sono tutti redenti? L’INPS chiude il 2011 con un attivo di 831 milioni di euro: ma come? Sembrava non ci fossero più soldi per le pensioni. Ci vorrebbe gente seria e che dica la verità.

Daniele Tamburini

sabato, maggio 19, 2012

Una maschera per ogni occasione


Mi dicono persone che sono state recentemente in Grecia: “E’ una specie di incubo. Il centro di Atene è quasi spettrale, la povertà è palpabile”. La minaccia Grecia continua ad essere agitata anche davanti a noi italiani, che siamo ancora e comunque vulnerabili, insieme alla Spagna. Oggi vorrei scrivere quasi soltanto domande. Lo spread è risalito, ma l'allarme che crea, mi pare, è più contenuto rispetto a qualche mese fa: perché? Abbiamo sopportato e stiamo sopportando sacrifici enormi. A causa dell'emergenza finanziaria? A causa di problemi strutturali dell'economia? Per tutti e due gli aspetti? Vado avanti: per il primo, il nuovo presidente della Consob Giuseppe Vegas, vice ministro all’economia nel governo Berlusconi, tuona contro lo strapotere della finanza. C’è da trasecolare: dov'era, finora? L'ABI, invece, tuona anch'essa, ma contro il declassamento delle banche italiane. Perfetto, ma perché tuonano solo ora? Finché la finanza ha fatto comodo e ha fatto salire i profitti, andava tutto bene: è questa la verità? Finche' la Grecia era un bersaglio della speculazione a vantaggio di molti, l'Europa ha fatto molto poco. Ora ha paura. Ho letto che il ritorno alla dracma ridurrebbe alla fame chi ancora, là, riesce a galleggiare. Ma questo interessa poco: ora sono preoccupati e fanno la faccia seria gli allegri compari di qualche tempo fa. In Italia, in Grecia, in Europa. Molti di coloro che parlano hanno davvero tante maschere a disposizione: al momento buono, ne tirano fuori una. Tanti Soloni in maschera. Sarà per quello che la gente si è affidata ad un comico che adesso ha la faccia seria? E spera che non abbia figli bisognosi di "paghette" di 5000 euro mensili? Speriamo di non dover dire: e la farsa continua...

Intervista al professor Angelo Baglioni (Lavoceinfo) "Se la Grecia esce dall’euro si rischia l’effetto contagio"


Sembra che non se ne possa uscire. Gli italiani stanno facendo - stiamo facendo - sacrifici enormi, per qualcuno insopportabili, ma ci sono eventi, apparentemente incontrollabili, che stanno alimentando nuova speculazione. Lo spread torna a crescere, con effetti molto negativi sul debito pubblico. Sembra non esserci via di uscita. Colpa solo dell'ingovernabilità della Grecia? Lo abbiamo chiesto ad Angelo Baglioni, docente di economia politica all'Università Cattolica di Milano. 
Professor Baglioni, le Borse perdono, lo spread è di nuovo stabile sopra i 400 punti: i sacrifici chiesti agli italiani sono quindi inefficaci? 
«I sacrifici che sono stati richiesti dal Governo attraverso il Decreto "Salva- Italia" erano necessari per fare uscire il nostro Paese da una situazione pericolosa come quella che si era venuta a creare. Non avremmo potuto fare altrimenti. Bisogna poi valutare il fatto che la crisi greca potrebbe precipitare, comportandone l'uscita dall'area euro. Ciò per l'Italia potrebbe avere un peso in termini di incremento dei tassi di interesse, per cui ci metterebbe nella condizione di non essere in grado di far fronte agli oneri. Questo ci porterebbe a dover rifare i nostri conti. Se si verificasse un effetto contagio, si dovranno mettere in campo misure correttive, oppure si dovrà prendere atto del fatto che non sarà possibile raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. 
Il problema è solo l'impossibilità di formare un nuovo governo in Grecia? 
«Il problema è, in primo luogo, proprio quello, ossia la frantumazione politica della Grecia, che sembra non permetterle di formare un nuovo governo. Ma se anche ci riuscisse, si dovrà poi vedere quale sarà l'atteggiamento dei nuovi eletti nei confronti degli accordi presi con l'Unione Europea nel Memorandum d'Intesa siglato alcuni mesi fa, in cui l'Europa si impegnava sì a sostenere il Paese ma a fronte di una richiesta di sacrifici e restrizioni. Se il nuovo governo dovesse rinnegare tale accordo, l'Europa potrebbe tenere ferma la sua posizione di rigore e portare la Grecia a uscire dall'area Euro. 
Ma cosa succederebbe all'Eurozona se la Grecia dovesse uscirne? 
 «Il rischio è l'effetto contagio. L'Unione Europea, infatti, è sempre stata fondata sull'irreversibilità: si può entrare, ma non è possibile uscirne. Si è scelto di proposito di menzionare la possibilità di uscita negli atti costitutivi dell'Unione monetaria europea, allo scopo di dare più forza e credibilità alla moneta unita. Se questo dovesse avvenire comunque, con l'allontanamento della Grecia, si romperebbe il presupposto dell'irreversibilità, e si verrebbe a creare un precedente, per il quale i mercati potrebbero aspettarsi l'uscita di altri paesi, come Italia, Spagna o Portogallo. Questo rischio comporterebbe un incremento delle richieste di compensazione economica nell'acquisto dei titoli di tali paesi: chi comprasse, quindi, titoli italiani (o di altri Paesi nella stessa situazione), privati o pubblici, potrà richiedere un tasso di interesse maggiorato. Una situazione simile potrebbe portare al dissolvimento dell'area Euro nel suo complesso, con il rischio di fare dei passi indietro nel processo di integrazione dell'Europa iniziato mezzo secolo fa, e che ha visto nella costituzione della moneta unica la sua tappa finale». 
Perché l'Europa non riesce a fare fronte alla speculazione dei mercati? 
«Perché non esiste una linea d'azione univoca da parte dell'Europa. La politica seguita dalla Merkel e da Sarkozy è stata molto incerta, e ha seguito male il problema della Grecia, che si trascina da due anni e mezzo senza una soluzione. E' mancata una strategia europea di lungo periodo, e si sono sempre cercate soluzioni dell'ultimo minuto, prese in base alle pressioni dei mercati. Questo non ha permesso ai mercati di capire con chiarezza in che direzione si stava andando, e ha impedito che si ancorassero delle aspettative. Oggi le cose sono ancora così: si fanno dichiarazioni ambigue, continuando a ondeggiare tra la solidarietà e la linea dura». 
Il cambiamento nell'asse politico tra Parigi e Berlino, con Hollande presidente, che effetti avrà? 
«Il fatto che ora sia Hollande a tenere le redini del Governo francese, accanto al fatto che l'Italia ha un nuovo Presidente del consiglio che in Europa ha più peso di quello precedente, può portare a un ammorbidimento della linea tedesca e all'affrontare con più forza i temi della crescita economica. Non si può pensare solo al rigore dei conti: la crescita dell'Europa è fondamentale per risolvere i nostri problemi». Hollande ha posto il tema degli Eurobond: lei che ne pensa? 
 «Ho una visione favorevole rispetto a questa proposta, di cui condivido la filosofia di fondo. Il fatto di avere una garanzia comune che consenta di ridurre lo spread per tutti i paesi, rendendo simile per tutti il costo del debito. Al momento, tuttavia, ritengo sia poco probabile che i tedeschi accettino una soluzione di questo tipo: per i paesi più forti, infatti, questo diverrebbe un costo implicito».

