sabato, settembre 08, 2012
Intervista al professor Francesco Sylos Labini: «Occorrono investimenti pubblici per la ricerca»
Tra pochi giorni inizieranno il nuovo anno scolastico e il nuovo anno accademico. Scuola e università: pare quasi una banalità sostenere che un Paese che intenda inserirsi nella sfida della complessità contemporanea abbia grande necessità di una scuola e di un’università funzionanti, come e forse più delle materie prime e dell’energia. Eppure, questa sorta di “banalità” non riesce ad avere risposte adeguate, nel nostro Paese. Da noi, ormai, non si contano più gli interventi di riforma legislativa, cresciuti su se stessi spesso in maniera caotica, operati in modo rigorosamente bipartisan dai vari governi che si sono succeduti, anche se di orientamento politico diverso. Eppure, si tratta di interventi che hanno scontentato tutti, in modo davvero unanime: dai docenti ai ricercatori, ai genitori, agli studenti. Uno stato di disagio diffuso, alimentato anche dai tagli progressivi ai fondi destinati all’istruzione, dalla questione del precariato, dallo stato dell’edilizia scolastica e degli atenei, dalla scelta dei sistemi di reclutamento e di valutazione. Le ultime, accese polemiche si sono verificate al recente annuncio di un “concorsone” a cattedre per gli insegnanti delle scuole. Ne parliamo con Francesco Sylos Labini, ricercatore presso il Cnr, visiting professor presso il Dipartimento di Fisica della Università Cattolica degli Studi di Brescia, dove insegna Astrofisica, autore (con Stefano Zapperi) del volume “I ricercatori non crescono sugli alberi”.
Professore, so che non è facile, ma proviamo: come definirebbe la nostra scuola e la nostra Università?
«La nostra università sta vivendo, in questi anni, una situazione molto critica: ancora diverse parti funzionano bene, ma i legislatori e la politica stanno facendo di tutto per distruggerle. Già prima del ministro Gelmini, il sistema universitario non godeva di buona salute; poi è arrivata lei con una riforma terribile, peggiorando la situazione. Infine, ora, il ministro Profumo sta dando il colpo di grazia all'università. Tutto questo accade perché in Italia manca la consapevolezza culturale e politica del fatto che una società avanzata come la nostra abbia il dovere di finanziare università e ricerca. Ricordiamo ad esempio quando Berlusconi era in carica come presidente del Consiglio: gli chiesero le motivazioni dei tagli alla ricerca e lui rispose “perché dobbiamo pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe migliori del mondo?”. Questo dimostra che i docenti e i ricercatori sono visti solo come i "baroni" che sistemano mogli, amanti e figli, o come degli scienziati che risolvono problemi astrusi. Accanto a tutto ciò, in Italia abbiamo una classe imprenditoriale che non ha la cultura della ricerca e dell'innovazione. Si tratta infatti di investimenti ad alto rischio e che hanno un ritorno solo sul lungo periodo, mentre il privato vuole vedere risultati concreti nell'immediato. E' questo uno dei motivi per cui il compito di fare questo tipo di investimenti dovrebbe spettare prioritariamente allo Stato».
Il ministro Profumo sostiene che il Governo stia procedendo ad una valutazione oggettiva e corretta della qualità delle nostre Università e dei suoi docenti …
«Innanzitutto, voglio far notare che l'Agenzia di valutazione che era stata istituita con la riforma Gelmini, e che sta lavorando ancora adesso, utilizza criteri di valutazione che non esistono in nessun altro paese al mondo. Dare un giudizio al settore universitario è un'operazione molto delicata, che tocca la libertà del ricercatore, e se fatto male può causare danni a interi settori di ricerca; per questo dovrebbe essere svolta da persone veramente preparate. Invece l'Agenzia italiana è affidata a gente incapace e irresponsabile. Con il rischio che scompaiano un paio di generazioni di ricercatori, cosa che peraltro sta già accadendo, un po' perché le Università non hanno risorse per assumere, un po' perché i pochi che verranno assunti verranno scelti con criteri che a livello internazionale sono stati screditati. Questa perdita comporterà, purtroppo un buco in alcuni campi di ricerca, per cui le competenze attuali non potranno venir trasmesse e verranno irrimediabilmente perdute. Oggi vi sono campi in cui la ricerca italiana è ancora vincente, ma rischiamo di perdere anche quelli».
Alla luce di tutto questo, qual è lo stato della ricerca nel nostro Paese?
«Innanzitutto bisogna sfatare il mito delle posizioni in classifica dell'università italiana rispetto agli altri paesi. Vi sono infatti classifiche internazionali in cui risultiamo sempre agli ultimi posti, ma esse non si basano solo sulla qualità dell'insegnamento, ma anche su parecchi indicatori infrastrutturali, in cui in effetti l'Italia va molto male. Nelle classifiche effettuate invece solo sulla base delle pubblicazioni e delle citazioni, che sono poi i veri parametri di misurazione per la qualità della ricerca, l'Italia è settima nel mondo, con un sistema universitario che si attesta quindi come efficiente, specialmente in determinati settori, come matematica, biologia, fisica, scienze informatiche. Un'efficienza dimostrata dal fatto che quando i nostri giovani laureati fanno concorsi all'estero li vincono molto spesso. Tuttavia questa tendenza positiva rischia di invertirsi, proprio perché in Italia non si investe nella ricerca, e dunque i ricercatori emigrano. Con tutto ciò non possiamo negare che nel nostro Paese vi siano delle inefficienze e delle persone che davvero non lavorano, ma sono legate prioritariamente al settore delle professioni, come medicina o legge. Questo perché vi sono docenti con il doppio lavoro, che tengono le cattedre ma poi non insegnano ».
La valutazione, la meritocrazia, la trasparenza… concetti che vengono continuamente ribaditi. Viene il sospetto che parlarne tanto dissimuli l’incapacità o la non volontà di procedere in questa direzione. Quali strumenti sarebbero necessari?
«Non c'è nulla da inventare, in realtà: tutto è già stato sperimentato. Basterebbe andare a guardare come funzionano le cose in paesi simili al nostro, come la Francia o l'Inghilterra, e vedere in che modo lì hanno risolto tali problemi, a partire dalla valutazione. Perché in Italia si devono inventare dei criteri che non esistono altrove? Ad esempio, sarebbe sufficiente responsabilizzare le scelte: chi decide di assumere una persona, dovrebbe anche essere responsabile dei risultati da essa ottenuti, e del suo comportamento».
Da Scilipoti a Giggino a’ purpett
Il mondo è bello perché è vario: lo diceva sempre mio nonno. Un detto che è
stato sempre vero, ma mai, forse, come in questi ultimi anni. Abbiamo visto
succedersi tutto e il contrario di tutto. Gli eccessi di politica e
l’antipolitica. Gli sprechi e la crisi. Mi dicono che in molte amministrazioni
pubbliche si stiano invitando i dipendenti (che, magari, già lo fanno per
educazione propria) a non sprecare, a spegnere la luce nelle stanze non usate, a
stampare su carta il meno possibile. Molto bene. Però diciamocelo: quante auto
blu vediamo ancora in giro, nonostante le “strette” più volte annunciate?
Ragionare così non è antipolitica, ma lotta al privilegio. Tornando alla grande
varietà del mondo: abbiamo il linguaggio politichese di un D’Alema e di un
Alfano, e le urla invasate di Grillo. Ma non solo: pensiamo all’”eroe” del
giorno, Giggino a' purpett, cioè l’onorevole Luigi Cesaro, il deputato,
presidente della Provincia di Napoli. Coinvolto anche in una indagine sulla
camorra. Bene, in occasione del vertice mondiale dell'Onu sulle città, l’on.
Cesaro, davanti a una platea di autorità internazionali, ha fatto un intervento,
che sta spopolando su youtube, definito da qualcuno “degno di Totò”. Sì, ma di
Totò quando recitava le sue macchiette migliori. In realtà, una cosa penosa, da
nascondersi dalla vergogna. Inutile: finché avremo degli incompetenti nei posti
di potere, difficilmente potremo fare sostanziosi passi in avanti. Speriamo di
avere la possibilità alle prossime elezioni di poter scegliere coloro che ci
dovrebbero rappresentare. Abbiamo un governatore italiano della Bce, Draghi, che
si sta battendo con intelligenza e determinazione per la salvezza dell’euro e
delle economie europee; abbiamo un premier, Monti, che, comunque la si pensi, è
ascoltato e rispettato. Ma, allo stesso tempo, siamo stati la patria del bunga
bunga, di Scilipoti e ora di Giggino a' purpett. Così non può andare. Un mondo
vario in questo modo, non va.
sabato, settembre 01, 2012
Intervista al professor Sdogati: «Contenere il deficit, un pretesto per privatizzare il patrimonio pubblico»
"La crisi dei debiti pubblici non è crisi economica, bensì crisi della politica"
di Daniele Tamburini
Agosto è appena finito, ma, nonostante le molte tensioni politiche ed
economiche che lo hanno attraversato, non si è verificata la temutissima crisi
devastante sui mercati e sul rendimento dei nostri titoli di Stato. Certo, lo
spread con i titoli tedeschi ha un andamento altalenante. Certo, diversi
soggetti, in Germania, stanno dirigendo una selva di duri colpi nei confronti di
Mario Draghi, il governatore della Banca Centrale Europea, reo di aver
dichiarato, a inizio agosto, che la Bce era disposta ad agire, se necessario,
con misure eccezionali contro la crisi, anche mediante l’acquisto sul mercato
del debito pubblico dei Paesi in difficoltà. Uno per tutti, il presidente della
Bundesbank, Jens Weidmann, ha criticato questa idea, definendola, in
un'intervista al settimanale Der Spiegel, come «un finanziamento degli Stati con
una stampatrice di banconote ». Di più: il finanziamento della Bce potrebbe
indurre alcuni Paesi «all'assuefazione, come se fosse una droga». Una critica
assai pesante, quindi. Sullo sfondo, la imminente campagna elettorale tedesca,
l’incertezza politica in Italia, le prossime elezioni negli USA, il cambio di
guardia politico in Francia, la situazione drammatica della Grecia, la
recessione europea e il rallentamento dell’economia globale eccetera. Una
situazione di grande complessità, in cui il nostro Paese cerca di procedere
faticosamente, sperando di intravedere una luce in fondo al tunnel: luce che,
peraltro, è stata annunciata dal governo, in testa il premier Monti. Parliamo di
questi temi con il professor Fabio Sdogati, docente di Economia Internazionale
presso il Politecnico di Milano, autore di molte pubblicazioni sul tema e del
sito www. scenarieconomici.com.
Professor Sdogati, come mai questo agosto è
stato meno “infuocato” del previsto, sul piano economico-finanziario?
Lungi da
me dire che era prevedibile, ma certo è spiegabile. Si ricorderà certamente il
periodo che io ho definito della ‘diarchia Merkel-Sarkozy’, un periodo in cui i
paesi membri dell’area euro erano divisi in buoni e cattivi, formiche e cicale,
sciocchezze del genere. Poi, da novembre scorso in avanti, sono arrivati Monti
e, da poco, Hollande. E la diarchia, che comunque stava perdendo Sarkozy per
ragioni di politica interna francese, cominciava a perdere sistematicamente di
potere. Il lavoro che il Presidente Monti ha fatto, e sta facendo, sul piano
internazionale è preziosissimo. La sua capacità di smussare, ricucire,
ricomporre, intravedere terreni di compromesso è veramente notevole, e sta dando
frutti visibili. Ciò che voglio dire è che i cosiddetti ‘mercati’, che altro non
sono che le banche, gli intermediari finanziari, i fondi di investimento, stanno
cominciando ad intravedere l’emergere di una leadership europea progressivamente
sempre meno succube ai loro voleri, come era vero invece ai tempi della
diarchia, e dunque le attività speculative stanno rallentando per ampiezza e
intensità. La situazione politica internazionale e quella interna ai singoli
Stati che peso ha in questa fase? Sostengo dall’autunno del 2009 che la
cosiddetta ‘crisi dei debiti pubblici’ è non crisi economica, bensì crisi della
politica. Abbiamo un’Unione Europea che, a causa degli egoismi nazionalisti dei
governanti dei paesi membri, ha smesso di progredire sulla strada
dell’integrazione e dell’unità. L’aver voluto distogliere l’attenzione dalla
globalità della crisi alla cosiddetta ‘crisi greca’ ci ha fatto perdere tempo
prezioso e opportunità preziose per il rilancio dell’economia europea.
