sabato, aprile 07, 2012

Intervista al professor Salvatore Settis «Investire in cultura vuol dire pensare al futuro»

«Lo sviluppo? È il progresso generale del Paese, nel segno dell’utilità sociale e del pubblico interesse»

Ha scritto, nel suo libro “Paesaggio Costituzione cemento”, che la devastazione dello spazio in cui viviamo, la «progressiva trasformazione delle pianure e delle coste italiane in un'unica immensa periferia», troverebbe un ostacolo se vi fosse «una chiara percezione del valore della risorsa e dell'irreversibilità del suo consumo». Parliamo di Salvatore Settis, docente di archeologia e storico dell’arte di chiara fama, direttore per più di un decennio della Scuola Normale Superiore di Pisa. Con interventi puntuali e mirati, Settis conduce da anni una battaglia tesa a contrastare il degrado del territorio, del paesaggio, del bene comune. In un recente intervento a L’Aquila, città devasta dal sisma di tre anni fa e sostanzialmente abbandonata, ha detto che si tratta della «metafora di un processo di degrado civile che nel degrado del patrimonio paesaggistico e culturale si incarna e si manifesta». E ancora: «Per crescere, si dice, bisogna costruire, occupare suoli, fare grandi opere. Dovremmo perseguire lo sviluppo che porta al bene comune, mentre è invalsa la pessima abitudine, ed è una trappola in cui siamo cascati tutti, di chiamare sviluppo l’opera stessa: l’autostrada, il condominio, la new town». In un momento in cui è molto acceso il dibattito sulle grandi opere, anche qui da noi, abbiamo rivolto al professor Settis alcune domande. 
Professore, lei pensa che le cosiddette “grandi opere” possano costituire un volano per un nuovo sviluppo del Paese? Il riferimento è alla Tav, ma non solo… 
«Su questo punto c'è un enorme equivoco. Identificare le "grandi opere" come il principale volano dello sviluppo mostra prima di tutto una sorprendente mancanza di fantasia. Davvero non sappiamo inventarci nient'altro? Per "sviluppo" dovremmo intendere il progresso generale del Paese, dominato (come vuole la Costituzione) dall'utilità sociale e dal pubblico interesse. Invece, come si è visto nella recente polemica sulla Tav, lo sviluppo viene identificato non con i benefici (nella fattispecie, più che dubbi) che da una "grande opera" possono derivare al Paese e alla società, bensì dall'opera stessa, cioè dalla servile scelta di fare sempre e comunque l'interesse non dei cittadini inermi, ma delle potenti imprese e dei gruppi bancari che sono alle loro spalle. Questa è la filosofia della deludentissima risposta agli argomenti anti-Tav che con grande dispiacere ci è toccato leggere sul sito di Palazzo Chigi». 
Vi sono economisti che sostengono che le vere grandi opere pubbliche essenziali al Paese sarebbero la messa in sicurezza del territorio, il ripristino e la cura del paesaggio, la cura del patrimonio storico, artistico e culturale: tutte azioni capaci di creare occupazione e dare impulso ad una economia “vera”, non drogata. Secondo lei, è una strada percorribile? 
«Io non ho dubbi che questa sarebbe la strada giusta. Ma la perversa insistenza nelle "grandi opere" si misura, per esempio, sull'ostinazione a proposito del Ponte sullo Stretto. Quando vi fu la frana di Giampilieri presso Messina, in cui morirono poco meno di quaranta persone, Bertolaso disse che contrastare le frane non si può, costerebbe troppo, due o tre miliardi di euro. Il giorno dopo Prestigiacomo dichiarò che per il Ponte si doveva andare avanti, nulla era cambiato. Insomma, 10 miliardi per il Ponte si trovano, 2 miliardi per mettere in sicurezza il territorio no. La priorità è "far lavorare le imprese", non il pubblico interesse né la vita dei cittadini». 
 Il degrado del paesaggio, la cementificazione (con i conseguenti disastri “naturali”), l’abbandono della tutela dei beni artistici e culturali (Pompei che cade a pezzi ne è una chiara metafora): sono conseguenze di una idea sbagliata di “sviluppo”, oppure di ignoranza, o di che altro? 
«Un'idea sbagliata di sviluppo, certo, ma non solo. In Italia, a ogni crisi vera o falsa, si reagisce con tagli alla cultura. I disastri di Pompei (anzi di tutta Italia) sono la conseguenza di una politica dissennata, che ha tagliato nel 2008 un miliardo e mezzo circa al bilancio dei Beni Culturali, e che da decenni non ne rinnova il personale, sempre più anziano e scoraggiato. Eppure siamo stati il primo Paese al mondo a mettere la tutela del paesaggio e del patrimonio fra i principi fondamentali dello Stato! Duole vedere che su questo fronte il governo Monti appare assolutamente immobile. Qualcuno dovrebbe spiegare ai suoi ministri che in altri Paesi (per esempio la Francia) le spese in cultura non sono state tagliate con la crisi; anzi, sono cresciute in alcuni settori, come la ricerca. Investire in cultura vuol dire pensare al futuro. E non pensare al futuro è un suicidio». Qual è, per lei, il significato di “bene comune”? come possiamo costruire una cultura del “bene comune”? «"Bene comune” vuol dire coltivare una visione lungimirante, vuol dire investire sul futuro, vuol dire preoccuparsi della comunità dei cittadini, vuol dire prestare prioritaria attenzione ai giovani, alla loro formazione e alle loro necessità. In Italia è questo un tema assai antico, che prese la forma della publica utilitas, del “pubblico interesse” o del bonum commune, incarnandosi negli statuti di cento città e generando, prima di ogni costrizione mediante le norme, qualcosa di molto più importante: un costume diffuso, un’etica condivisa, un sistema di valori civili, che ogni generazione, per secoli, consegnò alle successive. Culmine di questo percorso di civiltà è la nostra Costituzione: è ad essa che dovremmo saper tornare, per (ri)costruire una cultura del bene comune. Non a caso Calamandrei diceva che la Costituzione è una polemica contro il presente. Perché è il progetto (ad oggi irrealizzato) per un futuro migliore».