sabato, maggio 05, 2012

L'indignazione vi sommergerà



Adesso siamo al tecnico dei tecnici. Non è una battuta: il governo Monti ha affidato a Enrico Bondi, già commissario della Parmalat, il lavoro di revisione della spesa pubblica nel suo complesso, per eliminare gli sprechi. Uno bravo, non c'è che dire: ha risollevato l’azienda alimentare dopo il crack, senza licenziare un solo operaio. La promessa è di presentare una proposta già tra quindici giorni. Si parla, quindi, di ulteriori tagli alla spesa pubblica. Si parla di Regioni, Province, Comuni: ma c’è ancora da tagliare? E siamo sicuri che si debba tagliare proprio qui? Intanto, il Parlamento è escluso. Complice una classe politica che è incapace di riformare e di riformarsi, siamo arrivati al punto, o, almeno, a uno dei punti. Non nasce dal nulla la crisi, che continua a colpire durissimo, ma neppure lo stato così dissestato delle nostre finanze. Monti ha indicato esplicitamente due aspetti della colpevole miopia governativa del passato: l'abolizione dell'ICI sulla prima casa (noi lo scrivemmo subito che sarebbe stato un errore) e una insufficiente attenzione (per usare un eufemismo) al rigore fiscale. E' forse la prima volta che il premier parla esplicitamente di responsabilità passate, con tanto di nome e cognome. Cosa è cambiato? Ragioniamo: il premier viene accusato di avere acuito talmente la pressione fiscale complessiva da deprimere ogni possibilità di ripresa. Impoverimento oggettivo e mancanza di lavoro: un mix micidiale. Si dice: recupera le risorse nelle tasche dei soliti. Fa pagare l'IMU a chi possiede una casa acquistata con sacrifici, su cui magari paga il mutuo, e magari ha perso il lavoro o è in cassa integrazione. Invece di creare lavoro, studia misure per licenziare di più. Non è forse per caso che si è scatenata, sui giornali vicini a Berlusconi, una campagna di quotidiana demolizione: titoloni di prima pagina contro il governo Monti. Però, ricordiamoci una cosa: Monti aveva parlato, all'inizio, di patrimoniale. Fu stoppato immediatamente. Parlò di eliminare alcuni privilegi di alcune categorie professionali: i partiti, i gruppi di interesse, anche qui stoppato: le varie lobbies hanno limato, tolto, annacquato. Azzardo un’ipotesi di Monti-pensiero? Bene, dirà: il catalogo è questo. Mi avete condizionato, e anche minacciato . Devo recuperare risorse, questo è certo. Lo faccio fare da un esterno. Se voi partiti non siete capaci di accettare una riforma seria e seriamente complessiva, continuerò a cercarle presso chi non si può nascondere. Intanto, però, gli chiedo anche di segnalare gli sprechi che vede compiere: un segnale? Di certo, cresceranno lo smarrimento, l’impotenza, la depressione, l’impoverimento, ma anche la rabbia e l’indignazione. Avete visto i sondaggi, cari partiti? L’indignazione vi sommergerà. E non sarà un bel giorno, probabilmente, per nessuno. E se, davvero, stesse ragionando così?
Daniele Tamburini