Che ne
pensa delle inedite “promozioni” che sono arrivate, per l’Italia, dalle agenzie
di rating?
Per poter rispondere a questo quesito occorre aver chiaro che i
giudizi delle agenzie sono prodotti in vendita. In questo essi assomigliano a
qualunque prodotto e servizio offerto a mercato. Chi acquista i servizi delle
agenzie di rating? Le imprese, ad esempio, che fanno valutare i propri titoli
obbligazionari prima di emetterli; i fondi pensione e i fondi di investimento, i
quali vogliono conoscere la valutazione delle agenzie prima di decidere se
aggiungere un certo titolo al proprio portafoglio. E fin qui non c’è nulla di
strano. Ciò che da potenza alle agenzie è il fatto che i gestori dei fondi sono
obbligati a seguire le loro indicazioni, vale a dire ad acquistare soltanto quei
titoli che sono caratterizzati da un certo rating minimo. E’ evidente come una
variazione del rating di un certa obbligazione, pubblica o privata che sia,
induce, grazie a questi automatismi, flussi di acquisti e di vendite di enorme
valore finanziario. Ma non basta. Il vero problema, infatti, è che questi stessi
meccanismi adottati dai fondi di investimento sono stati adottati dalle stesse
banche centrali. Fino al maggio del 2011, ad esempio, la Bce dava credito
soltanto a quelle banche che offrissero come collaterale, cioè come ‘garanzia’,
titoli con un certo rating. In altre parole, le istituzioni hanno concesso alle
agenzie, ovvero a degli enti privati, il modo di vincolare le proprie azioni. È
questo il vero dramma, la vera capacità distruttiva dei giudizi delle agenzie.
Per rispondere puntualmente al quesito: i giudizi negativi degli anni passati
hanno contribuito molto a generare una recessione che sta devastando le economie
del sud Europa –e che sta cominciando ad attaccare anche l’economia tedesca.
Anche se dovessero aver cambiato direzione, il loro contributo alla ripresa sarà
molto, molto marginale: poiché la sfiducia è stata ormai disseminata con grande
cura; e dovranno passare anni prima che si torni alla situazione pre-2007.
Il
suo parere sull’attivazione dello scudo antispread? Alcuni (citiamo, tra gli
altri, Ricardo Levi) sostengono che ostinarsi nel rifiutarlo sia pericoloso...
Il cosiddetto ‘scudo antispread’ è uno tra i tanti strumenti di intervento
ideati per contenere la violenza con cui banche e fondi di investimento hanno
approfittato delle carenze nella governance dell’Unione Europea a partire
dall’agosto del 2007. E’ uno strumento complesso, nuovo, e ovviamente ciascun
governo nazionale lo vorrebbe (o non lo vorrebbe) veder operativo secondo i
propri interessi.
L’attivazione presupporrebbe veramente una perdita di
sovranità nazionale?
Senza alcun dubbio! Ma non è forse questo che i padri
fondatori dell’Unione Europea avevano in mente? Non è forse vero che il percorso
iniziato con il Trattato di Parigi del 1951 doveva andare proprio in questa
direzione, di potere nazionale decrescente e poteri crescenti degli organi
comunitari? Questo era, ed è tutt’oggi, il sogno. E, ironia, oggi è anche una
necessità: a meno che non si decida di morire schiacciati tra Cina da un lato e
Stati Uniti dall’altro, divisi in tanti ‘paesini’ ciascuno con la sua
‘politichina’. Mi chiedo spesso: chi ha paura della scomparsa dello
stato-nazione? Soltanto chi pensa di vivere nel migliore dei mondi possibili,
cioè nel migliore dei paesi possibili. Un pensiero piuttosto infantile, non
trova?
Che ne pensa delle varie “ricette” per tagliare il debito pubblico:
quella di Alfano, quella Amato-Bassanini, quella di Alberto Quadrio Curzio e
Romano Prodi? Tutte basate, comunque, su una manovra che riguarda il patrimonio
pubblico…
Ho affrontato questo problema in due lavori separati: presentai il
primo, datato 23 marzo, alla riunione degli alumni del Mip e del Corso di Laurea
in Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano; presentai il secondo, datato
23 maggio, ad un incontro a Reggio Emilia. Entrambi i testi sono, ovviamente,
disponibili su www.scenarieconomici.com La tesi che sostenevo in quei lavori è
che la fanfara assordante circa la necessità di contenere il deficit corrente
delle pubbliche amministrazioni altro non è, appunto, che una fanfara. Il cui
scopo è chiarissimo da molto tempo a chi abbia voglia di vedere: distogliere
l’attenzione dalle operazioni di privatizzazione del patrimonio pubblico. E non
parlo, ovviamente, di quattro caserme diroccate o qualche chilometro di
spiaggia, come si è dovuto sentire in passato: parlo di privatizzazione delle
municipalizzate, della sanità, dell’istruzione. Dal mio punto di vista, tutte le
proposte che Lei menziona si equivalgono, poiché in nessuna delle forme
proposte, o proponibili, le privatizzazioni saranno in grado di attivare
l’uscita dalla crisi. Quantomeno, non per anni a venire. Ciò che aiuterebbe
enormemente, invece, è uno strumento che conosciamo da decenni e che ha sempre
funzionato: spesa pubblica. Certo, concordo che le condizioni presenti non
consentono a governi nazionali dell’area euro di agire individualmente in questo
senso, né essi lo farebbero, vista l’ideologia cosiddetta ‘del libero mercato’
che prevale al loro interno e tra i loro consiglieri. Ma pensiamoci: una spinta
di spesa pubblica coordinata a livello di tutta l’Unione Europea, come in fondo
chiede anche la Commissione Europea, sarebbe un passo enorme tanto nella
direzione dell’integrazione che in quella della crescita. Mi permetto di
consigliare, a chi ne ha voglia e tempo, l’ultimo libro di Paul Krugman, premio
Nobel per l’economia 2008, disponibile anche in italiano.
Una domanda difficile,
che però facciamo sempre: ce la faremo? E a quali prezzi? Davvero si intravede
la luce, come dice il premier Monti?
Credo che la risposta corretta al Suo
quesito richieda che si chiarisca anzitutto chi siamo ‘noi’. E al contempo che
cosa si intenda per ‘farcela.’ Se per ‘noi’ intendiamo l’esistenza dell’euro, la
risposta è: assolutamente si, come è stato ribadito in termini categorici ancora
soltanto pochi giorni dal Presidente van Rumpoy, e prima di lui dal Presidente
Draghi, e da molte persone serie. L’euro non si discute. Punto. Se invece per
‘noi’ intendiamo l’Italia, allora occorre ricordare che la crisi non è uguale
per tutti. La pagheranno relativamente poco i pensionati, la pagheranno
durissimamente i giovani, e per decenni a venire; ne usciranno benissimo gli
intermediari finanziari. Se poi per ‘farcela’ intendiamo il ritorno ad un tasso
di crescita dell’economia accettabile, che consenta il riassorbimento della
disoccupazione a livelli pre-2007, la risposta è certamente positiva: ma
occorreranno anni e anni perché ciò accada.
Grazie Professore.
sabato, agosto 04, 2012
Le interviste impossibili: Sofonisba Anguissola
La bella pittrice cremonese
Sofonisba Anguissola: una vita da “virtuosa nobildonna”, grande artista allieva di Bernardino Campi
Signora Anguissola, lei ha avuto l’onore di una citazione anche da parte di
Giorgio Vasari, pittore di valore, ma certo più conosciuto come autore delle
“Vite” di artisti famosi ..
«Anche lei con questa storia… come se tutta la mia
fama, il mio valore, la mia capacità debbano essere garantite solo dal fatto che
un uomo, notoriamente misogino, mi ha citato nella sua opera! Sa quanti errori
ha fatto Vasari?».
Mi scusi. Pensavo che le facesse piacere.
«E perché, invece,
non mi chiede dove ho imparato a dipingere, dove ho lavorato, dove ho fatto
esperienza? Lei si immagina cosa voglia dire, in quegli anni, nella seconda metà
del ‘500, viaggiare per L’Europa, giungere in Spagna, essere accettata a corte,
diventare la ritrattista ufficiale della regina Elisabetta di Valois?».
Ci
descriva la vita di corte, per favore.
«Con piacere. Fortunatamente, io ero
stata educata in modo da sapermi destreggiare, con grazia, arguzia, leggiadria,
in un ambiente così. La mia signora, la regina Elisabetta, era moglie di Filippo
II. Era la bella figlia di Enrico II di Francia e di Caterina de’ Medici. Povera
la mia dolce regina… morì giovanissima, a 23 anni. Non dia retta a chi sostiene
che avesse una relazione troppo affettuosa con il figliastro Don Carlos… negli
intrighi della corte, il principe ereditario trovò in Elisabetta un sostegno,
una buona amica, una sincera amicizia. E lei trovò una persona coetanea: aveva
dovuto lasciare la madre, le amiche. E che gioia, quando nacquero le
principessine, le infante… ho fatto loro molti ritratti, sa? La sua morte fu un
momento terribile, .anche per il sovrano».
Com’era la corte spagnola?
«Era
sontuosa, ricchissima, anche se un po’ cupa. Il mio signore, il re Filippo, era
custode della religione cattolica, e fece costruire l’Escorial. Il suo dominio
era incredibilmente vasto: dall’Europa all’America latina». Torniamo a lei,
donna Sofonisba. Alla sua formazione, alle sue esperienze…
«Sono molto
riconoscente al mio maestro cremonese, Bernardino Campi. Non dipingevo solamente
io, in famiglia, ma anche le mie sorelle (eravamo in sei). È stupito dal fatto
che le donne, a quell’epoca, avessero la possibilità di coltivare questa
inclinazione?».
Beh, un po’ sì … Lei, tra l’altro, è molto citata nelle
testimonianze del tempo: si citano spesso alcune sue opere, si parla di lei come
della “bella pittrice cremonese”, e … non si arrabbi, per favore … Vasari
rammenta alcuni suoi “bellissimi” ritratti e parla di lei come di una “virtuosa
nobildonna”.
«Non dimentichi che nello stesso “Cortigiano” di Baldassarre
Castiglione si prescriveva la necessità, per le donne del ceto
aristocratico-borghese, di coltivare le lettere e le belle arti. Si prevedeva un
modello femminile in grado di far coesistere le virtù squisitamente femminili
con la capacità di intrattenere, di conversare... oggi direste, di stare in
società. Lei conosce Partenia Gallerati?».
No … dovrei?
«Era una cremonese come
me, nata alcuni anni prima, una erudita, una fine conoscitrice dei classici
greci e latini. Studiava e scriveva, e pensava che le donne dovessero acquisire
il sapere umanistico. Sa che fu apprezzata anche dalla regina francese
Margherita di Navarra?».
Parliamo di lei.
«Amavo la ritrattistica. Quei volti,
quegli abiti, quelle espressioni dietro le quali cercavo di indovinare il loro
essere più segreto. Non era semplice: lo stile dell’epoca era molto rigido,
molto controllato. Però sono soddisfatta, sinceramente, della mia opera e della
mia vita. Il mio primo marito, un nobile ispano-palermitano, morì tragicamente,
purtroppo, ma, quando non pensavo più all’amore, conobbi Orazio, che sarebbe
diventato il mio secondo, adorato marito, un nobile genovese, un marinaio. Sì,
ho avuto tante soddisfazioni… ma le voglio raccontare l’ultima».
Ci dica…
«Il
grande Antoon Van Dyck, di passaggio a Palermo, volle conoscermi. Era diventato
a sua volta pittore ufficiale della corte di Spagna, e era sedotto – mi disse –
dalle mie opere. Lo sa? Volle farmi il ritratto. Ci vedevo ormai pochissimo, ero
tanto anziana, ma lo apprezzai moltissimo».
Se lo meritava, donna Sofonisba.
Grazie.