Daniele Tamburini

sabato, marzo 31, 2012

Il desiderio di protagonismo giovanile. Carmen Leccardi, sociologa:«I writers non sono un fenomeno di devianza, ma una forma di espressione della propria soggettività»

Writers e non solo: per uno sguardo di insieme sui giovani di oggi, abbiamo parlato con la sociologa Carmen Leccardi, docente ordinario alla Bicocca ed esperta del mondo giovanile. Nei giorni scorsi, infatti, è uscito il libro "Sentirsi a casa. I giovani e la riconquista degli spazi-tempi della casa e della metropoli", che la professoressa Leccardi ha scritto insieme a Marita Rampanzi e Maria Grazia Gambardella. Un volume in cui si esamina la silenziosa lotta del mondo giovanile per affermare la propria presenza nella società. Professoressa Leccardi, il tema degli atti vandalici da parte di giovani è spesso occasione di dibattito, anche acceso, sul mondo giovanile. Potrebbe spiegarci cosa spinge questi ragazzi ad imbrattare muri e monumenti? 
«Alla luce della ricerca che recentemente ho condotto a Milano, e che è culminata nella pubblicazione del mio libro, rispetto alle forme di espressione della soggettività dei giovani, ritengo che il fenomeno dei writers e degli street artist non sia una forma di devianza, bensì una forma di espressione della propria soggettività. I giovani oggi vogliono riconquistare i propri spazi e i propri tempi, in una città che per loro è sempre più sconosciuta. Il loro desiderio è di sentirsi protagonisti della vita pubblica, che invece spesso li mette ai margini». 
In cosa sbaglia allora la società? 
«Invece di costruire delle stigmatizzazioni nei loro confronti, dovremmo cercare di comprendere tali pratiche urbane, e soprattutto di capire quale tipo di messaggio essi vogliono far pervenire. E' forte, da parte loro, la volontà di far sentire la propria voce. Sta poi all'ente locale il compito di trovare il modo di dare loro quello che cercano: l'essere protagonisti dello spazio pubblico, l'avere una cittadinanza culturale e il non essere messi ai margini». 
Come dovrebbe rispondere, quindi, l'ente locale? 
«Dovrebbe permettere loro di accedere alle forme di espressione culturale che invece solitamente gli vengono negate. E non come consumatori o fruitori di opere artistiche, ma nel ruolo di veri protagonisti. Invece questo non accade, anzi: nel momento in cui i giovani chiedono di poter passare a forme di protagonismo diverse, si trovano davanti un muro invalicabile. Oggi la loro condizione è già resa problematica dalla difficoltà, se non addirittura impossibilità, di progettare non solo il proprio futuro, ma anche il presente. In questo scenario si rivela indispensabile permettergli di esprimersi con i propri mezzi, a visto che questo non accade loro tendono a riprendersi come possono questo diritto. E lo fanno appunto con le tag e con le immagini sui muri. Per loro è un vero e proprio codice, a cui il mondo adulto dovrebbe dare ascolto. Ad esempio, se le amministrazioni comunali individuassero degli spazi appositi in cui permettergli di esprimere la propria creatività, loro non andrebbero a imbrattare i muri. Ad esempio in certe città vengono individuati degli spazi urbani anonimi, da lasciare ai writers affinché li abbelliscano, e i risultati sono molto buoni». 
Per quale motivo si tende a stigmatizzare così tanto i comportamenti dei giovani? 
«La comunicazione intergenerazionale è sempre più difficile, per svariati motivi. A partire dal fatto che gli stessi sistemi di comunicazione e le tecnologie utilizzate sono differenti da una generazione all'altra, tanto che a volte si creano delle vere e proprie barriere tra persone di età differenti. Bisognerebbe quindi trovare degli spazi in cui le differenti generazioni possano davvero comunicare tra loro. Oggi i giovani non parlano a scuola, non parlano in famiglia e ancora meno negli spazi pubblici». 
E in politica? 
«Purtroppo oggi è difficile vedere giovani e donne politicamente impegnati, in quanto spesso vengono messi ai margini. Fino a qualche anno fa, il giovane arrivava abbastanza in fretta ad avere un'autonomia psicologica e sociale, e la transizione dal mondo giovanile a quello adulto era abbastanza rapida e ben definita. Oggi non è più così: la condizione di "giovane" tende a protrarsi nel tempo, tanto che per assurdo si è ancora considerati giovani anche a 35-38 anni. Dall'altro lato, il prolungamento della fase formativa e la precarizzazione sempre più marcata del mondo del lavoro porta i giovani alla necessità di fermarsi sempre più a lungo in famiglia. Sono quindi persone autonome e adulte dal punto di vista psicologico, ma non da quello sociale. Questo crea una situazione di parziale marginalità: nonostante essi abbiano le energie da impiegare nella vita sociale, non possono farlo. In questo modo ogni giorno la nostra società spreca grandi quantità di energia, che invece potrebbero essere impiegate per crescere».

martedì, marzo 27, 2012

Intervista al professor Andrea Fumagalli: «Così la Costituzione è condizionata dalle esigenze di bilancio dettate dai mercati finanziari»