venerdì, maggio 04, 2012

Lo sviluppo culturale strategia per la crescita


di Agostino Francesco Poli
Se mai qualcuno se ne fosse dimenticato, giova tornare a quella frase dell’allora ministro Giulio Tremonti: “di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina Commedia”. La frase venne stigmatizzata e assurse a simbolo della china precipitosamente discendente percorsa da una certa Italia: quell’arroganza affaristica che negava alla cultura non solo lo status di cibo fondamentale per l’animo delle persone e dei territori, ma anche una sottovalutazione miope e grevemente ignorante delle possibilità di sviluppo offerte dalla valorizzazione della cultura stessa. Eppure, per parafrasare una frase di Hugh Grant nel ruolo di un fascinoso primo ministro inglese (il film è “Love actually”), siamo la patria di Dante, Leonardo, Michelangelo e Vivaldi, di Pirandello e di Renzo Piano, di Rita Levi Montalcini e di Margherita Hack, della mano di Filippo Brunelleschi e del piede del “Mosè”, dei panorami struggenti, delle città d’arte tra le più straordinarie del mondo, delle biblioteche, delle pinacoteche, dei musei, degli archivi, dei siti archeologici di infinita, splendida, delirante bellezza. Mi fermo qui, perché la meraviglia e la cultura che hanno dimora nel nostro Paese sono, forse, senza pari. Certo non si fanno panini con i calcinacci di Pompei progressivamente sbriciolata e del centro storico de L’Aquila, ancora ridotto a macerie. Eppure, negli ultimi anni abbiamo assistito a enti culturali decapitati, fondi allo spettacolo decurtati, teatri e cinema sempre più chiusi. Occorrerebbe un volume intero (e qualcuno ne ha scritti) per documentare i veri e propri insulti di cui sono state oggetto, negli anni, la scuola e l‘università, il sistema dell’istruzione pubblica. Ho sempre pensato però che, al fondo dell’ignoranza, si celasse un progetto preciso. Lo ha scritto in un bell’articolo Andrea Cortellessa: l’”egemonia sottoculturale” di cui parla Massimiliano Panarari non può che essere funzionale a un progetto di dominio economico, sociale e, dunque, politico. È appena il caso di accennare al crescere del fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, su cui si è fermato più volte Tullio De Mauro. Ma forse, qualcosa si sta muovendo, e non solo a livello di ristrette élite intellettuali, quasi voces clamantes in deserto. È accaduto che, lo scorso 19 febbraio, “Il Sole 24 ORE” abbia pubblicato, nel suo inserto domenicale, sempre di grande qualità, il “Manifesto per la cultura”, intitolato “Niente cultura, niente sviluppo”. Vi si legge che “la cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo”. Altri assunti: l’Italia, e in grande misura l’intera Europa, devono oggi fronteggiare una sfida non semplice, ritrovare la via della crescita. È una opinione ancora minoritaria, ma sempre più diffusa, che la cultura debba far parte in modo importante del nuovo scenario. Lo sviluppo culturale è strategico non solo per l'Italia, ma per l'intera Europa: numerosi studi dimostrano come il sistema della produzione culturale e creativa sia anche uno dei più grandi settori, superiore per fatturato ai principali comparti del manifatturiero e alla maggior parte dei comparti del terziario avanzato. Ci sono cinque punti fermi: una Costituente per la cultura; strategie di lungo periodo; cooperazione tra ministeri; l’arte a scuola e la cultura scientifica; merito, complementarietà pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale. Il successo è stato grande, e continua a crescere. Hanno aderito, tra i moltissimi, anche tre ministri, Passera, Profumo e Ornaghi; il commissario europeo all’istruzione e alla cultura Vassiliou e il ministro danese della cultura Elbaek. Tutto bene, quindi? Direi di sì, se questa attenzione, se non altro, servisse a rimettere al centro della scena la questione cultura, l’affaire cultura. Il nostro Paese ha una legge importante, su questa materia: è il Codice dei beni culturali e del paesaggio, decreto legislativo n. 42 del 2004. Vi si legge che “in attuazione dell'articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale” e che “la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura”. Cultura e memoria, in un binomio inscindibile. Senza memoria non potremmo capire il presente né, tanto meno, attrezzarci per vivere il futuro. Ma leggiamo anche l’articolo 9 della nostra Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Come dicevo, riportare all’attenzione pubblica, politica ed amministrativa questi assunti non può che essere positivo. C’è però da dire che, come ha ricordato Tomaso Montanari, la tesi di fondo portata avanti dal “Manifesto” non è nuova. Già nel 1985, Gianni De Michelis diceva: “le risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica”. Molto sintetico, molto chiaro. Ripeto, passare dall’idea che con la cultura non si fa un panino, a quella per cui è qualcosa che comunque “conviene” valorizzare, può forse renderci moderatamente ottimisti, o non totalmente pessimisti, sul presente e sul futuro dei nostri monumenti, dei nostri musei, dei teatri, delle biblioteche e degli archivi. Ma vorrei spendere poche parole, per ora, su un’altra esperienza culturale: quella del Teatro Valle occupato, a Roma. Si sta sviluppando l’idea di gestire il teatro attraverso lo strumento di una fondazione, il cui statuto non preveda il Consiglio di amministrazione, regoli le direzioni artistiche turnarie, premi la gestione partecipata del teatro e l’autogoverno dei lavoratori dello spettacolo. In prospettiva, si vuol “rovesciare l’idea che la misura dello spettacolo in Italia sia il biglietto”. Stefano Rodotà, che vi ha collaborato, ne scrive così: “Non siamo di fronte ad una questione marginale o settoriale, ma ad una diversa idea della politica e delle sue forme, capace non solo di dare voce alle persone, ma di costruire soggettività politiche, di redistribuire poteri. È un tema “costituzionale”, almeno per tutti quelli che, volgendo lo sguardo sul mondo, colgono l’insostenibilità crescente degli assetti ciecamente affidati alla legge “naturale” dei mercati”. Il tema è ricco e meritevole di approfondimenti, che non possiamo fare qui e ora. Ma io desidererei una realtà in cui non sia del tutto vero il vaticinio di Bernard Berenson, grande critico d’arte, che, nel 1941, prevedeva un mondo “retto da biologi ed economisti, dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico”. La bellezza e la cultura devono stare anche nell’esperienza gratuita del mondo, o non sono. Ne riparleremo.