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Bernardino Campi,
Sofonisba Anquissola
domenica, luglio 29, 2012
Le interviste impossibili: Dante Alighieri
Quante volte ci siamo chiesti: se Dante fosse messo davanti allo schermo di un computer, e osservasse la scrittura che nasce attraverso gli impulsi su una tastiera, piuttosto che dal movimento articolato della mano, cosa direbbe? E se Newton conoscesse gli studi sul bosone di Higgs? E Mozart, condotto ad un concerto rock? E se Maria Curie potesse osservare gli esiti diagnostici e gli sviluppi della scoperta del radio? E Napoleone, se vedesse una guerra condotta con missili e droni? Il gioco potrebbe continuare all’infinito, in un rimando di citazioni e meraviglie ininterrotto. Allora, ci siamo detti: proviamo. Proviamo a far parlare alcuni di questi personaggi, ponendo loro domande sul nostro oggi. Una sorta di “interviste impossibili”: con quel tanto di leggero ed ironico – vogliamo sperarlo – da risultare di piacevole lettura.
di Agostino Francesco Poli
Un’invettiva contro chi lascia andare a male la storia, la cultura, l’arte dell’Italia
Verrebbe da chiamarla “Dante”, come usiamo conoscerla a scuola, come ci viene
insegnato fin dai primi anni di studio… ma temo di osare troppo.
«No, la mi chiami pure Dante… l’è un nome bello, importante. Lo sa cosa significa? ».
No, me lo dica.
«Significa colui che perdura. Che persevera. E, da quello che vedo, la mia opera perdura davvero… La mia opera: “'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m'ha fatto per molti anni macro”. Ci ho lavorato davvero tanti anni, sa? Diciassette. Ero giunto, o almeno credevo, “nel mezzo del cammin di nostra vita”. In realtà, la malaria mi ha sopraffatto molto prima.
La vedo corrucciato. Allora, non si tratta solo di una tradizione iconografica, che la ritrae così…
«Non ho mai trovato eccessivi motivi di felicità. Secondo lei, che c’è da ridere? Mica sono un umorista: a me si confacevano la grande poesia, l’invettiva, il trasporto lirico, ma non la poesia da mammolette!
Eppure, Dante, lei ha scritto uno dei componimenti d’amore più belli di sempre, il canto di Paolo e Francesca. Per non parlare delle sue poesie, del Dolce Stil Novo.
Il Dolce Stil Novo è cosa di gioventù, quando rimavo: “Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io/fossimo presi per incantamento,/e messi in un vasel ch'ad ogni vento/per mare andasse al voler vostro e mio”. Poi, sono arrivati l’impegno politico, la partecipazione alle vicende della mia città e del mio tempo, l’Imperatore ed il Papa, i Guelfi ed i Ghibellini, gli incarichi da ambasciatore, e il duello, a distanza ma durissimo, con il papa nemico, Bonifacio VIII. Sa che sono stato cacciato da Firenze, la mia città? che ho vissuto in esilio per venti anni? «Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e 'l salir per l'altrui scale».
Lei amava Firenze?
«Firenze … la amavo e la odiavo. Ho reso grande anche Farinata degli Uberti, pur se ghibellino, pur cacciandolo nell’Inferno, dove meritava di stare, perché, dopo la vittoria di Montaperti, si oppose a che Firenze, sconfitta, fosse distrutta».
E che ci dice delle cose di oggi? Questa nostra Italia, come la vede?
«Io ho creato la vostra lingua. Ho usato il cosiddetto “volgare”, gli ho dato dignità e grandezza poetica. Ho creato figure indimenticabili, come il poeta Sordello da Goito: è nel Purgatorio, ma pensa tanto alla sua patria, all’Italia, con nostalgia e dolore. Si ricorda?».
Sì.. quei versi indimenticabili, che spaventano un po’.
«Sono versi di rabbia. Molto più importante della nostalgia è la rabbia che ne sgorga, in cui si tramuta. “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, // non donna di provincie, ma bordello!».
Parrebbero adatti al nostro oggi, in un certo senso.
«Lo sono. Vivete in un Paese ancora ricco, forte, dotato di tradizione e bellezza incommensurabili. Perché non ve ne avvalete? Perché li gettate via? Lo sa cosa ho sentito dire?».
Che cosa?
«Che a Firenze, nella mia città, la più bella città del mondo, ovvia… me lo faccia dire! Insomma, a Firenze non c’è modo di conservare ammodo le pergamene su cui scrivevamo ai miei tempi! Ma le pare possibile? Pare che non ci sia denaro per evitare l’umidità e il caldo! Ma dico io, siete andati sulla Luna! E non c’è modo di conservare le pergamene che narrano la storia e la memoria di una città come Firenze! Altro che intervistarmi: dovrebbe denunciare queste cose! Tutti i giornali, visto che ce li avete a disposizione, e anche quella cosa, Internet… tutto dovreste utilizzare, per un’invettiva come quelle mie, contro chi lascia andare a male la storia, la cultura, l’arte dell’Italia! Ah, potessi tornare indietro! Io scrivevo a mano, ci pensa? Potessi usare la stampa, potessi essere nato ai tempi di Gutenberg! Potessi scrivere cose da diffondere in centinaia, migliaia di copie! Sarei diventato il maggior polemista di tutti i tempi! La prego, mi dica: che ne penserebbe di un pamphlet sulla situazione politica ed economica del vostro tempo, che terminasse con “Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”?».
Penso che sarebbe un enorme successo, caro Dante, padre dell’Italia verso cui proviamo un amore dolceamaro. La ringrazio.
«No, la mi chiami pure Dante… l’è un nome bello, importante. Lo sa cosa significa? ».
No, me lo dica.
«Significa colui che perdura. Che persevera. E, da quello che vedo, la mia opera perdura davvero… La mia opera: “'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m'ha fatto per molti anni macro”. Ci ho lavorato davvero tanti anni, sa? Diciassette. Ero giunto, o almeno credevo, “nel mezzo del cammin di nostra vita”. In realtà, la malaria mi ha sopraffatto molto prima.
La vedo corrucciato. Allora, non si tratta solo di una tradizione iconografica, che la ritrae così…
«Non ho mai trovato eccessivi motivi di felicità. Secondo lei, che c’è da ridere? Mica sono un umorista: a me si confacevano la grande poesia, l’invettiva, il trasporto lirico, ma non la poesia da mammolette!
Eppure, Dante, lei ha scritto uno dei componimenti d’amore più belli di sempre, il canto di Paolo e Francesca. Per non parlare delle sue poesie, del Dolce Stil Novo.
Il Dolce Stil Novo è cosa di gioventù, quando rimavo: “Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io/fossimo presi per incantamento,/e messi in un vasel ch'ad ogni vento/per mare andasse al voler vostro e mio”. Poi, sono arrivati l’impegno politico, la partecipazione alle vicende della mia città e del mio tempo, l’Imperatore ed il Papa, i Guelfi ed i Ghibellini, gli incarichi da ambasciatore, e il duello, a distanza ma durissimo, con il papa nemico, Bonifacio VIII. Sa che sono stato cacciato da Firenze, la mia città? che ho vissuto in esilio per venti anni? «Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e 'l salir per l'altrui scale».
Lei amava Firenze?
«Firenze … la amavo e la odiavo. Ho reso grande anche Farinata degli Uberti, pur se ghibellino, pur cacciandolo nell’Inferno, dove meritava di stare, perché, dopo la vittoria di Montaperti, si oppose a che Firenze, sconfitta, fosse distrutta».
E che ci dice delle cose di oggi? Questa nostra Italia, come la vede?
«Io ho creato la vostra lingua. Ho usato il cosiddetto “volgare”, gli ho dato dignità e grandezza poetica. Ho creato figure indimenticabili, come il poeta Sordello da Goito: è nel Purgatorio, ma pensa tanto alla sua patria, all’Italia, con nostalgia e dolore. Si ricorda?».
Sì.. quei versi indimenticabili, che spaventano un po’.
«Sono versi di rabbia. Molto più importante della nostalgia è la rabbia che ne sgorga, in cui si tramuta. “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, // non donna di provincie, ma bordello!».
Parrebbero adatti al nostro oggi, in un certo senso.
«Lo sono. Vivete in un Paese ancora ricco, forte, dotato di tradizione e bellezza incommensurabili. Perché non ve ne avvalete? Perché li gettate via? Lo sa cosa ho sentito dire?».
Che cosa?
«Che a Firenze, nella mia città, la più bella città del mondo, ovvia… me lo faccia dire! Insomma, a Firenze non c’è modo di conservare ammodo le pergamene su cui scrivevamo ai miei tempi! Ma le pare possibile? Pare che non ci sia denaro per evitare l’umidità e il caldo! Ma dico io, siete andati sulla Luna! E non c’è modo di conservare le pergamene che narrano la storia e la memoria di una città come Firenze! Altro che intervistarmi: dovrebbe denunciare queste cose! Tutti i giornali, visto che ce li avete a disposizione, e anche quella cosa, Internet… tutto dovreste utilizzare, per un’invettiva come quelle mie, contro chi lascia andare a male la storia, la cultura, l’arte dell’Italia! Ah, potessi tornare indietro! Io scrivevo a mano, ci pensa? Potessi usare la stampa, potessi essere nato ai tempi di Gutenberg! Potessi scrivere cose da diffondere in centinaia, migliaia di copie! Sarei diventato il maggior polemista di tutti i tempi! La prego, mi dica: che ne penserebbe di un pamphlet sulla situazione politica ed economica del vostro tempo, che terminasse con “Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”?».
Penso che sarebbe un enorme successo, caro Dante, padre dell’Italia verso cui proviamo un amore dolceamaro. La ringrazio.
Elezioni: grande preoccupazione per gli investitori
Secondo il docente, «La politica in Italia è un problema: né destra né sinistra hanno la minima idea di come muoversi»
di Daniele Tamburini
Se ci limitassimo a guardare i fatti, la quota che sta toccando in questi giorni lo spread (cioè, il differenziale tra i nostri titoli di stato e quelli tedeschi) non è poi così dissimile da quella che contribuì a dare il colpo finale al governo Berlusconi, lo scorso novembre. E questo, nonostante l’opera di risanamento dei conti che il premier Monti ed il suo governo stanno portando avanti, anche con scelte dolorose e assai pesanti. Ovviamente, quella che terminò a novembre era un’altra storia: ma i timori e le perplessità stanno crescendo, e danno fiato anche a chi, come l’IdV, sostiene che Monti abbia fallito e che occorra andare al voto anticipato. Grandi manovre in vista delle prossime elezioni politiche? Senz’altro. Non se ne sottraggono, ormai da settimane, sia il Pdl che il Pd. Un’altra dimostrazione di poca responsabilità delle forze politiche? O magari, queste hanno davvero ragione, e la ricetta Monti non sta funzionando? Eppure, il nostro Paese è ancora robusto, sotto diversi punti di vista (ad esempio, nel manifatturiero), e ha un Pil neppure paragonabile a quello, per esempio, della Grecia. Ne parliamo con il professor Paolo Manasse, docente di Politica Economica all’Università di Bologna.
Professor Manasse, una domanda secca, per iniziare: perché lo spread vola, nonostante la virtuosità, riconosciuta da più parti, del lavoro del governo in direzione del risanamento?
«In questo periodo i mercati finanziari reagiscono a una serie di eventi, in parte di origine nazionale e in parte decisamente esterni all'Italia. Parte del problema, ad esempio ha a che fare con la crisi greca: è molto probabile che ci sia una opposizione da parte della Germania e del Fondo Monetario Europeo all'erogazione di una terza tranche di aiuti alla Grecia, e questi potrebbe portare al Grecia a uscire dall'area euro. Dall'altro lato c'è la crisi spagnola, che si sta aggravando notevolmente, facendo sfuggire i mercati. Del resto, ci troviamo in una situazione in cui l'Europa sembra non voler prendere delle decisioni definitive, e questo fa allontanare ulteriormente i mercati dalla zona Euro, che sta diventando sempre più fragile, tanto che iniziamo a sentire i primi scricchiolii anche in Germania. La tendenza dei mercati è sfuggire prima di tutto dai paesi con il debito più elevato, come l'Italia: le azioni restrittive del Governo potranno avere un effetto benefico nel lungo periodo, ma nel breve hanno un effetto negativo sull'economia. Del resto nel nostro Paese ci sono anche delle responsabilità nel non fare determinate scelte politiche attraverso la Banca d'Italia. Non dimentichiamo che il Fondo salva stati, senza l’aumento della sua dotazione, o senza la possibilità di ottenere credito illimitato da parte della Bce, è destinato a non decollare.
Perché la speculazione ha come obiettivo l’Italia? C’è una debolezza strutturale?