Riforma dell’articolo 81 sull’obbligo di pareggio del bilancio statale in Costituzione: la legge in discussione. Sarà utile per il Paese? «Mai»
In questi giorni, il Parlamento sta decidendo sulla riforma dell’articolo 81 della Costituzione: una scelta che ha ben poco di “tecnico”, ma con evidenti ricadute in termini di politica economica e sociale. In sostanza, si introduce l’obbligo del pareggio del bilancio dello Stato nella legge fondamentale della Repubblica. Il dibattito, anche se piuttosto in sordina, in un momento in cui prevale quello sulla riforma del mercato del lavoro, è fra chi sostiene che anche una spesa pubblica in disavanzo produce un aumento del Pil maggiore ed è più efficace di una riduzione della pressione fiscale, e tra chi ritiene che “i conti in ordine” siano una priorità assoluta, anche a costo di comprimere ulteriormente la spesa e, quindi, gli investimenti. Senza contare che le politiche di welfare sono finanziate dalla spesa pubblica: che ne sarà del sistema di garanzie per i cittadini? Come si finanzieranno gli interventi peraltro necessari anche nel quadro dell’attuale riforma del mercato del lavoro? Per capire la reale portata di questa scelta, abbiamo intervistato il professor Andrea Fumagalli, docente di economia presso l’Università di Pavia.
Professor Fumagalli, vorremmo che ci illustrasse il significato della riforma dell’articolo 81 della Costituzione, quello che si chiama, un po’ semplificando, l’obbligo di pareggio del bilancio statale. 
«L’articolo 81 della Costituzione italiana disciplina le regole essenziali del bilancio dello Stato che rappresenta il documento contabile in cui vengono elencate le entrate e le spese relative all’attività finanziaria dello stato in un periodo di tempo determinato (di solito l’anno). Tale documento è l’esito della legge finanziaria (ora chiamata legge di stabilità) dove si enunciano i principi di politica fiscale (gestione delle entrate fiscali e della spesa pubblica) che il governo intende perseguire nel corso dell’anno. Il 30 gennaio 2012 a Bruxelles è stato siglato da parte di 25 capi di Stato e di governo il Trattato su stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria. In questo accordo, per la prima volta in Europa, è stato siglato un Patto Fiscale (Fiscal Compact), come era stato chiesto esplicitamente dal governatore della Bce, Mario Draghi, nel suo discorso al Parlamento Europeo il 1° dicembre 2011. In esso, si è deciso l’obbligo di inserire in Costituzione il ‘pareggio di bilancio’, ciò che istituisce una nuova ‘costituzione economica’, comportando la cancellazione della possibilità da parte delle istituzioni pubbliche di intervenire nella gestione dell’economia con provvedimenti anticiclici. Si afferma all’art. 3, comma 2, che le regole del pareggio di bilancio: “devono avere effetto nelle leggi nazionali delle Parti contraenti al massimo entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato attraverso previsioni con forza vincolante e di carattere permanente, preferibilmente costituzionale”. Con un trattato di carattere internazionale si interviene per modificare le Costituzioni, così da legittimare nella legge madre di tutte le leggi, il primato del pensiero economico neoliberista. Il Parlamento italiano ha già votato, in prima lettura, la modifica dell’articolo 81 per imporre una camicia di forza alle politiche di bilancio. Sarà la Corte di Giustizia dell’UE a verificare l’avvenuto inserimento e a comminare eventuali sanzioni (art. 8): la Costituzione è, così, condizionata e vassalla delle esigenze di bilancio dettate dai mercati finanziari. 