«E’ una crisi studiata a tavolino» Intervista al professor Bruno Amoroso


La dinamica della crisi che affonda le radici in scelte precise, dettate dai colossi della finanza; la trasformazione del sistema bancario, con la scissione tra la banca di risparmio e quella di investimento; la speculazione sui titoli dei singoli Stati dell'area euro; i rischi del populismo in politica; i rischi dell’obbligo di pareggio nei bilanci pubblici. Temi importanti: per parlarne, l’appuntamento è a Cremona, presso Palazzo Cattaneo, venerdì 4 maggio alle 18, in un incontro promosso dal circolo culturale AmbienteScienze. con la partecipazione del professor Bruno Amoroso, docente emerito di economia internazionale dell'Università di Roskilde (Danimarca) e allievo del grande economista Federico Caffè. Prendendo spunto dal fenomeno "Occupiamo Wall Street", un movimento di protesta, nato negli Usa e poi diffusosi anche in Europa, teso a contrastare lo strapotere del capitale finanziario e l’azione delle banche, il docente farà il punto sulla situazione politica ed economica internazionale, sostenendo una tesi interessante ad allarmante: non si tratta di una “tradizionale” crisi del capitalismo, ma un percorso studiato a tavolino. Ne abbiamo parlato con lo stesso professor Amoroso. 
Per quale motivo ha deciso di concentrarsi sul fenomeno “Occupiamo Wall Street? 
«Perché questo tema mette al centro dell’attenzione due fatti sostanzialmente nuovi. Da un lato la specificità di questa crisi, che viene definita come finanziaria ma che in realtà è molto di più; dall’altro, perché “Occupy Wall Street” è una reazione piuttosto originale e inedita al fenomeno della crisi. La tradizionale protesta sociale che viene normalmente rivolta alla politica o al capitalismo, questa volta viene indirizzata nei confronti della finanza, rompendo gli schemi e uscendo dall’involucro del mero dibattito politico. Anche gli attori della protesta sono cambiati; non si tratta più, infatti, di gruppi politici o sociali organizzati: ora a scendere in piazza sono i veri danneggiati dalla crisi, coloro che hanno perso il lavoro, o che si trovano in difficoltà economiche, i quali hanno indirizzato la loro protesta contro quei gruppi di potere che finora si erano nascosti all’ombra dei tecnicismi monetari e dell’autonomia delle istituzioni bancarie e finanziarie. Un movimento che dall’America è giunto anche in Europa e in Italia, due anni dopo, quando abbiamo visto dapprima una protesta degli studenti, e dopo una mobilitazione dei giovani italiani di fronte alla Banca d’Italia; per la prima volta, dunque, i giovani hanno rivolto le loro rimostranze a un soggetto che è il vero centro del potere, dimostrando di riconoscere chi sono i reali fautori della crisi». 
Lei ha accennato al fatto che stiamo vivendo molto più di una crisi finanziaria. Cosa intende? 
«Molti sono convinti che questa fase sia riconducibile alle tradizionali crisi del capitalismo. In realtà ci troviamo di fronte a un vero e proprio percorso organizzato e studiato a tavolino. Questa crisi non rappresenta un fallimento, quindi, ma il successo di chi ha voluto pianificare tale azione, e che ora si trova al potere. Sto parlando dei colossi della finanza. Basta analizzare quanto è accaduto dapprima negli Usa e poi in Europa, per comprendere queste dinamiche: negli Stati Uniti tutto ha preso il via tra gli anni ‘80 e ’90, quando si è voluto trasformare un sistema bancario che all’epoca era basato su regole molto oculate e dotato di vincoli ben precisi sugli investimenti a rischio, che impedivano alle banche di speculare con i fondi dei risparmiatori; ciò è cambiato con la scissione tra la banca di risparmio e quella di investimento. Nel decennio successivo, con Clinton e Bush, si è consentito alle banche di investire in operazioni finanziarie rischiose. Da noi lo stesso percorso è avvenuto qualche anno dopo, a partire dagli anni ’90, con la privatizzazione del sistema bancario italiano: sono quindi spariti i piccoli istituti di credito, sostituiti da grandi gruppi bancari di investimento, che hanno messo in circolo in Italia i titoli spazzatura provenienti dagli Stati Uniti. Da qui il passo verso tracolli e crack finanziari è stato breve. La crisi che stiamo vivendo discende da tutto questo». 
In uno scenario come quello che ha descritto, cosa può accadere all’Europa? 
«Facciamo un passo indietro, a quando fu introdotto l’euro per sopperire alla debolezza delle monete nazionali dei singoli stati europei. Di fatto non tutti i paesi hanno aderito alla moneta unica, così ci troviamo di fronte alla presenza di 11 diverse valute, con il risultato che nel mirino della speculazione non sono finite le monete degli Stati piccoli, ma le debolezze dei titoli dei singoli Stati dell'area Euro i quali, pur essendo espressi nella stessa moneta, vengono valutati diversamente nei mercati finanziari. A peggiorare le cose ci sono le politiche che l'Unione sta portando avanti; emblematico è il caso del pareggio di bilancio: notoriamente per uscire da una crisi di dovrebbe aumentare il debito pubblico, dando così soldi alle imprese e alle famiglie, invece chiedendo il pareggio si fa esattamente il contrario. Inoltre sono convinto sia assurdo pretendere che il bilancio del settore pubblico sia in pareggio, in quanto esso viene comunque controbilanciato dal risparmio privato. Dunque sarebbe corretto chiedere il pareggio del bilancio dell'economia nazionale, che comprende pubblico e privato. Intanto oggi nei posti di potere abbiamo proprio coloro che sono i primi responsabili della crisi. Basti vedere quanto peso hanno assunto le agenzie di rating, i cui pareri vengono accettati a occhi chiusi anche se in realtà esse sono parte integrante del sistema finanziario speculativo che dovrebbero controllare. I sistemi finanziari hanno costruito legami che impediscono ogni forma di competizione interna e hanno anche il pieno controllo dei sistemi monetari (dollaro, sterlina e euro) come dimostra la loro presenza nei posti chiave del governo dell'economia e della moneta sia negli Stati Uniti sia in Europa». 
Cosa stiamo rischiando? 
«Molti pensano di essere già arrivati all'apice della crisi, ma in realtà gli effetti più devastanti, dal punto di vista sociale ed economico, si presenteranno tra il 2012 e il 2013, come conseguenza delle politiche restrittive che l'Europa ha imposto agli Stati membri. Ciò si andrà a sommare ai problemi già esistenti di perdita di lavoro e di reddito, con ripercussioni e conseguenze pesantissime. Avremo infatti due forme diverse di reazione. Da un lato quella degli strati più bassi della popolazione, che reagiscono cercando di riorganizzarsi, incrementando il lavoro sommerso e spesso cadendo nella microcriminalità. Dall'altro lato avremo invece la reazione più "pericolosa", quella del ceto medio. Il sistema di welfare italiano, infatti, è incentrato sulla famiglia e sul sostegno ai figli da parte dei genitori. Dunque chi arriva ad avere magari due o tre appartamenti a sessant’anni non è in realtà un ricco, ma una persona che ha lavorato una vita risparmiando per poter dare una casa ai figli. Le misure del governo Monti, in questo senso, toccano il cuore del sistema familiare italiano, mettendo in discussione i rapporti intergenerazionali. Questo sta scatenando una reazione contro i gruppi sociali più poveri e in difficoltà, come quello degli immigrati. Anche le maxi operazioni che si stanno portando avanti contro l'evasione fiscale rischiano di essere dannose: si colpiscono infatti i piccoli commercianti, che se lavorano in nero lo fanno solo per sopravvivere, mentre nessuno tocca chi ha procurato l'illecito nelle grandi speculazioni, come ad esempio il sistema bancario. Si sta concentrando la rabbia su chi comunque non potrà mai risolvere il problema economico del paese, e in questo modo si fomenta una reazione del ceto medio contro quello povero, fino a cadere in una vera e propria "guerra tra poveri". Conseguenza di ciò sarà un imbarbarimento della politica, che sta scadendo nel populismo. L'avvento del fascismo, negli anni '30, fu generato proprio da uno stato di cose simile: una situazione di disordine sociale che il re volle placare mettendo Mussolini al potere».
«La soluzione? Non tanto il superamento del sistema monetario dell’euro, ma la divisione dell’Eurozona in due parti, con rapporti di cambio concordati e meccanismi di solidarietà»