«Effettivamente è proprio così: l'Italia è caratterizzata da un'evidente carenza strutturale. E' il Paese che cresce meno in Europa e il fatto che i tassi di interesse aumentino costantemente mette ancora più in difficoltà la solvibilità dello Stato Italiano. Ricordiamo che l'aumento di un solo punto percentuale del tasso ci costa circa 20 miliardi, ossia la metà dell'incasso dell'Imu. Questo ci mette in una situazione di grande vulnerabilità».
Il premier Monti dice: se la situazione rispecchiasse la realtà delle cose, lo spread dovrebbe essere a quota duecento. È d’accordo?
«Nessuno può dire con certezza come potrebbero essere le cose. Quello che credo sia vero è che l'aumento dello spread riflette in parte ragioni che non hanno a che fare con l'Italia. Diciamo che su un 520 di spread, solo circa la metà dipende dalle scelte del nostro Paese».
Quanto ha inciso su questa situazione il rinvio a settembre della decisione della Corte costituzionale tedesca sullo “scudo antispread”?
«Credo non più di tanto. Anzi, direi che è stata una buona scelta quella di rinviare tale misura, in quanto attualmente lo scudo non ha soldi e non sarebbe efficace».
Rischio Spagna, rischio Grecia… sono rischi reali?
«Sono rischi molto reali. Se oggi dovessi scommettere qualcosa sulla Grecia, scommetterei sulla sua fuoriuscita dall'euro nel giro di un mese o poco più: a fronte della decisione della Germania di non continuare ad erogare aiuti al Paese, le speranze sono davvero ridotte al minimo. Allo stesso modo è reale il rischio in Spagna: in mancanza di un intervento europeo, le banche spagnole rischiano il fallimento, e lo Stato spagnolo non è in grado di salvarle. L'uscita della Grecia e un tracollo della Spagna influenzerebbero negativamente l'intera zona dell'Euro, con effetti decisamente pesanti».
L’instabilità politica del Paese, sempre in agguato, ha in ruolo in tutto questo?
«Secondo me sì. La prospettiva di una futura guida politica per il Paese, di destra o di sinistra che sia, è vista con grande preoccupazione da tutti gli investitori, in quanto nessuno dei due schieramenti ha la minima idea di come muoversi. Le proposte di Berlusconi in merito all'uscita dell'Italia dall'area Euro, poi, hanno avuto come unico effetto quello di far aumentare lo spread, e questo è un grave problema, visto l'attuale situazione recessiva del Paese».
Si è parlato molto, in questi giorni, del cosiddetto “meccanismo europeo di stabilità” (Esm), che è stato approvato proprio nei giorni scorsi, nonostante le molte contestazioni. Secondo lei potrebbe essere uno strumento efficace?
«Purtroppo no, in quanto esso non possiede risorse sufficienti per salvare Spagna e Italia. Questo strumento va a sostituire il Fondo europeo di stabilità finanziaria, ma ha una dotazione di circa 500 miliardi, decisamente insufficiente per ridurre lo spread. Tale fondo, tra l'altro, non solo non ha il capitale necessario, ma neppure la possibilità di ottenerlo indebitandosi presso la Banca Centrale europea. Dunque se il fondo di intervento, per il quale Monti si era strenuamente battuto, non ha risorse illimitate e gli squilibri persistono, il regime di fissazione dei prezzi prima o poi collasserà. Ad un certo punto si avrà un attacco speculativo dove gli investitori, che anticipano la caduta del prezzo, venderanno in massa al fondo di stabilizzazione, esaurendone le risorse. Questo fondo, quindi, potrebbe addirittura peggiorare la situazione».
lunedì, luglio 23, 2012
Le interviste impossibili: Karl Marx
Quante volte ci siamo chiesti: se Dante fosse messo davanti allo schermo di
un computer, e osservasse la scrittura che nasce attraverso gli impulsi su una
tastiera, piuttosto che dal movimento articolato della mano, cosa direbbe? E se
Newton conoscesse gli studi sul bosone di Higgs? E Mozart, condotto ad un
concerto rock? E se Maria Curie potesse osservare gli esiti diagnostici e gli
sviluppi della scoperta del radio? E Napoleone, se vedesse una guerra condotta
con missili e droni? Il gioco potrebbe continuare all’infinito, in un rimando di
citazioni e meraviglie ininterrotto. Allora, ci siamo detti: proviamo. Proviamo
a far parlare alcuni di questi personaggi, ponendo loro domande sul nostro oggi.
Una sorta di “interviste impossibili”: con quel tanto di leggero ed ironico –
vogliamo sperarlo – da risultare di piacevole lettura.
di Agostino Francesco Poli
“Sì, ma ho un po’ di fretta. Devo discutere di alcune questioni con il mio amico Friedrich. Abbiamo lasciato in sospeso la definizione del socialismo scientifico”.
Mi scusi: Friedrich Engels?
“E chi, altrimenti?”
Bene, faremo presto. Lei ha indubbiamente segnato la storia del mondo, ma poi, per un po’ di tempo, è parso che il suo pensiero fosse messo in soffitta. Salvo essere richiamato proprio oggi, nella crisi attuale, in cui si parla di crisi di capitalismo, di rapporti di produzione etc.. Come ci si sente a sapere di averci visto giusto?
“Sbaglio, o qualcuno, dalle vostre parti, pochi anni or sono, parlava di “fine della storia”? Stupidaggine! Non mi sono mai divertito tanto, a leggerlo. Io ho sostenuto che la forza motrice della storia è la lotta di classe, che sono sempre esistite classi dominanti e classi dominate, e che la storia è un continuo movimento perché questa dialettica si trasformi. Altro che fine della storia! La vostra crisi, lo sa cos’è?”
No, ce lo dica…
“E’ un terribile, feroce, violento tentativo di riorganizzazione del capitale. Non è elegante autocitarsi, ma …”
Lo faccia, lo faccia…
“Ho scritto: "a un certo livello di sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà". Le forze produttive dell’Occidente sono entrate in contraddizione con fenomeni che non hanno potuto o saputo gestire (come la chiamate? La globalizzazione. O le stesse ondate migratorie, sintomo e risultato di una incredibile capacità di circolazione delle merci).
E allora?
“Io non ho scritto i Vangeli. Ma nelle mie pagine ci sono ancora molti spunti per cercare di leggere il vostro presente e trovare una via di uscita. Oggi, lo so, è tutto cambiato. Continuo a studiare, sa? L’organizzazione del lavoro e dei mercati è sconvolta, la divisione del lavoro e della geografia del potere pure; insomma, c’è una nuova configurazione dei soggetti che si confrontano. Ci sono nuove figure dello sfruttamento ( so dei precari, so dei lavoratori in nero), ma credo anche sia possibile fare leva sui punti di crisi e elaborare una nuova teoria del “valore comune”. Specie dopo quel che è successo al comunismo …”
Già. Uno dei motivi per cui lei è stato messo nella soffitta di cui parlavamo…
“Bah. A parte che le soffitte sono luoghi molto interessanti, devo dirle che il crollo dell’URSS non mi ha fatto strappare i capelli (e guardate che ne ho ancora tanti!). Chi ha voluto l’URSS fatta nel modo in cui venne realizzata, aveva letto poco di mio. Mi creda”.
Torniamo alla crisi. Ne usciremo?
“Non allo stesso modo in cui eravate, quando ci siete entrati. Ma senta, adesso faccio io una domanda: perché vi fanno tanta paura parole come “conflitto”, “classe”, “sfruttamento”? Basta assumere il fatto che esiste il punto di vista del capitalista, ma anche il punto di vista del lavoratore. Basta accettare che il capitalismo non sia un despota irresistibile, ma che la storia si svolge su uno scacchiere in cui il giocatore non è unico. Sono tanti i soggetti e le energie che possono confrontarsi e temperare la violenza della riorganizzazione capitalistica. È assurdo non riconoscerlo. È antistorico”.
Sta andando nel difficile…
“Voglio dire che il vostro mondo, quello che chiamate welfare, la protezione sociale e sanitaria eccetera sono nate dalla contraddizione, che sempre si rinnova, tra capitale e lavoro. Anche quando il lavoro è poco o nullo, come sta accadendo ora. Ho scritto che la macchina, nella sua relativa indipendenza, trasmette sì valore al prodotto, ma come lavoro morto. Solo l’attività degli operai, il lavoro vivo, permettono alle macchine di essere produttive. Sento parlare tanto di capitale finanziario, di finanziarizzazione. A parte che la parola è orribile (io scrivevo bene, sa?), ma dove sta, lì, il lavoro vivo? Non sarà che da lì nascono tanti problemi? Ma ora mi scusi, ho davvero un impegno”.
Con Engels…
“Mmm … beh, no: con Jenny, mia moglie. È baronessa di nascita, sa? Ed è intelligentissima, colta, politicamente molto consapevole. Ci scambiamo lettere anche se stiamo lontani solo un giorno. Oggi ne è arrivata una: io le avevo scritto … lo vuole sapere?
Certo!
“Io ti ho viva davanti a me e ti porto in palmo di mano, e ti bacio dalla testa ai piedi, e cado in ginocchio e sospiro: "Madame, io vi amo!”.
Bellissima frase! E sua moglie?
“Mi ha scritto una dolce lettera, indirizzata al “mio barbuto cinghialotto”
Grazie, Herr Marx. E porti i miei rispetti alla sua signora.
Le forbici sono utili, se c’è stoffa da tagliare
Vorrei essere chiaro: non intendo sparare su Monti, a prescindere. E' un
governo che si e' trovato a gestire una situazione devastata e fortemente
compromessa, e anche un po' imbarazzante. Ha fatto cose importanti: basti
pensare che ha dato dignità e valore a chi paga le tasse. Ci ha evitato - per
ora - il default. Ha assunto una nuova dignità in Europa. Ma, a volte, sembra
che navighi un po' a vista. Non starò a ripetere la solita cosa dei
provvedimenti tutti, o quasi, assunti sul piano dei tagli di spesa e delle
tasse, e scarsi sul piano degli investimenti e dello sviluppo. Ci sono, però,
alcuni elementi che davvero lasciano perplessi. Pensiamo alla questione
riduzione delle ferie e accorpamento delle feste patronali al sabato o alla
domenica. Per ora non ne fanno di nulla, ma un sottosegretario, Polillo, le
invoca a spada tratta e dice che solo in Italia c'e' la cattiva abitudine a fare
il "ponte". Scusate, ma c'e' di che essere allibiti. Le ferie? quando il lavoro
non c'è, o ce n'è poco, davvero le ferie sono un problema? Le statistiche dicono
che un italiano lavora come un giapponese, più di un tedesco. Il problema della
produttività, allora, sta nella qualità di cosa si fa, non in quanto si lavora.
Il problema sono gli investimenti in tecnologia e ricerca, per esempio. E
l'abolizione dei "ponti"? Che ne pensano gli albergatori, i ristoratori? Non
avevamo bisogno di far ripartire lo sviluppo, di cui il turismo e' una leva
importante? Non dovremmo incentivare, visto che abitiamo nel Paese più bello del
mondo, anche il turismo interno, oltre che quello d’oltreconfine? Non so, sono
confuso. Vorrei capire che senso hanno questi annunci, se non ad aumentare la
confusione. Però vorrei dire al premier Monti una cosa di semplice buon senso:
che le forbici sono utili, ma quando c'è stoffa da tagliare.
Daniele Tamburini
sabato, luglio 14, 2012
Intervista a Guglielmo Forges Davanzati: «Il vero problema italiano? basso tasso di crescita e elevato disavanzo della bilancia dei pagamenti»
«Le politiche di austerità hanno effetto recessivo»
di Daniele Tamburini
di Daniele Tamburini
Le misure previste nel decreto legge n. 95 del 6
luglio scorso (quello sulla cosiddetta spending review, o revisione della spesa
pubblica) impattano fortemente su una spesa pubblica già sottoposta a tagli e
riduzioni di trasferimenti statali da anni a questa parte. Dopo le tasse e le
imposte, la riorganizzazione della macchina pubblica e la razionalizzazione
della spesa. È presto per dire se tutto ciò porterà a ridurre gli sprechi o,
piuttosto, a tagliare servizi. Alcune misure – vedi i tagli alla ricerca e la
sostanziale deregulation della possibilità di aumentare le tasse universitarie -
sembrano stridere con le intenzioni di crescita e sviluppo. Altre lasciano nel
limbo di “decreti attuativi” la riorganizzazione della macchina pubblica
periferica (la riduzione del numero e delle competenze delle Province). Sono
pesantemente coinvolti la sanità (siamo sicuri che un piccolo ospedale è
comunque inefficiente?) e la giustizia. Sono ancora previsti grandi tagli alla
spesa delle Regioni e degli enti locali (alcuni hanno paventato di non poter
riaprire le scuole a settembre). Sono tagliati gli organici di dirigenti e
dipendenti pubblici (ma che fine farà, questa gente?). E la reazione del Paese?