Questa riforma non appare centrale, nel dibattito pubblico, come quella dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Eppure, ci sono studiosi e commentatori che ne sostengono la pericolosità, concordando sulla convenienza della spesa in disavanzo in situazioni di recessione o crescita lenta del Pil. Lei che ne pensa? 
«Concordo. Con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio si elimina la possibilità discrezionale da parte della politica fiscale di poter operare in funzione anti-ciclica. Keynes probabilmente si sta rivoltando nella tomba. In tal modo, proprio quando si pretendono iniezioni di ulteriore flessibilità nel mercato del lavoro (leggi, precarizzazione), si introducono elementi di forte rigidità nella gestione della politica economica. Già con l’art. 105 del Trattato di Maastricht (che vincola l’operato della Banca Centrale Europea a perseguire unicamente l’obiettivo di un tasso d’inflazione inferiore al 2% annuo), si era di fatto ingabbiata la politica monetaria per evitare che potesse svolgere una funzione di intervento congiunturale a sostegno della produzione e dell’occupazione; ora, con tale misura, si elimina un ulteriore di grado di libertà per la gestione delle politiche economiche. Il tutto viene giustificato nel nome dell’autonomia della politica monetaria e ora della politica fiscale da possibili condizionamenti della “politica”. In realtà, l’obiettivo, neanche troppo malcelato, è consentire che solo i poteri economici e finanziari possano decidere quale politica economica deve essere adottata. 
E la questione della spesa per il welfare? 
«Due sono gli effetti perversi che tale misura può comportare. Il primo deriva dall’ovvia constatazione (che ogni economista serio e indipendente sa bene) che in un sistema capitalistico di libero mercato condizione necessaria perché ci possa essere attività di accumulazione (ovvero produzione di ricchezza) è che vi sia un atto preventivo di indebitamento. L’indebitamento dello Stato è quindi funzionale al processo di accumulazione e venendo meno, anche la capacità di crescita e di accumulazione si riduce. Il secondo effetto, relativo al bilancio dello Stato, è che se vi è l’obbligo del pareggio di bilancio, per mantenerlo sarà sempre più necessario intervenire (a meno che non si voglia aumentare la pressione fiscale, ipotesi politicamente da scartare) sulle spese variabili dello Stato, ovvero le spese sociali (previdenza, istruzione, sanita, ammortizzatori sociali) e sui salari dei dipendenti pubblici. Esattamente quello che sta già accadendo e che è già accaduto in Grecia. 
La scelta del pareggio inserito in Costituzione è stata veramente dettata dall’Europa? 
Secondo alcune opinioni, questo lede il concetto stesso di sovranità nazionale. La sovranità economica nazionale è un concetto (come quello di democrazia) che non esiste più da almeno 20 anni. I cambiamenti nell’organizzazione tecnologica, della produzione/accumulazione e del lavoro che si sono succeduti negli ultimi trent’anni hanno ridefinito gli assetti geo-economici e geo-politici internazionali. Il processo di finanziarizzazione ne è stato uno degli effetti e tale processo determina oggi la scala gerarchica del comando economico. Oggi 10 multinazionali della finanza sono in grado di imporre i propri interessi economici a intere comunità nazionali e sovranazionali. La novità che la crisi europea ci offre è che ora sono tali poteri a scegliere direttamente i capi di governo, mentre sino a pochi anni si limitavano a condizionare indirettamente le scelte economiche». 
Posto che la modifica venga approvata, quando se ne potranno apprezzare gli effetti? 
 «Mai».