«Le proposte critiche si sono orientate in due direzioni principali. Gli economisti keynesiani propongono il superamento del sistema monetario dell'euro, che diventa un ostacolo per la ripresa economica. Il precedente sistema monetario europeo era basato sulle valute nazionali, con un sistema di fasce di cambi pre-concordati che consentivano una certa flessibilità e che hanno funzionato per 20 anni. L'euro ha sostituito la cooperazione tra monete nazionali, ma ha avuto l'effetto di dividere l'Europa. Basandosi su queste riflessioni, i keynesiani propongono di ristabilire le condizioni pre-euro. Inoltre si propone un fondo di solidarietà al quale dovrebbero concorrere sia i paesi con un eccesso di surplus sia quelli con un eccesso di deficit nella bilancia dei pagamenti. Il fondo dovrebbe aiutare in modo mirato i paesi in difficoltà. Si tratta di una proposta di buon senso, ma ha una debolezza: presuppone l'esistenza di governi nazionali autonomi, che invece in Europa non esistono più, in quanto tutti sono occupati dal sistema delle banche. La mia proposta è invece quella di tentare di risolvere i problemi prodotti dall'euro dentro questo sistema. I problemi nascono da una divisione tra i paesi dell’area tedesca e quelli dell’Europa del sud. Per questo è ipotizzabile una divisione dell'euro in due zone, con rapporti di cambio concordati e meccanismi di solidarietà. La divisione della zona euro costringerebbe i governi e i movimenti politici dell’Europa del sud a riprendere una propria iniziativa più aderente alla realtà dei propri sistemi produttivi e sociali e consentirebbe uno spazio d’intervento ai movimenti sociali, politici e sindacali di questi Paesi. In secondo luogo, si riaprirebbe un processo di rifondazione dell'assetto istituzionale europeo, nella direzione di una struttura federale europea costruita non su singoli Stati e Paesi, ma su aree mesoregionali omogenee. Questo è quanto di fatto già avviene nell'area dei paesi baltici e dell'Europa centrale. Ricordo che, ad esempio,nel '700 esisteva una "moneta latina", che veniva identificata con il franco. Tale sistema venne sciolto dopo alcuni anni, ma ancora oggi esistono il franco svizzero, quello francese, quello belga, e così via. Un fenomeno simile accadde nei paesi scandinavi, con la corona. Lo stesso dovrebbe accadere con l'euro, nel momento in cui non ha più la funzione di unire”.



sabato, aprile 28, 2012

Intervista al professor Alessandro Volpi: "I partiti devono rilegittimare la propria funzione" Serve un profondo bagno di umiltà



di Daniele Tamburini 
I partiti non sono un optional. Sono previsti esplicitamente dalla Costituzione, all’art. 49 («Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere in modo democratico a determinare la politica nazionale»). Il nostro ordinamento, quindi, li riconosce quali strumenti fondamentali della progettazione e della gestione della cosa pubblica. Furono protagonisti della lotta al fascismo, della Resistenza e della Costituzione, della rinascita del nostro Paese. Sono stati luoghi di formazione, di acculturazione, di partecipazione per i cittadini. Ma sono stati, e sono, soggetti travolti da avvenimenti di portata epocale (i partiti della Prima Repubblica finirono a causa di Tangentopoli, ma anche e soprattutto perché la caduta del Muro di Berlino e dei regimi dell’Est cambiò in profondità il quadro politico, istituzionale e anche culturale in cui si erano sviluppati, dopo la Resistenza e la Carta costituzionale), oltre al vulnus provocato, in troppe occasioni, dall’occupazione della cosa pubblica, dagli scandali, dai finanziamenti illeciti o dall’illecito o improprio uso dei finanziamenti pubblici. Gli ultimi scandali, in ordine di tempo (quelli che hanno coinvolto l’amministratore della ex Margherita e la Lega), hanno sollevato una grande indignazione, complici la crisi economica e l’impoverimento generale, e hanno riportato in evidenza la questione del denaro pubblico ai partiti, ora erogato sotto forma di rimborso, dopo che un referendum, nel 1993, aveva sancito l’abrogazione del contributo statale al finanziamento dei partiti stessi, con più del 90% dei voti. Ma è giusto che i partiti godano comunque di finanziamento pubblico? E quali dovrebbero essere le norme di garanzia e trasparenza, per impedire gli scandali? Ne abbiamo parlato con il professor Alessandro Volpi, docente di storia contemporanea e geografia politica ed economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Pisa. 

Professore, una domanda diretta: lei pensa che i partiti debbano godere o meno di una forma di sostegno pubblico? 
«Il finanziamento pubblico ai partiti è riconducibile ad un'idea di organizzazione partitica "pesante", dotata di un gran numero di funzionari, di sedi, che produceva iniziative politiche e sosteneva campagne elettorali con mezzi di comunicazione tradizionali e molto costosi. Ora questo quadro in gran parte non esiste più, come del resto testimoniano le valutazione stesse delle spese sostenute dai partiti; si tratta di realtà molto più snelle, che hanno minore bisogno di risorse e che quindi sono di fatto sovra finanziate rispetto alle loro esigenze reali. Peraltro, alcune delle formazioni partitiche che hanno rappresentanti eletti nelle amministrazioni locali e in Parlamento hanno scelto di chiedere a tali eletti un contributo finanziario. Dunque il problema si porrebbe per le formazioni che non hanno eletti. Il tema centrale, è evidente, è quello della quantità dei finanziamenti che non possono certo più essere misurati in centinaia di milioni di euro perché la natura stessa dei partiti non ha bisogno di tali cifre». 
Chi sostiene il “no” ai fondi pubblici pensa ad un modello di tipo statunitense, con contribuzioni private. Dall’altra parte, si dice che, così, potrebbero vivere solo i partiti che alle spalle hanno o grandi patrimoni o una grande platea di sostenitori … 
«Penso che il modello del finanziamento pubblico debba essere drasticamente ridotto nel suo ammontare e debba essere sopposto ad una trasparenza più concreta, soprattutto attraverso bilanci chiaramente leggibili nelle diverse voci, finalmente declinate in maniera pienamente comprensibile e debbano essere rigorosamente pubblicati. E' importante poi che vengano smontate le strutture barocche attraverso cui rimangono in vita partiti defunti e serve un maggior controllo, una governance diversa rispetto al ruolo troppo "monocratico" del tesoriere. Queste regole debbono valere, in maniera ancora più stringente, per i contributi da parte dei privati che devono essere assolutamente visibili, magari utilizzando percorsi come quelli del 5 per mille, con dei limiti, anche dimensionali assolutamente stringenti». 
Secondo lei, è possibile ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e partiti? Su quali basi? Con quali regole? 
«Penso sia indispensabile uno sforzo, da parte dei partiti stessi, di rilegittimazione della propria funzione: la dichiarazione secondo cui i partiti sono indispensabile per la democrazia non può più essere considerato un assunto della scienza politica. Occorre che questa rilegittimazione della loro sostanza e del loro ruolo passi attraverso un profondo bagno di umiltà che li porti ad aprirsi alle diverse forme della partecipazione politiche. Serve che accettino una ricostituzione dal basso, dal senso civico, dalle competenze e dalla responsabilità che esistono nei territori perché la dimensione locale è fondamentale per ricomporre il quadro generale. Pensare ipotesi verticistiche, di rifondazione dall'alto dei partiti, è assolutamente perdente e non farà che rafforzare l'antipolitica. Al contrario, partiti rifondati dal basso, con reti comunicative e partecipative, che sappiano solidificarsi graduatamente in strutture aperte e regolate può essere la strada per ridare fiato alla politica e risolvere almeno in parte l'esigenza del finanziamento perché "partiti volontari e orizzontali" costano certamente di meno».

martedì, aprile 24, 2012

Intervista al professor Paolo Pezzino: «La nostra Costituzione è nata dall’antifascismo e dalla Resistenza"

«La Resistenza: un’esperienza di massa, non di élites»


di Daniele Tamburini 
La Resistenza non deve essere ricordata in modo agiografico: fu un fatto grandioso e complesso, glorioso, doloroso, colmo di eroismi e anche di errori. E' indubbio che la nostra storia repubblicana affondi lì le sue radici. Ma questi 70 anni di storia (e certa cronaca dei nostri giorni) compongono molte domande: quelle radici sono ancora presenti? Cosa resta di quella stagione, cosa è stato "tradito"? Ne abbiamo parlato con il professor Paolo Pezzino, docente ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa. 