Protestano i sindacati, la Confindustria (ma con toni parzialmente attenuati,
dopo il primo giudizio di Squinzi, che ha parlato di “macelleria sociale”, e la
reprimenda di Monti) e la società civile. Alcuni economisti continuano a
sostenere che la ripresa certamente non passa da tagli, riduzione di servizi,
licenziamenti. Ma, nelle forze politiche, almeno in quelle rappresentate in
Parlamento, c’è accettazione, a volte non molto convinta (quasi che sia
l’ennesimo amaro calice da sorbire), a volte vigorosa (alcuni esponenti Pd hanno
scritto che il loro partito dovrebbe portare l’agenda Monti nella prossima
legislatura). La grande stampa plaude alle misure del governo, che incassa
l’approvazione di Ue e Bce. Insomma, tutto bene? Ne abbiamo parlato con
Guglielmo Forges Davanzati, docente di economia politica all’Università del
Salento e saggista. Professore, vorrei partire proprio da questo: se la metà
delle misure di spending review attuate o in via di attuazione da parte del
governo Monti fossero state realizzate dal governo Berlusconi, si sarebbe
verificata, su molti versanti, una vera e propria sollevazione. Adesso non è
così. Perché? Cosa è cambiato, rispetto a un anno fa?
Il Governo Monti fa gioco
sullo stato di emergenza e, in larga misura, lo crea, diffondendo il timore di
attacchi speculativi determinati da un eccessivo debito pubblico e il
conseguente possibile fallimento dello Stato italiano. Occorre preliminarmente
rilevare che un elevato debito pubblico non costituisce in sé un problema, se è
data alla Banca Centrale la possibilità di acquistare titoli di Stato non
acquistati da privati (il che non nelle prerogative della BCE). In altri
termini, la teoria economica, ad oggi, non è in grado di stabilire il limite di
sostenibilità del debito pubblico, se non rinviandolo a fattori extra-economici
che, per loro natura, attengono alla sfera delle decisioni politiche. Non si
spiegherebbe diversamente per quale ragione, a titolo esemplificativo,
l’economia giapponese non ha un problema di eccesso di debito pubblico con un
rapporto debito/PIL che supera il 220% (a fronte del 120% italiano). Il problema
italiano consiste semmai nella fragilità dei c.d. fondamentali: basso tasso di
crescita ed elevato e persistente disavanzo della bilancia dei pagamenti,
innanzitutto.
Qual è il suo giudizio complessivo sul decreto legge cosiddetto di
spending review?
La spending review è, nonostante quanto afferma il Presidente
del Consiglio, una manovra fiscale di massicce dimensioni, che viene legittimata
dalla lotta agli sprechi. “Spreco” è forse il termine più ricorrente nel
dibattito politico italiano degli ultimi anni, eppure il suo esatto significato
è piuttosto oscuro. Non si tratta, in questo caso, di avventurarsi in una
disquisizione linguistica, ma di interrogarsi sugli effetti che l’uso di questo
termine ha sulle principali scelte di politica economica. Il provvedimento sulla
spending review (revisione di spesa) intende legittimarsi precisamente intorno a
questa parola d’ordine, dato l’assunto (tutto da dimostrare) che tutto ciò che è
pubblico è fonte di spreco, inefficienza, corruzione. La chiusura di ospedali,
il licenziamento di funzionari pubblici, la decurtazione di fondi per la
ricerca, la soppressione o l’accorpamento di Enti considerati inutili, la
riduzione del numero di Province asseconda appunto il progetto dichiarato di
riduzione degli sprechi. Il fine dichiarato è rendere la pubblica
amministrazione più efficiente: il risultato consiste nell’ulteriore drammatica
manovra di contrazione della spesa pubblica, con inevitabile aumento della
disoccupazione e minore quantità (e qualità) di beni e servizi offerti dallo
Stato, ovvero riduzione del potere d’acquisto delle famiglie. Si calcola che le
misure adottate generano un effetto di decurtazione della spesa pari a 4,5
miliardi di euro per 2012, 10,5 miliardi per il 2013 e 11 miliardi per il 2014,
con particolare riguardo ai tagli dei servizi sanitari (circa 13 miliardi di
euro). Il tutto senza ridurre l’aumento dell’IVA, che verrà posticipato e che
ammonterà a circa 4 miliardi di euro, in una condizione nella quale – in assenza
di queste misure – il tasso di crescita previsto per il 2013 era di segno
negativo, nell’ordine del meno 2-2.5%. Giorgio Squinzi, Presidente di
Confindustria, ha definito questa manovra macelleria sociale. Difficile dargli
torto. Va rilevato che il provvedimento di revisione di spesa parte da un
assunto falso, ovvero che, nell’ultimo trentennio, la spesa pubblica in Italia
sia sempre aumentata. Su fonte Banca d’Italia, si rileva, per contro, che, a
partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a
contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000
miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal
51,7% al 50,8% del PIL nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione
dell’incidenza della spesa sul PIL, che raggiunge il 49,2%. Interessante
osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal
1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua
crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al PIL
sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo
puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su PIL, in
Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania. Il documento
ministeriale imputa l’aumento della spesa pubblica nell’ultimo trentennio
unicamente a una sua gestione inefficiente (p.e. la duplicazione delle funzioni
a livello centrale e locale). Anche in questo caso, ci si trova di fronte a una
tesi opinabile, per due ragioni. • 1. Senza negare che sprechi e inefficienze ci
sono (e ci sono stati) nella gestione della cosa pubblica, occorre considerare
che l’aumento della spesa pubblica, nel periodo considerato dal documento
ministeriale, è stato essenzialmente finalizzato all’ampliamento delle funzioni
dello Stato sociale (come del resto è accaduto nella gran parte dei Paesi OCSE,
in quel periodo) che, a sua volta, si è reso necessario per venire incontro alla
crescente domanda di giustizia distributiva in una fase storica caratterizzata
da un elevato potere contrattuale dei lavoratori e delle loro rappresentanze
nell’arena politica. Appare, dunque, a dir poco riduttivo ritenere – come fa il
Governo – che la spesa pubblica è aumentata perché è stata gestita male. • 2.
Non è chiaro perché la revisione di spesa venga effettuata a partire
dall’andamento dei valori assoluti della spesa pubblica. L’andamento del valore
assoluto della spesa pubblica non tiene conto delle variazioni del tasso di
inflazione, così che non si hanno informazioni relative al suo andamento in
termini reali. In ogni caso, anche assumendo l’ipotesi governativa, si rileva –
su fonte Bundesbank – che, con la sola eccezione del 2004 e del 2011, la spesa
pubblica in valore assoluto in Germania è costantemente aumentata. Può essere
sufficiente rilevare che, nel triennio 2008-2010, la spesa pubblica in Germania
è aumentata, nel 2008, del 3,16%, del 4,66% nel 2009 e del 3,8% nel 2010, e ben
oltre il tasso d’inflazione, quindi anche in termini reali. L’aumento è
imputabile essenzialmente alla crescita degli investimenti pubblici, dei salari
dei dipendenti pubblici e della spesa per il pagamento degli ammortizzatori
sociali.
La spesa pubblica è davvero così mal gestita e pesante, nel nostro
Paese?
Ovviamente in alcuni casi lo è, e lo è soprattutto nelle aree nelle quali
è alto il tasso di disoccupazione, dal momento che lì la Pubblica
Amministrazione svolge la funzione (impropria) di datore di lavoro di ultima
istanza. Se si pone la questione in questi termini, occorrerebbe creare semmai
le condizioni per un aumento dell’occupazione per rendere meno frequenti i casi
di corruzione e cattiva gestione della cosa pubblica.
Si tratta di misure che
impatteranno sulla qualità del welfare, o ne avremo un beneficio in termini di
risparmio e razionalizzazione? In quale rapporto sta questa manovra con la
riforma dell’articolo 81 della C.I., con cui è stato inserito in Costituzione
l‘obbligo del pareggio di bilancio?
Non vedo alcun vantaggio. Si tratta, come
nel caso dell’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione,
dell’accelerazione di politiche di austerità il cui unico effetto è recessivo.
In più, le politiche di austerità (aumento dell’imposizione fiscale e riduzione
della spesa pubblica) sono del tutto inefficaci per l’obiettivo che si
propongono – ovvero ridurre il rapporto debito pubblico/ PIL. Ciò per le
seguenti ragioni: • 1.La riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della
pressione fiscale) riduce l’occupazione e dunque la produzione, con il risultato
che, sotto date condizioni, il rapporto debito/PIL può semmai aumentare; • 2. La
riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della pressione fiscale),
riducendo l’occupazione, riduce la base imponibile e, dunque, anche per questa
via, può accrescere il rapporto debito pubblico/PIL; • 3 La riduzione della
spesa pubblica (e/o l’aumento della pressione fiscale) riduce i mercati di
sbocco a danno soprattutto delle imprese che operano su mercati locali,
riducendone i profitti (o determinandone il fallimento) con ricadute negative su
occupazione e PIL. Anche per questo meccanismo, quanto meno si spende (e quanto
più si tassa) tanto più ci si indebita e tanto più si riduce la crescita.
Perché
– e lo si vede anche dai sondaggi – l’opinione corrente maggioritaria è che la
spesa, l’amministrazione e il lavoro pubblico siano fonti di inefficienza?
Non
c’è dubbio che zone di inefficienza esistono, e – nella quotidianità – si
sperimentano spesso. Ovviamente l’opinione corrente può essere largamente
influenzata dalla propaganda dominante, ma va sottolineato che l’intervento
dello Stato in economia è ciò che ha permesso la costituzione di un sistema di
Welfare che oggi si intende smantellare. La sola possibile alternativa,
perseguita da questo Governo, consiste nel privatizzare anche i servizi pubblici
essenziali (sanità e istruzione, in primis). L’esperienza storica recente
dimostra in modo inequivocabile che laddove si privatizza la qualità del
servizio non sempre migliora, mentre l’unico effetto certo riguarda l’aumento
dei prezzi.
Che fine sta facendo il “contratto sociale”?
Verrebbe da chiedersi: ma perché si è cittadini? A scuola ci parlavano del
contratto sociale. Per far parte di uno Stato, ognuno di noi deve sottostare ad
alcune regole: per esempio, pagare le tasse, osservare le prescrizioni del
codice penale, del codice civile, e così via. In cambio, il cittadino sa che la
sua sicurezza è tutelata, che i figli potranno andare a scuola, che verrà curato
se si ammala, che riceverà una pensione al termine della sua vita lavorativa,
eccetera. Perlomeno, queste erano certezze fino a poco tempo fa. Mi sembra che
questo sistema di certezze si stia sgretolando, e forse sta qui la radice della
grande paura che si sente crescere intorno. Altro che lo spread, ci pare di
capire. Qui, se le compatibilità di bilancio non ci sono, tagliano la
possibilità che tuo figlio possa frequentare l’università e che tu venga curato.
Hai lavorato una vita, ti propongono l’”esodo”, poi scopri che non ci sono soldi
per la pensione e così non hai né quella né il lavoro. O comunque non si hanno
più certezze su quando potrai andare in pensione. Ma il patto, il contratto,
dove sono finiti? Lo Stato non sta più onorando i suoi impegni nei confronti dei
cittadini? Chi ha pagato le tasse, ha lavorato, si è comportato bene, quindi ha
onorato le clausole contrattuali, pretende, giustamente, che vengano rispettati
anche gli obblighi contratti dall’altra parte. Del resto lo stesso Mario Monti
evoca il contratto sociale, quando dice che l’evasione fiscale è una grave
violazione del patto tra Stato e cittadini. Sicuramente ha ragione. Ma allora,
cosa dovrebbero dire i cittadini? Quando lo Stato non rispetta i patti, a quale
giudice dovrebbero appellarsi? E’ a questo punto che la Politica con la P
maiuscola dovrebbe, attraverso i partiti, farsi interprete… Per adesso,
attendiamo fiduciosi.