Daniele Tamburini

sabato, marzo 17, 2012

Che sia destra o sia sinistra: più competenze, meno poltrone

Il governo Monti è – legittimamente – soddisfatto: lo spread continua a scendere, nonostante che, a gennaio, il debito pubblico sia aumentato. Ma i mercati, questa volta, non hanno reagito scompostamente. Eppure, il quarto trimestre del 2011 registra un ulteriore calo del PIL italiano, e lo stesso Monti dice: attenzione, l’emergenza non è finita. Abbiamo solo rimesso la barca nella giusta direzione. Allora, sorge una considerazione: che cosa ha fatto e sta facendo, Monti? Primo, ha dato l'impressione di voler mettere mano davvero alle cose. Secondo, ha l'aria di uno competente, di uno che non parla a vanvera o per sentito dire, né per oscure allusioni, né cercando di piacere a tutti i costi. Allora, la rivoluzione è questa: faccia le cose chi sa farle. È così? E come si ottiene questo? Mettendo le persone giuste al posto giusto. Incredibile: c’è voluto un quasi default, per capirlo. Eppure, circola molto meno denaro, i consumi si sono ridotti, la disoccupazione è alta, la precarietà è la regola. Ma sembra che stia nascendo una sorta di nuovo buon senso. Mi sto illudendo? A questo proposito, mi viene da pensare ad una frase dell’assessore Demicheli, nell’intervista che ospitiamo su questo numero, rispetto all’atteggiamento della Lega verso l’Amministrazione comunale, culminata nella espulsione sua e di Jane Alquati: si è trattato di una guerra di poltrone. Al di là del merito, non vorremmo mai ascoltare queste parole, in qualsiasi contesto vengano pronunciate. È davvero ora che tutti, da destra e da sinistra, ragionino in termini di competenze e non di poltrone. La crescita presuppone competenze e meriti. Le poltrone, lasciamole nei salotti. 

Daniele Tamburini

venerdì, marzo 09, 2012

Chi decide, in democrazia?