Professor Pezzino, Calamandrei definì la Resistenza un "monumento". Questo monumento, oggi, ha ancora fondamenta solide? 
"L'antifascismo è indubbiamente uno dei valori fondanti la nostra convivenza civile, perché i diritti di cittadinanza in questo paese sono stati l'esito di una lotta combattuta contro un regime totalitario. E la memoria che ogni 25 aprile celebriamo è quella della sconfitta dall'esercito della Germania nazista ad opera di quelli alleati, coadiuvati dai partigiani e dal Corpo italiano di liberazione, è quella di una guerra civile vittoriosa contro il fascismo, di cui va rivendicata con forza, come italiani, contro ogni tentativo di sminuirne il valore, la legittimità nazionale e l'orgoglio di averla combattuta e vinta. E' indubbio, tuttavia, che fra i cittadini, nell'opinione pubblica, fra i giovani quel monumento sia ormai poco conosciuto, ricoperto dalla polvere del tempo ed anche, va detto, da una visione agiografica, retorica, antistorica della resistenza. E i giovani, quando fiutano la retorica, giustamente si allontanano."
Dalla Resistenza, dalla lotta contro il regime e l'ideologia fascista e nazista e contro l'occupazione tedesca, nasce l'Italia repubblicana, con la sua Costituzione democratica. Ora, la nostra Carta fondamentale ha subito, negli ultimi anni, pressioni, modifiche, quando non veri e propri attacchi. Perché?
"Dal punto di vista istituzionale, è indubbio che la nostra Costituzione sia nata dall'antifascismo e dalla Resistenza. La stessa unità delle forze politiche che la elaborarono e la approvarono anche quando, si noti, a livello politico ormai quell'unità non esisteva più, richiama l'unità che si realizzò nei Comitati di Liberazione Nazionale. Tuttavia l'architettura istituzionale delineata dalla nostra costituzione è indubbiamente datata: reduci dall'esperienza fascista, i padri costituzionali vollero un regime nel quale fosse evidente la preminenza del parlamento (e quindi dei partiti politici che vi erano rappresentati, su base proporzionale fino alle riforme elettorali più recenti) sull'esecutivo, e nella quale i Presidente della repubblica avesse un ruolo più che altro simbolico. Oggi pare evidente che alcune di queste scelte sono incompatibili con la necessità di sveltire e rafforzare il processo decisionale. Così il bicameralismo puro, i rapporti fra esecutivo e Camere, lo stesso ruolo del Presidente della repubblica, molto più dinamico e interventista nell'interpretazione che ne dà, ad esempio, il Presidente in carica, vengono rimessi in discussione. Personalmente non ci vedo niente di male, purché i processi di revisione costituzionale avvengano in maniera equilibrata ed avendo di mira il funzionamento complessivo del sistema, non interessi di parte o la volontà di ridimensionare i propri avversari politici."
La Resistenza fu veramente un fatto di popolo? "
Bisogna intendersi. Non tutti gli Italiani erano antifascisti e sostennero con entusiasmo e attivamente la Resistenza: c'erano non pochi fascisti convinti, e molti indifferenti. E tuttavia, il periodo dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 è stato uno di quelli nei quali i cittadini, volenti o nolenti, si sono trovati a compiere scelte "politiche", dalle quali dipendeva non solo la loro sorte personale, ma anche, in ultima analisi, quella della patria. E i comportamenti che oggi colleghiamo al termine di resistenza hanno coinvolto ampi strati popolari. Se proviamo a declinare al plurale la parola “resistenza”, per comprendervi tutta la varietà di comportamenti e vissuti che il popolo italiano mise in atto nei mesi dall’armistizio dell’8 settembre 1943 alla liberazione, vedremo che, accanto alla lotta in armi di decine di migliaia di partigiani e, in minor misura, partigiane per opporsi all’occupazione tedesca e alla continuazione di una guerra che aveva perso, se mai l’aveva avuto, qualsiasi carattere patriotico e si rivelava per quello che veramente era, il frutto avvelenato della dittatura fascista. Vi furono i gesti e i comportamenti di coloro che si opposero comunque all’occupazione tedesca e al fascismo, a partire dalle donne, in prima fila nell’accogliere, proteggere e accudire gli uomini, sempre più ricercati e braccati in quei mesi, a partire dai soldati sbandati dopo l’8 settembre, spogliatisi della divisa e rivestiti dalle donne italiane: atteggiamenti, questi, che le storiche hanno definito "maternage" di massa, riduzione del danno, manutenzione della vita, invitandoci a non declinare solo al maschile la “resistenza”. Ricorderemo anche i sacerdoti, rimasti accanto ai loro fedeli in una situazione di disgregazione delle strutture istituzionali, i quali seppero opporsi con coraggio, e spesso con la semplice arma dell’abito talare, alla politica del terrore che investì le loro comunità. Ricorderemo i contadini, che nutrirono militari alleati, sbandati o fuggiti dai campi di prigionia, e partigiani, dividendo con loro un pane sempre più scarso anche per le loro famiglie, e mai denunciandoli a tedeschi e fascisti repubblicani. In questo quadro di atteggiamenti di consapevole disobbedienza, spesso in nome di un antifascismo esistenziale e prepolitico, ma comunque sempre pericoloso per chi lo praticava, troveranno collocazione le centinai di migliaia di soldati italiani internati, dopo l’8 settembre, nei campi tedeschi, senza che venisse loro riconosciuta la qualifica di prigionieri di guerra, che in maggioranza si rifiutarono di barattare la propria libertà con l’adesione al regime di Salò. Se sommiamo tutti questi comportamenti, vedremo che le "resistenze" di italiane e italiano furono effettivamente un'esperienza di massa, e non di poche élites politiche."
Una domanda sui partiti. Ebbero un ruolo fondamentale nella lotta antifascista e nella nascita dell'Italia libera. Ora, sono sentiti spesso come corpi estranei e spesso delegittimati da scandali e malversazioni. Che è successo? 
"La "Repubblica dei partiti", come lo storico cattolico Scoppola ha chiamato la repubblica italiana, è andata in crisi, a partire dagli anni Ottanta, perché i partiti hanno perso la capacità di programmare il futuro d'Italia. La crescita del debito pubblico, conseguenza di politiche assistenziali, clientelari, il consociativismo, che ha unito l'intero arco politico nella richiesta di benefici per i ceti sociali rappresentati, senza che si definissi un quadro di compatibilità finanziarie, l'occupazione dello Stato e della pubblica amministrazione, infine la crisi delle ideologie, che ha colpito soprattutto comunisti e democristiani, ha ridotto progressivamente il ruolo dei partiti politici. La società inoltre è cambiata, e i partiti non sono stati in grado di intercettare le richieste dei nuovi ceti sociali, mentre i tradizionali (contadini, operai, impiegati pubblici) o declinavano o riducevano comunque il loro peso. E tuttavia la mediazione politica non può che essere assicurata da soggetti politici quali i partiti, sia pure in modalità diverse rispetto al passato. I partiti hanno bisogno di una robusta cura dimagrante, devono ridurre pretese di egemonia e occupazioni di ogni spazio disponibile, lasciare spazi autonomi all'amministrazione e agli amministratori della cosa pubblica, una volta elaborate le scelte politiche di fondo. E recuperare il senso della politica come "servizio", e non come "privilegio"."