Daniele Tamburinisabato, luglio 07, 2012
Ma che colpa abbiamo noi?
Sapete una cosa? A me, come cittadino, questa continua chiamata in causa per
condividere le colpe e le responsabilità' della crisi è venuta a noia. E' un
coro di voci del tipo: siamo tutti responsabili, quindi tutti dobbiamo fare
sacrifici. Ci ricordano continuamente che i conti dello Stato sono in dissesto
per colpa della cattiva gestione della cosa pubblica, protrattasi per tanti
anni. Sarà mica colpa mia? Sembrerebbe di sì, visto che anch’io, come quasi
tutti gli italiani, sono chiamato a risponderne. Aumento delle tasse, aumento
delle tariffe, età pensionabile che si eleva, minori servizi… Il fatto è che,
quando la colpa è di tutti, non è poi di nessuno. Scrive il professor Giacomo
Vaciago, nell'intervista che pubblichiamo su questo numero: “In Italia stiamo
pagando il costo dei tanti errori commessi”. Nella vita ho certamente commesso
tanti errori, ma non tali, credo, da aver procurato questo sfascio nello Stato.
Pertanto, fuori i colpevoli, ma che siano i colpevoli veri, e comincino a pagare
anche i responsabili del dissesto. Nel decreto sulla spending review ho visto un
accanimento contro i dipendenti pubblici, quasi a rispondere a un diffuso
sentimento, presente nell’immaginario collettivo, di rifiuto di tutto ciò che è
pubblico, frutto di anni di campagne mediatiche superficiali e qualunquiste. Ma
non ho visto gli annunciati tagli agli armamenti. Vorrà dire che saremo anche un
paese con le pezze al culo, ma armato fino ai denti. Evviva.
Daniele Tamburini
Daniele Tamburini
sabato, giugno 30, 2012
Avulsi dalla realtà
L’Italia batte la Germania, almeno sul campo di calcio, e che gran bel calcio: una lezione. È presto per commentare gli esiti del vertice europeo in corso, ma sappiamo che la partita, lì, è dura, più che a Varsavia. Intanto, nonostante la cancelliera tedesca avesse detto che non le piaceva proprio il piano antispread di Monti, sembra ci sia stato accordo sull’individuazione delle misure per salvare l’euro. Vedremo. Qualcuno (Guido Gentili) ha detto che l’Italia, così come si è presentata a Bruxelles, è un Paese con il fiato grosso che cammina sull’orlo del precipizio. Lo sanno i commentatori, i giornalisti, gli analisti. Lo sa Monti. Lo sa, anche troppo bene, la gente comune. Lo sanno tutti? No. I politici, no; o almeno, questo appare dalle dichiarazioni che continuano a rilasciare. Roba da non credere. Prima l’uscita di Berlusconi: “pronto a fare il ministro dell’economia (sic) in un governo Alfano” (poi, come da copione, ha fatto marcia indietro, ma il danno ormai era fatto … ed è costato 16 punti di spread). Poi fanno intendere di voler andare al voto anticipato: sarebbe un disastro. Da ultimo Cicchitto, e qui siamo sul surreale, che sbraita: “Non toccate le nostre ferie, se ci toccate Agosto sarà crisi”. Una frase la sua che, se mai ce ne fosse stato bisogno, ha fatto imbufalire milioni di persone. La maggioranza dei politici sembra essere distaccata dalla realtà, lontana dai problemi della gente, ai cui la politica non dà risposte. Il loro teatrino sembra, a volte, rasentare la schizofrenia, non si rendono conto di quanto sta accadendo. Ormai da tutte le parti, è un coro, un boato, una marea che monta: di questa politica, di questi politici non ne possiamo più. Si gingillano con percentuali elettorali, calcolate però su chi vota. Nei sondaggi, ad esempio, il Pdl è dato al 17% dei votanti, ossia di circa il 62%; ma più propriamente questo 17% corrisponde a poco più del 10% degli aventi diritto al voto. Cari signori, se non vi svegliate, se non vi date una mossa, Grillo vi sommergerà. Grillo porterà a votare i delusi, gli arrabbiati, … tutti coloro che vorrebbero fare piazza pulita, nel bene e nel male. Altro che alchimie, altro che alleanze, altro che giochini di potere. E magari ci governerà, a furor di popolo, chi è pieno di buona volontà, ma che è senza esperienza, senza idea di come muoversi, orientarsi, comportarsi. Quando, oggi più che mai, c’è bisogno di persone preparate, competenti. Abbiamo visto le fatiche di Pizzarotti a Parma nel comporre la giunta. Eppure, i Berlusconi i Cicchitto i Maroni i Bersani i Casini dichiarano, e poi ancora dichiarano, e magari dichiarano... Un Paese in affanno sull’orlo del precipizio? Non lo so, ma certi politici sembrano danzare sulla tolda del Titanic, mentre la nave affonda.
Daniele Tamburini
sabato, giugno 23, 2012
Dateci almeno un senso di futuro
Sono tempi strani. Si dice che il premier Monti debba presentarsi, al vertice
europeo del prossimo 28 giugno, con "qualcosa" in mano: riforma del lavoro,
spending review etc. Ammettiamolo: c’è qualcosa di un po' surreale
nell'immaginare l'austero ex rettore della Bocconi nei panni di uno studente con
il compito fatto. Intanto, le notizie sicuramente positive del decreto sviluppo
rischiano di essere sovrastate dal continuo senso di allarme in cui viviamo.
Tante uscite estemporanee (la riduzione delle ferie? La mobilità per gli statali
ultrasessantenni? Il moltiplicarsi, ahimè non dei pani e dei pesci, che
aiuterebbe molti, di questi tempi, ma degli esodati?). Si apre il giornale e non
si sa cosa aspettarsi. Invece la gente avrebbe bisogno di sperare in qualcosa,
di vedere una luce in fondo al vicolo scuro e accidentato che percorriamo;
avrebbe bisogno di essere certa che sta facendo sacrifici per il proprio futuro
e per quello dei figli, invece che per combattere lo spread. Ma che spread
d'Egitto, avrebbe detto Totò... Intanto, Monti potrebbe chiedere l'allentamento
del patto di stabilità: 13 città metropolitane italiane potrebbero rimettere in
circolo fondi per circa un miliardo di euro, che hanno lì, congelati, e che non
possono spendere, fino a giungere a triplicarli, se potessero usare le giacenze
di cassa. Sarebbe una bella boccata di ossigeno, lavoro, pagamenti,
manutenzioni... insomma, un senso di futuro. Andremo in pensione più tardi,
abbiamo pagato l’Imu, pagheremo sempre di più i servizi sociali, stiamo facendo
rinunce... Io credo che sia giunto il tempo di cominciare a pretendere, almeno
questo: appunto, il senso di futuro.
Daniele Tamburinisabato, giugno 02, 2012
Diteci come stanno realmente le cose, perché stiamo diventando nervosi
Non ditemi che si tratta di un problema di linguaggio. Primo, le parole sono
importanti; secondo, attraverso il linguaggio, per fare un esempio, si educa.
C’è poco di educativo nel dire che il calcioscommesse è opera di 40-50
“sfigatelli”. Prandelli lo avrà detto con tutte le migliori intenzioni del
mondo, ma le parole, appunto, sono importanti. E Buffon che si indigna? Io,
quando la Nazionale giocava e si comportava bene, ero orgoglioso del mio Paese.
Ne sono sempre orgoglioso, nonostante tutto. Certo non di quel che esprime il
suo calcio. Non lo sono neppure granché del fatto che alcuni velivoli della
nostra aeronautica militare verranno presto armati con missili e bombe a guida
satellitare. Pare che siamo l’unico alleato ad aver ricevuto da Washington i
cosiddetti “droni” e i relativi armamenti. Non so: che costi comporterà, tutto
questo? Ma non dovevamo lavorare alla “spending review”? E le spese militari,
non sono spesa pubblica? Sarà un mio limite, ma no, non ne sono orgoglioso. Lo
sono, quando vedo il coraggio, la dignità, il senso del lavoro e dell’impegno
ostinato e tenace delle popolazioni dell’Emilia, che lo dimostrano anche sotto
le macerie. Quando vedo la catena di solidarietà e di reciproco aiuto che si è
messa in moto. Voglio solo sperare che non ci siano telefonate dove qualcuno
ride, pregustando affari futuri, e che non finisca come a L’Aquila: dice che
anche il premier sia preoccupato del precedente abruzzese. A proposito: e Monti?
Lo spread è a 460: ciò che è stato fatto finora non è servito a niente?
L’allarme nazionale non c’è più? Allora, fatemi capire: dove sta la verità? In
mano a chi siamo, veramente? Delle banche e della finanza non parla più nessuno:
si sono tutti redenti? L’INPS chiude il 2011 con un attivo di 831 milioni di
euro: ma come? Sembrava non ci fossero più soldi per le pensioni. Ci vorrebbe
gente seria e che dica la verità.
Daniele Tamburini
sabato, maggio 19, 2012
Una maschera per ogni occasione
Mi dicono persone che sono state recentemente in Grecia: “E’ una specie di
incubo. Il centro di Atene è quasi spettrale, la povertà è palpabile”. La
minaccia Grecia continua ad essere agitata anche davanti a noi italiani, che
siamo ancora e comunque vulnerabili, insieme alla Spagna. Oggi vorrei scrivere
quasi soltanto domande. Lo spread è risalito, ma l'allarme che crea, mi pare, è
più contenuto rispetto a qualche mese fa: perché? Abbiamo sopportato e stiamo
sopportando sacrifici enormi. A causa dell'emergenza finanziaria? A causa di
problemi strutturali dell'economia? Per tutti e due gli aspetti? Vado avanti:
per il primo, il nuovo presidente della Consob Giuseppe Vegas, vice ministro
all’economia nel governo Berlusconi, tuona contro lo strapotere della finanza.
C’è da trasecolare: dov'era, finora? L'ABI, invece, tuona anch'essa, ma contro
il declassamento delle banche italiane. Perfetto, ma perché tuonano solo ora?
Finché la finanza ha fatto comodo e ha fatto salire i profitti, andava tutto
bene: è questa la verità? Finche' la Grecia era un bersaglio della speculazione
a vantaggio di molti, l'Europa ha fatto molto poco. Ora ha paura. Ho letto che
il ritorno alla dracma ridurrebbe alla fame chi ancora, là, riesce a
galleggiare. Ma questo interessa poco: ora sono preoccupati e fanno la faccia
seria gli allegri compari di qualche tempo fa. In Italia, in Grecia, in Europa.
Molti di coloro che parlano hanno davvero tante maschere a disposizione: al
momento buono, ne tirano fuori una. Tanti Soloni in maschera. Sarà per quello
che la gente si è affidata ad un comico che adesso ha la faccia seria? E spera
che non abbia figli bisognosi di "paghette" di 5000 euro mensili? Speriamo di
non dover dire: e la farsa continua...
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Intervista al professor Angelo Baglioni (Lavoceinfo) "Se la Grecia esce dall’euro si rischia l’effetto contagio"
Sembra che non se ne possa uscire. Gli italiani stanno facendo - stiamo
facendo - sacrifici enormi, per qualcuno insopportabili, ma ci sono eventi,
apparentemente incontrollabili, che stanno alimentando nuova speculazione. Lo
spread torna a crescere, con effetti molto negativi sul debito pubblico. Sembra
non esserci via di uscita. Colpa solo dell'ingovernabilità della Grecia? Lo
abbiamo chiesto ad Angelo Baglioni, docente di economia politica all'Università
Cattolica di Milano.
Professor Baglioni, le Borse perdono, lo spread è di nuovo
stabile sopra i 400 punti: i sacrifici chiesti agli italiani sono quindi
inefficaci?
«I sacrifici che sono stati richiesti dal Governo attraverso il
Decreto "Salva- Italia" erano necessari per fare uscire il nostro Paese da una
situazione pericolosa come quella che si era venuta a creare. Non avremmo potuto
fare altrimenti. Bisogna poi valutare il fatto che la crisi greca potrebbe
precipitare, comportandone l'uscita dall'area euro. Ciò per l'Italia potrebbe
avere un peso in termini di incremento dei tassi di interesse, per cui ci
metterebbe nella condizione di non essere in grado di far fronte agli oneri.
Questo ci porterebbe a dover rifare i nostri conti. Se si verificasse un effetto
contagio, si dovranno mettere in campo misure correttive, oppure si dovrà
prendere atto del fatto che non sarà possibile raggiungere il pareggio di
bilancio nel 2013.
Il problema è solo l'impossibilità di formare un nuovo
governo in Grecia?
«Il problema è, in primo luogo, proprio quello, ossia la
frantumazione politica della Grecia, che sembra non permetterle di formare un
nuovo governo. Ma se anche ci riuscisse, si dovrà poi vedere quale sarà
l'atteggiamento dei nuovi eletti nei confronti degli accordi presi con l'Unione
Europea nel Memorandum d'Intesa siglato alcuni mesi fa, in cui l'Europa si
impegnava sì a sostenere il Paese ma a fronte di una richiesta di sacrifici e
restrizioni. Se il nuovo governo dovesse rinnegare tale accordo, l'Europa
potrebbe tenere ferma la sua posizione di rigore e portare la Grecia a uscire
dall'area Euro.
Ma cosa succederebbe all'Eurozona se la Grecia dovesse uscirne?
«Il rischio è l'effetto contagio. L'Unione Europea, infatti, è sempre stata
fondata sull'irreversibilità: si può entrare, ma non è possibile uscirne. Si è
scelto di proposito di menzionare la possibilità di uscita negli atti
costitutivi dell'Unione monetaria europea, allo scopo di dare più forza e
credibilità alla moneta unita. Se questo dovesse avvenire comunque, con
l'allontanamento della Grecia, si romperebbe il presupposto
dell'irreversibilità, e si verrebbe a creare un precedente, per il quale i
mercati potrebbero aspettarsi l'uscita di altri paesi, come Italia, Spagna o
Portogallo. Questo rischio comporterebbe un incremento delle richieste di
compensazione economica nell'acquisto dei titoli di tali paesi: chi comprasse,
quindi, titoli italiani (o di altri Paesi nella stessa situazione), privati o
pubblici, potrà richiedere un tasso di interesse maggiorato. Una situazione
simile potrebbe portare al dissolvimento dell'area Euro nel suo complesso, con
il rischio di fare dei passi indietro nel processo di integrazione dell'Europa
iniziato mezzo secolo fa, e che ha visto nella costituzione della moneta unica
la sua tappa finale».
Perché l'Europa non riesce a fare fronte alla speculazione
dei mercati?
«Perché non esiste una linea d'azione univoca da parte dell'Europa.
La politica seguita dalla Merkel e da Sarkozy è stata molto incerta, e ha
seguito male il problema della Grecia, che si trascina da due anni e mezzo senza
una soluzione. E' mancata una strategia europea di lungo periodo, e si sono
sempre cercate soluzioni dell'ultimo minuto, prese in base alle pressioni dei
mercati. Questo non ha permesso ai mercati di capire con chiarezza in che
direzione si stava andando, e ha impedito che si ancorassero delle aspettative.
Oggi le cose sono ancora così: si fanno dichiarazioni ambigue, continuando a
ondeggiare tra la solidarietà e la linea dura».
Il cambiamento nell'asse
politico tra Parigi e Berlino, con Hollande presidente, che effetti avrà?
«Il
fatto che ora sia Hollande a tenere le redini del Governo francese, accanto al
fatto che l'Italia ha un nuovo Presidente del consiglio che in Europa ha più
peso di quello precedente, può portare a un ammorbidimento della linea tedesca e
all'affrontare con più forza i temi della crescita economica. Non si può pensare
solo al rigore dei conti: la crescita dell'Europa è fondamentale per risolvere i
nostri problemi». Hollande ha posto il tema degli Eurobond: lei che ne pensa?
«Ho una visione favorevole rispetto a questa proposta, di cui condivido la
filosofia di fondo. Il fatto di avere una garanzia comune che consenta di
ridurre lo spread per tutti i paesi, rendendo simile per tutti il costo del
debito. Al momento, tuttavia, ritengo sia poco probabile che i tedeschi
accettino una soluzione di questo tipo: per i paesi più forti, infatti, questo
diverrebbe un costo implicito».
sabato, maggio 05, 2012
L'indignazione vi sommergerà
Adesso siamo al tecnico dei tecnici. Non è una battuta: il governo Monti ha
affidato a Enrico Bondi, già commissario della Parmalat, il lavoro di revisione
della spesa pubblica nel suo complesso, per eliminare gli sprechi. Uno bravo,
non c'è che dire: ha risollevato l’azienda alimentare dopo il crack, senza
licenziare un solo operaio. La promessa è di presentare una proposta già tra
quindici giorni. Si parla, quindi, di ulteriori tagli alla spesa pubblica. Si
parla di Regioni, Province, Comuni: ma c’è ancora da tagliare? E siamo sicuri
che si debba tagliare proprio qui? Intanto, il Parlamento è escluso. Complice
una classe politica che è incapace di riformare e di riformarsi, siamo arrivati
al punto, o, almeno, a uno dei punti. Non nasce dal nulla la crisi, che continua
a colpire durissimo, ma neppure lo stato così dissestato delle nostre finanze.
Monti ha indicato esplicitamente due aspetti della colpevole miopia governativa
del passato: l'abolizione dell'ICI sulla prima casa (noi lo scrivemmo subito che
sarebbe stato un errore) e una insufficiente attenzione (per usare un eufemismo)
al rigore fiscale. E' forse la prima volta che il premier parla esplicitamente
di responsabilità passate, con tanto di nome e cognome. Cosa è cambiato?
Ragioniamo: il premier viene accusato di avere acuito talmente la pressione
fiscale complessiva da deprimere ogni possibilità di ripresa. Impoverimento
oggettivo e mancanza di lavoro: un mix micidiale. Si dice: recupera le risorse
nelle tasche dei soliti. Fa pagare l'IMU a chi possiede una casa acquistata con
sacrifici, su cui magari paga il mutuo, e magari ha perso il lavoro o è in cassa
integrazione. Invece di creare lavoro, studia misure per licenziare di più. Non
è forse per caso che si è scatenata, sui giornali vicini a Berlusconi, una
campagna di quotidiana demolizione: titoloni di prima pagina contro il governo
Monti. Però, ricordiamoci una cosa: Monti aveva parlato, all'inizio, di
patrimoniale. Fu stoppato immediatamente. Parlò di eliminare alcuni privilegi di
alcune categorie professionali: i partiti, i gruppi di interesse, anche qui
stoppato: le varie lobbies hanno limato, tolto, annacquato. Azzardo un’ipotesi
di Monti-pensiero? Bene, dirà: il catalogo è questo. Mi avete condizionato, e
anche minacciato . Devo recuperare risorse, questo è certo. Lo faccio fare da un
esterno. Se voi partiti non siete capaci di accettare una riforma seria e
seriamente complessiva, continuerò a cercarle presso chi non si può nascondere.
Intanto, però, gli chiedo anche di segnalare gli sprechi che vede compiere: un
segnale? Di certo, cresceranno lo smarrimento, l’impotenza, la depressione,
l’impoverimento, ma anche la rabbia e l’indignazione. Avete visto i sondaggi,
cari partiti? L’indignazione vi sommergerà. E non sarà un bel giorno,
probabilmente, per nessuno. E se, davvero, stesse ragionando così?
Daniele
Tamburini
venerdì, maggio 04, 2012
Lo sviluppo culturale strategia per la crescita
di Agostino Francesco Poli
Se mai qualcuno se ne fosse dimenticato, giova tornare a
quella frase dell’allora ministro Giulio Tremonti: “di cultura non si vive, vado
alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina Commedia”.
La frase venne stigmatizzata e assurse a simbolo della china precipitosamente
discendente percorsa da una certa Italia: quell’arroganza affaristica che negava
alla cultura non solo lo status di cibo fondamentale per l’animo delle persone e
dei territori, ma anche una sottovalutazione miope e grevemente ignorante delle
possibilità di sviluppo offerte dalla valorizzazione della cultura stessa.
Eppure, per parafrasare una frase di Hugh Grant nel ruolo di un fascinoso primo
ministro inglese (il film è “Love actually”), siamo la patria di Dante,
Leonardo, Michelangelo e Vivaldi, di Pirandello e di Renzo Piano, di Rita Levi
Montalcini e di Margherita Hack, della mano di Filippo Brunelleschi e del piede
del “Mosè”, dei panorami struggenti, delle città d’arte tra le più straordinarie
del mondo, delle biblioteche, delle pinacoteche, dei musei, degli archivi, dei
siti archeologici di infinita, splendida, delirante bellezza. Mi fermo qui,
perché la meraviglia e la cultura che hanno dimora nel nostro Paese sono, forse,
senza pari. Certo non si fanno panini con i calcinacci di Pompei
progressivamente sbriciolata e del centro storico de L’Aquila, ancora ridotto a
macerie. Eppure, negli ultimi anni abbiamo assistito a enti culturali
decapitati, fondi allo spettacolo decurtati, teatri e cinema sempre più chiusi.
Occorrerebbe un volume intero (e qualcuno ne ha scritti) per documentare i veri
e propri insulti di cui sono state oggetto, negli anni, la scuola e
l‘università, il sistema dell’istruzione pubblica. Ho sempre pensato però che,
al fondo dell’ignoranza, si celasse un progetto preciso. Lo ha scritto in un
bell’articolo Andrea Cortellessa: l’”egemonia sottoculturale” di cui parla
Massimiliano Panarari non può che essere funzionale a un progetto di dominio
economico, sociale e, dunque, politico. È appena il caso di accennare al
crescere del fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, su cui si è fermato più
volte Tullio De Mauro. Ma forse, qualcosa si sta muovendo, e non solo a livello
di ristrette élite intellettuali, quasi voces clamantes in deserto. È accaduto
che, lo scorso 19 febbraio, “Il Sole 24 ORE” abbia pubblicato, nel suo inserto
domenicale, sempre di grande qualità, il “Manifesto per la cultura”, intitolato
“Niente cultura, niente sviluppo”. Vi si legge che “la cultura e la ricerca
innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e
sviluppo”. Altri assunti: l’Italia, e in grande misura l’intera Europa, devono
oggi fronteggiare una sfida non semplice, ritrovare la via della crescita. È una
opinione ancora minoritaria, ma sempre più diffusa, che la cultura debba far
parte in modo importante del nuovo scenario. Lo sviluppo culturale è strategico
non solo per l'Italia, ma per l'intera Europa: numerosi studi dimostrano come il
sistema della produzione culturale e creativa sia anche uno dei più grandi
settori, superiore per fatturato ai principali comparti del manifatturiero e
alla maggior parte dei comparti del terziario avanzato. Ci sono cinque punti
fermi: una Costituente per la cultura; strategie di lungo periodo; cooperazione
tra ministeri; l’arte a scuola e la cultura scientifica; merito,
complementarietà pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale. Il successo è stato
grande, e continua a crescere. Hanno aderito, tra i moltissimi, anche tre
ministri, Passera, Profumo e Ornaghi; il commissario europeo all’istruzione e
alla cultura Vassiliou e il ministro danese della cultura Elbaek. Tutto bene,
quindi? Direi di sì, se questa attenzione, se non altro, servisse a rimettere al
centro della scena la questione cultura, l’affaire cultura. Il nostro Paese ha
una legge importante, su questa materia: è il Codice dei beni culturali e del
paesaggio, decreto legislativo n. 42 del 2004. Vi si legge che “in attuazione
dell'articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il
patrimonio culturale” e che “la tutela e la valorizzazione del patrimonio
culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo
territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura”. Cultura e memoria, in un
binomio inscindibile. Senza memoria non potremmo capire il presente né, tanto
meno, attrezzarci per vivere il futuro. Ma leggiamo anche l’articolo 9 della
nostra Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la
ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e
artistico della Nazione”. Come dicevo, riportare all’attenzione pubblica,
politica ed amministrativa questi assunti non può che essere positivo. C’è però
da dire che, come ha ricordato Tomaso Montanari, la tesi di fondo portata avanti
dal “Manifesto” non è nuova. Già nel 1985, Gianni De Michelis diceva: “le
risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico
della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene
concepito come convenienza economica”. Molto sintetico, molto chiaro. Ripeto,
passare dall’idea che con la cultura non si fa un panino, a quella per cui è
qualcosa che comunque “conviene” valorizzare, può forse renderci moderatamente
ottimisti, o non totalmente pessimisti, sul presente e sul futuro dei nostri
monumenti, dei nostri musei, dei teatri, delle biblioteche e degli archivi. Ma
vorrei spendere poche parole, per ora, su un’altra esperienza culturale: quella
del Teatro Valle occupato, a Roma. Si sta sviluppando l’idea di gestire il
teatro attraverso lo strumento di una fondazione, il cui statuto non preveda il
Consiglio di amministrazione, regoli le direzioni artistiche turnarie, premi la
gestione partecipata del teatro e l’autogoverno dei lavoratori dello spettacolo.