domenica, aprile 22, 2012

Sembra solo che vogliano farci paura


Uno sbocco, un futuro. Un po' di respiro. Una prospettiva. Riscoprire una vocazione di impresa, il desiderio di costruire il proprio futuro. Lo diceva qui a Cremona, qualche giorno fa, il presidente della Ferrari Montezemolo. Leggiamo che ci sono tre milioni di persone, nel nostro Paese, che hanno smesso di cercare lavoro. E' un dato sconcertante e molto preoccupante. Tre milioni, non possono essere tutti vagabondi. Verrebbe da dire: proviamo a metterli insieme, intorno a un tavolo sterminato, in un gigantesco brainstorming. Sono convinto che ne uscirebbero altrettanti milioni di idee, forse anche di più. Tra quelle idee, molte sarebbero vincenti e originali. Poi, dovremmo trovare chi ha fiducia in loro, chi concede finanziamenti, chi fa da garante, chi fa da "nurse" all'impresa. Cose impossibili? No, accade ovunque. I fondi europei non dovrebbero servire anche a questo? E, se proprio non trovassimo misure ed assi adeguati, non potremmo iniziare un confronto con l'Europa per questo? Dobbiamo stare in Europa solo per sentirci dire che dobbiamo risanare i bilanci? Dice, in queste pagine, il consigliere Angelo Zanibelli: nonostante tutti i nostri guai, l'Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa, ed il quinto nel mondo, con un potenziale enorme che non può essere disperso. Ma allora, se tutto questo è vero, perché spesso, troppo spesso, sembra solo che vogliano farci paura? Parole come lo spettro della Grecia, il default, il precipizio. Ministri che troppo spesso parlano di licenziamenti, invece che di lavoro. Che senso ha? Perché? Che senso ha che il ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi paventi il licenziamento anche per i dipendenti pubblici, invece di lavorare perché i ritardi della Pubblica amministrazione non contribuiscano – come succede adesso - ad alimentare la spirale della crisi? Che senso ha che la ministro Fornero insista a parlare di licenziamenti per motivi economici, quando si dovrebbe parlare di assunzioni per motivi economici? Per forza che anche la spinta montiana sembri destinata a esaurirsi in breve tempo. Con la paura non si intraprende, non si inizia, non si spende. Con la paura ci si rinchiude in angolo, a parare i colpi. Noi non abbiamo bisogno di spiare lo spread che cresce, in preda al timore. Ci vogliono idee, per il Paese, per Cremona. E per riprendere Zanibelli: è ora che anche le istituzioni locali diano risposte e non si tirino indietro. Forza, il tempo è adesso.

Daniele Tamburini

sabato, aprile 21, 2012

«Dobbiamo prendere atto che il ‘post-Tangentopoli’ è fallito»



Crisi della partecipazione e crisi dei partiti? Abbiamo intervistato Damiano Palano docente di Scienza politica alla Cattolica