In prospettiva, si vuol “rovesciare l’idea che la misura dello spettacolo in
Italia sia il biglietto”. Stefano Rodotà, che vi ha collaborato, ne scrive così:
“Non siamo di fronte ad una questione marginale o settoriale, ma ad una diversa
idea della politica e delle sue forme, capace non solo di dare voce alle
persone, ma di costruire soggettività politiche, di redistribuire poteri. È un
tema “costituzionale”, almeno per tutti quelli che, volgendo lo sguardo sul
mondo, colgono l’insostenibilità crescente degli assetti ciecamente affidati
alla legge “naturale” dei mercati”. Il tema è ricco e meritevole di
approfondimenti, che non possiamo fare qui e ora. Ma io desidererei una realtà
in cui non sia del tutto vero il vaticinio di Bernard Berenson, grande critico
d’arte, che, nel 1941, prevedeva un mondo “retto da biologi ed economisti, dai
quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un
fine strettamente biologico ed economico”. La bellezza e la cultura devono stare
anche nell’esperienza gratuita del mondo, o non sono. Ne riparleremo.
«E’ una crisi studiata a tavolino» Intervista al professor Bruno Amoroso
La dinamica della crisi che affonda le radici in scelte precise, dettate dai
colossi della finanza; la trasformazione del sistema bancario, con la scissione
tra la banca di risparmio e quella di investimento; la speculazione sui titoli
dei singoli Stati dell'area euro; i rischi del populismo in politica; i rischi
dell’obbligo di pareggio nei bilanci pubblici. Temi importanti: per parlarne,
l’appuntamento è a Cremona, presso Palazzo Cattaneo, venerdì 4 maggio alle 18,
in un incontro promosso dal circolo culturale AmbienteScienze. con la
partecipazione del professor Bruno Amoroso, docente emerito di economia
internazionale dell'Università di Roskilde (Danimarca) e allievo del grande
economista Federico Caffè. Prendendo spunto dal fenomeno "Occupiamo Wall
Street", un movimento di protesta, nato negli Usa e poi diffusosi anche in
Europa, teso a contrastare lo strapotere del capitale finanziario e l’azione
delle banche, il docente farà il punto sulla situazione politica ed economica
internazionale, sostenendo una tesi interessante ad allarmante: non si tratta di
una “tradizionale” crisi del capitalismo, ma un percorso studiato a tavolino. Ne
abbiamo parlato con lo stesso professor Amoroso.
Per quale motivo ha deciso di
concentrarsi sul fenomeno “Occupiamo Wall Street?
«Perché questo tema mette al
centro dell’attenzione due fatti sostanzialmente nuovi. Da un lato la
specificità di questa crisi, che viene definita come finanziaria ma che in
realtà è molto di più; dall’altro, perché “Occupy Wall Street” è una reazione
piuttosto originale e inedita al fenomeno della crisi. La tradizionale protesta
sociale che viene normalmente rivolta alla politica o al capitalismo, questa
volta viene indirizzata nei confronti della finanza, rompendo gli schemi e
uscendo dall’involucro del mero dibattito politico. Anche gli attori della
protesta sono cambiati; non si tratta più, infatti, di gruppi politici o sociali
organizzati: ora a scendere in piazza sono i veri danneggiati dalla crisi,
coloro che hanno perso il lavoro, o che si trovano in difficoltà economiche, i
quali hanno indirizzato la loro protesta contro quei gruppi di potere che finora
si erano nascosti all’ombra dei tecnicismi monetari e dell’autonomia delle
istituzioni bancarie e finanziarie. Un movimento che dall’America è giunto anche
in Europa e in Italia, due anni dopo, quando abbiamo visto dapprima una protesta
degli studenti, e dopo una mobilitazione dei giovani italiani di fronte alla
Banca d’Italia; per la prima volta, dunque, i giovani hanno rivolto le loro
rimostranze a un soggetto che è il vero centro del potere, dimostrando di
riconoscere chi sono i reali fautori della crisi».
Lei ha accennato al fatto che
stiamo vivendo molto più di una crisi finanziaria. Cosa intende?
«Molti sono
convinti che questa fase sia riconducibile alle tradizionali crisi del
capitalismo. In realtà ci troviamo di fronte a un vero e proprio percorso
organizzato e studiato a tavolino. Questa crisi non rappresenta un fallimento,
quindi, ma il successo di chi ha voluto pianificare tale azione, e che ora si
trova al potere. Sto parlando dei colossi della finanza. Basta analizzare quanto
è accaduto dapprima negli Usa e poi in Europa, per comprendere queste dinamiche:
negli Stati Uniti tutto ha preso il via tra gli anni ‘80 e ’90, quando si è
voluto trasformare un sistema bancario che all’epoca era basato su regole molto
oculate e dotato di vincoli ben precisi sugli investimenti a rischio, che
impedivano alle banche di speculare con i fondi dei risparmiatori; ciò è
cambiato con la scissione tra la banca di risparmio e quella di investimento.
Nel decennio successivo, con Clinton e Bush, si è consentito alle banche di
investire in operazioni finanziarie rischiose. Da noi lo stesso percorso è
avvenuto qualche anno dopo, a partire dagli anni ’90, con la privatizzazione del
sistema bancario italiano: sono quindi spariti i piccoli istituti di credito,
sostituiti da grandi gruppi bancari di investimento, che hanno messo in circolo
in Italia i titoli spazzatura provenienti dagli Stati Uniti. Da qui il passo
verso tracolli e crack finanziari è stato breve. La crisi che stiamo vivendo
discende da tutto questo».
In uno scenario come quello che ha descritto, cosa
può accadere all’Europa?
«Facciamo un passo indietro, a quando fu introdotto
l’euro per sopperire alla debolezza delle monete nazionali dei singoli stati
europei. Di fatto non tutti i paesi hanno aderito alla moneta unica, così ci
troviamo di fronte alla presenza di 11 diverse valute, con il risultato che nel
mirino della speculazione non sono finite le monete degli Stati piccoli, ma le
debolezze dei titoli dei singoli Stati dell'area Euro i quali, pur essendo
espressi nella stessa moneta, vengono valutati diversamente nei mercati
finanziari. A peggiorare le cose ci sono le politiche che l'Unione sta portando
avanti; emblematico è il caso del pareggio di bilancio: notoriamente per uscire
da una crisi di dovrebbe aumentare il debito pubblico, dando così soldi alle
imprese e alle famiglie, invece chiedendo il pareggio si fa esattamente il
contrario. Inoltre sono convinto sia assurdo pretendere che il bilancio del
settore pubblico sia in pareggio, in quanto esso viene comunque controbilanciato
dal risparmio privato. Dunque sarebbe corretto chiedere il pareggio del bilancio
dell'economia nazionale, che comprende pubblico e privato. Intanto oggi nei
posti di potere abbiamo proprio coloro che sono i primi responsabili della
crisi. Basti vedere quanto peso hanno assunto le agenzie di rating, i cui pareri
vengono accettati a occhi chiusi anche se in realtà esse sono parte integrante
del sistema finanziario speculativo che dovrebbero controllare. I sistemi
finanziari hanno costruito legami che impediscono ogni forma di competizione
interna e hanno anche il pieno controllo dei sistemi monetari (dollaro, sterlina
e euro) come dimostra la loro presenza nei posti chiave del governo
dell'economia e della moneta sia negli Stati Uniti sia in Europa».
Cosa stiamo
rischiando?
«Molti pensano di essere già arrivati all'apice della crisi, ma in
realtà gli effetti più devastanti, dal punto di vista sociale ed economico, si
presenteranno tra il 2012 e il 2013, come conseguenza delle politiche
restrittive che l'Europa ha imposto agli Stati membri. Ciò si andrà a sommare ai
problemi già esistenti di perdita di lavoro e di reddito, con ripercussioni e
conseguenze pesantissime. Avremo infatti due forme diverse di reazione. Da un
lato quella degli strati più bassi della popolazione, che reagiscono cercando di
riorganizzarsi, incrementando il lavoro sommerso e spesso cadendo nella
microcriminalità. Dall'altro lato avremo invece la reazione più "pericolosa",
quella del ceto medio. Il sistema di welfare italiano, infatti, è incentrato
sulla famiglia e sul sostegno ai figli da parte dei genitori. Dunque chi arriva
ad avere magari due o tre appartamenti a sessant’anni non è in realtà un ricco,
ma una persona che ha lavorato una vita risparmiando per poter dare una casa ai
figli. Le misure del governo Monti, in questo senso, toccano il cuore del
sistema familiare italiano, mettendo in discussione i rapporti
intergenerazionali. Questo sta scatenando una reazione contro i gruppi sociali
più poveri e in difficoltà, come quello degli immigrati. Anche le maxi
operazioni che si stanno portando avanti contro l'evasione fiscale rischiano di
essere dannose: si colpiscono infatti i piccoli commercianti, che se lavorano in
nero lo fanno solo per sopravvivere, mentre nessuno tocca chi ha procurato
l'illecito nelle grandi speculazioni, come ad esempio il sistema bancario. Si
sta concentrando la rabbia su chi comunque non potrà mai risolvere il problema
economico del paese, e in questo modo si fomenta una reazione del ceto medio
contro quello povero, fino a cadere in una vera e propria "guerra tra poveri".
Conseguenza di ciò sarà un imbarbarimento della politica, che sta scadendo nel
populismo. L'avvento del fascismo, negli anni '30, fu generato proprio da uno
stato di cose simile: una situazione di disordine sociale che il re volle
placare mettendo Mussolini al potere».
«Le proposte critiche si sono orientate in due direzioni principali. Gli economisti keynesiani propongono il superamento del sistema monetario dell'euro, che diventa un ostacolo per la ripresa economica. Il precedente sistema monetario europeo era basato sulle valute nazionali, con un sistema di fasce di cambi pre-concordati che consentivano una certa flessibilità e che hanno funzionato per 20 anni. L'euro ha sostituito la cooperazione tra monete nazionali, ma ha avuto l'effetto di dividere l'Europa. Basandosi su queste riflessioni, i keynesiani propongono di ristabilire le condizioni pre-euro. Inoltre si propone un fondo di solidarietà al quale dovrebbero concorrere sia i paesi con un eccesso di surplus sia quelli con un eccesso di deficit nella bilancia dei pagamenti. Il fondo dovrebbe aiutare in modo mirato i paesi in difficoltà. Si tratta di una proposta di buon senso, ma ha una debolezza: presuppone l'esistenza di governi nazionali autonomi, che invece in Europa non esistono più, in quanto tutti sono occupati dal sistema delle banche. La mia proposta è invece quella di tentare di risolvere i problemi prodotti dall'euro dentro questo sistema. I problemi nascono da una divisione tra i paesi dell’area tedesca e quelli dell’Europa del sud. Per questo è ipotizzabile una divisione dell'euro in due zone, con rapporti di cambio concordati e meccanismi di solidarietà. La divisione della zona euro costringerebbe i governi e i movimenti politici dell’Europa del sud a riprendere una propria iniziativa più aderente alla realtà dei propri sistemi produttivi e sociali e consentirebbe uno spazio d’intervento ai movimenti sociali, politici e sindacali di questi Paesi. In secondo luogo, si riaprirebbe un processo di rifondazione dell'assetto istituzionale europeo, nella direzione di una struttura federale europea costruita non su singoli Stati e Paesi, ma su aree mesoregionali omogenee. Questo è quanto di fatto già avviene nell'area dei paesi baltici e dell'Europa centrale. Ricordo che, ad esempio,nel '700 esisteva una "moneta latina", che veniva identificata con il franco. Tale sistema venne sciolto dopo alcuni anni, ma ancora oggi esistono il franco svizzero, quello francese, quello belga, e così via. Un fenomeno simile accadde nei paesi scandinavi, con la corona. Lo stesso dovrebbe accadere con l'euro, nel momento in cui non ha più la funzione di unire”.
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