di Daniele Tamburini
I partiti subiscono una vertiginosa crisi di credibilità e di fiducia: lo dice la cronaca, lo dicono i vari sondaggi che si svolgono sull’argomento. Una crisi che affonda le radici non tanto e non solo negli episodi di corruzione, peculato, uso improprio del finanziamento pubblico, ma nel progressivo svuotamento del loro ruolo storico e costituzionale: la mediazione tra la partecipazione politica dei cittadini ed il sistema di governo, a tutti i livelli. Una perdita di ruolo che, insieme alla percezione diffusa di essere ormai luoghi di mero potere, sorta di “cerchi magici” in cui si distribuiscono poltrone e prebende, alimenta la cosiddetta “antipolitica”. Una questione molto attuale, inoltre, è quella del finanziamento pubblico o rimborso elettorale, che dir si voglia. I rischi sono tanti: dal crescente sviluppo del populismo deteriore, ad una partecipazione ai momenti elettorali sempre più scarsa (l’astensionismo alle urne sta crescendo), alla sostituzione della politica da parte della tecnica. Una strada potenzialmente pericolosa. Ne parliamo con Damiano Palano, docente di Scienza politica presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il professor Palano ha partecipato a ricerche sulla riconfigurazione dello spazio politico e sta portando a termine un progetto di ricerca sulle trasformazioni della democrazia.
Professor Palano, che cosa sono i partiti nel nostro ordinamento repubblicano?
«In linea generale, i partiti sono associazioni di cittadini che puntano a influire sulle decisioni delle istituzioni di governo. In un contesto democratico come quello italiano, il canale principale attraverso cui i partiti cercano di accedere alle cariche politiche sono le elezioni, e proprio il fatto di partecipare alla competizione elettorale distingue i partiti da altre forme associative che pure hanno un ruolo significativo, come per esempio i sindacati o le associazioni di categoria. A differenza di quanto avveniva nelle costituzioni prebelliche, la nostra Carta costituzionale riconosce esplicitamente il ruolo fondamentale che hanno i partiti come strumento di espressione e di organizzazione della società. L’articolo 49 afferma infatti che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Nel nostro ordinamento, i partiti non sono dunque semplicemente attori ‘privati’, ma in qualche misura anche soggetti ‘pubblici’, perché sono considerati come organi essenziali per la dinamica democratica. Il riferimento al «metodo democratico» è stato però al centro di alcune controversie. I primi critici della ‘partitocrazia’, già negli anni Cinquanta, ritenevano infatti che fosse necessario stabilire controlli pubblici anche sull’organizzazione interna dei partiti, e non solo sulle modalità di propaganda e azione esterna. In realtà, questo tipo di controllo in Italia non è mai stato attivato, per motivi piuttosto comprensibili e in fondo non del tutto deprecabili. Per questo motivi, i partiti si trovano sempre al confine tra ‘pubblico’ e ‘privato’. E la questione del loro finanziamento riflette proprio questa ambivalenza: da un lato, si ritiene che i partiti svolgano una funzione pubblica essenziale, e per questo vengono sostenuti da risorse pubbliche; dall’altro, sono organizzazioni ‘private’, perché rimangono esterne allo Stato (e al suo controllo)».
La crisi della partecipazione nel nostro Paese è da mettere in relazione con la crisi dei partiti?
«Crisi della partecipazione e crisi dei partiti sono ovviamente legate, ma è difficile dire quale sia la vera ‘causa’. Si tratta piuttosto di un circolo vizioso, in cui entrambe le crisi si rafforzano a vicenda. Il calo delle iscrizioni ai partiti inizia a registrarsi (in tutta Europa, seppur con differenze tra Paese e Paese) già negli anni Ottanta. I motivi sono al tempo stesso politici e culturali. L’esaurimento delle grandi ideologie novecentesche ha indebolito (seppur non annullato) le identità collettive su cui i partiti di massa si fondavano. E la fine della Guerra fredda ha influito non poco in questo processo. Al tempo stesso, le trasformazioni culturali delle società ‘postmoderne’ hanno favorito forme di mobilitazione diverse da quelle novecentesche. Ma ciò non significa che la partecipazione venga meno. Piuttosto, si tratta di una partecipazione che non si svolge prevalentemente all’interno dei partiti. Al tempo stesso, la fiducia nei confronti dei partiti e della classe politica si riduce a livelli bassissimi. Proprio la sfiducia verso la politica, che in Italia raggiunge punte molto elevate, accomuna d’altronde tutte le democrazie occidentali ».
Quali sono le radici di tale crisi?
«La crisi dei partiti ha molte radici. Alcune sono specificamente organizzative, e non sono certo esclusive dell’Italia. Sono legate alla trasformazione della competizione politica, alla crescente mediatizzazione e alla personalizzazione. Tutti questi processi tendono a cambiare l’organizzazione interna del partito, perché il potere reale tende a concentrarsi verso il piccolo gruppo di vertice (se non nel ‘capo’), e perché i partiti tendono a ricercare nella spartizione di cariche pubbliche le risorse finanziarie per la loro sopravvivenza. Al tempo stesso, tende a indebolirsi molto il rapporto fra il partito e la base dei militanti. Un po’ perché la società cambia, e un po’ perché i militanti (e le loro risorse umane) non sono più così importanti nella strategia comunicativa. Non si tratta soltanto di una degenerazione: è anche un risultato innescato dalle trasformazioni della competizione elettorale e dalla necessità di ottenere ‘visibilità’ nel panorama ipertrofico della comunicazione contemporanea. Anche per questo, quasi tutti i partiti italiani sono oggi, di fatto, ‘partiti personali’. E in questo quadro i controlli diventano molto più difficili. A questi fattori, se ne aggiunge almeno un altro. Negli ultimi vent’anni, per far fronte alla crisi di fiducia nei partiti, quasi tutte le nuove formazioni politiche hanno utilizzato a piene mani la retorica anti-politica. Così, hanno acceso speranze puntualmente deluse. Ma hanno anche compiuto una straordinaria opera di auto-delegittimazione, che ha esteso ulteriormente i margini della disillusione, della sfiducia, del disgusto nei confronti della classe politica».
La forma-partito è riformabile, o ci dovranno essere sempre di più nuovi strumenti di partecipazione politica?
«In teoria tutto è riformabile, ma è molto improbabile che i partiti possano mutare in modo sostanziale. Le trasformazioni che hanno subito sono dovute non soltanto alla pessima qualità della classe politica odierna, ma anche alle condizioni strutturali del confronto politico nelle democrazie occidentali. Al tempo stesso, è difficile immaginare che il ruolo del partito possa essere sostituito da altre forme di partecipazione. Certo ci sono margini per un maggiore coinvolgimento dei cittadini, in forme diverse rispetto al passato. Ma per incidere realmente e stabilmente sulle decisioni politiche, e anche per costruire progetti politici di lungo periodo, il ‘partito’ rimane probabilmente l’unico strumento adeguato. Anche se al partito sono legate – inevitabilmente – quelle tendenze degenerative che conosciamo, e anche se i partiti di oggi hanno radici molto deboli nella società».
E la questione del finanziamento pubblico, o rimborso elettorale che si voglia dire?
«Le polemiche contro la ‘partitocrazia’ sono vecchie quanto la Repubblica, e quella contro i ‘rimborsi elettorali’ è solo l’ultima variante. È chiaro che siamo dinanzi a un meccanismo perverso, costruito per aggirare le volontà espressa dal referendum del 1993 sul finanziamento pubblico dei partiti. Ma si tratta solo di uno degli aspetti più evidenti di un processo più ampio. Negli ultimi vent’anni, il potere di discrezionalità della politica si è ulteriormente accresciuto, ed è sufficiente pensare al ruolo giocato dallo spoil system a tutti i livelli della macchina amministrativa. Probabilmente, la legge sui rimborsi elettorali verrà modificata, ma per affrontare il problema del ruolo dei partiti sarebbe necessario un ripensamento ben più radicale. Innanzitutto, dovremmo prendere atto del fallimento delle grandi speranze di ‘moralizzazione’ alimentate dal crollo della ‘Prima Repubblica’ e cercare di scoprirne le cause. Ma dovremmo anche riconoscere che le riforme degli ultimi vent’anni, al di là della retorica anti-statalista, hanno implicato soltanto un enorme rafforzamento del clientelismo. Se non prendiamo atto del fallimento del ‘post-Tangentopoli’, e se non cerchiamo di capirne le ragioni più profonde, ogni riforma si rivelerà solo un’operazione del tutto simbolica, ma priva di reali conseguenze. Così, avrà ragione ancora una volta il principe di Salina. Dietro la facciata di un cambiamento radicale le cose continueranno a rimanere immutate, e la classe politica assomiglierà sempre di più a una casta di parassiti».