Ascolto sempre molto volentieri Luca Mercalli: parla della sua materia, la meteorologia, con competenza ed equilibrio, non tralasciando di utilizzare i fenomeni climatici per aprire il discorso a molti problemi emergenti: per esempio, la qualità dello sviluppo, della crescita, delle infrastrutture. Mercalli, con molti altri scienziati e ricercatori (sono in tutto 360), ha sottoscritto una lettera aperta al premier Monti sulla questione TAV. Nella sostanza si dice: chiediamo un ascolto attento e privo di pregiudizi ad una serie di osservazioni critiche sul progetto. Non voglio entrare nel merito, ma mi pare che quelle parole (ascolto attento e privo di pregiudizi) dovrebbero essere utilizzate sempre, quando si tratta di compiere delle scelte che impattano fortemente sulla vita dei cittadini e dei territori. Ma c’è la capacità di ascoltare? I cittadini, spesso, pensano di no: per la TAV, piuttosto che per la Strada sud e alcuni anche per il terzo ponte, qui da noi. Sorgono, allora, i comitati. La domanda è: chi decide, in democrazia? È una domanda difficile, nel nostro mondo complesso. La Francia ha “inventato” il cosiddetto débat public, il mondo anglosassone il “public engagement”: la partecipazione alla discussione degli interessi del territorio è formalizzata e le procedure ed i tempi sono definiti. Non so se è il modello migliore, ma quello che strema, in Italia, sono i lustri, i decenni che sono necessari, che dico per la realizzazione, ma per lo stesso avvio di un progetto. Intanto, gli animi si scaldano, le posizioni si irrigidiscono. Tutto diventa una questione ideologica. Se la gente oppone resistenza a certi progetti, un motivo ci sarà: andrebbe ascoltata. Se c’è un corto circuito tra chi decide (i decisori pubblici: governi locali, governo nazionale) e chi ha dato loro mandato di decidere (con il voto), è sicuro che esiste un problema. Torna, allora, il tema dell’ascolto, da parte di chi decide, e anche, certamente, di chi contesta. Si può ascoltare e non condividere, e magari rimanere della propria idea, ma è difficile che un qualcosa non si sposti, e non si possano trovare punti di mediazione. Sapete quante energie in meno si sprecherebbero, quante risorse, quanto tempo, soprattutto. Il tempo oggi è prezioso. Rispettare l’uso del tempo è sintomo di serietà. L’Italia non può più permettersi di trascinare le questioni all’infinito. Quindi: che si progetti, si ascolti, si cerchino le mediazioni necessarie, e poi si decida. Magari avendo come obiettivo l’interesse comune. Un’utopia? Dipende. Da che cosa? Indovinate un po’… Dalle persone che sono chiamate a decidere, che sono state elette. Quindi…

sabato, marzo 03, 2012

Nessun sconto

Un nostro autorevole columnist e opinion leader, Renato Ancorotti, ha accettato la richiesta del Pdl cremasco di scendere in campo per la carica di sindaco di Crema. Di questo partito e di altri al governo della città ne ha fustigato, giustamente, i vizi per lungo tempo. Ora sta cercando di vincere una sua scommessa. Qualche altro nostro opinion maker ha deciso, invece, di spendersi per il centrosinistra. E’ questo un problema per il giornale, come ci è stato maliziosamente suggerito? Neppure per sogno. Anzi. Da una parte, c’è l’indubbia soddisfazione per il «Cremasco » di avere scelto gli opinionisti giusti che, articolo dopo articolo, hanno saputo catturare l’attenzione, la stima e il gradimento dei lettori. E poiché piacciono alla gente perché sanno parlare alla gente, la politica si è fatta avanti. Ma la soddisfazione è anche un’altra. Questo giornale è stato una scommessa da autentici liberal: vive, infatti, solo per le risorse che raccoglie dal mercato e mette al centro l’impresa. Convinto che senza le aziende (artigianali, industriali e commerciali), gli imprenditori (piccoli, medi e grandi) e lo svilupparsi di un’imprenditoria di massa non ci sarà lavoro, progresso, migliore qualità della vita e libertà. Da questa idea base, il «Cremasco» è diventato un laboratorio di opinioni economico-sociali liberali che, speriamo, possano conquistare un pubblico sempre più vasto. Idee, principi, convincimenti che i nostri opinion leader ora hanno la possibilità di seminare nei programmi elettorali sia di centrodestra che di centrosinistra. E poi di realizzarli. Se infatti, da una parte sentiamo dire che «al centro di ogni pensiero ci deve essere lavoro, occupazione, sviluppo», e dall’altra che «chi sarà chiamato a governare Crema deve mettere in campo non solo proposte in campo socio assistenziale, ma soprattutto iniziative per favorire le imprese esistenti, attirarne delle nuove, contribuire alla creazione di posti di lavoro…», significa che pur stando in campi politici differenti, l’obiettivo sarà lo stesso. E il giornale, a sua volta? Come al solito non farà sconti a nessuno. 
Cuti

Coraggio, il tempo stringe

Quello spread che ha iniziato a tormentarci la scorsa estate, il cui incremento vertiginoso era sparato dai giornali in prima pagina, quasi in assonanza con lo spettro non più del comunismo, ma del default, adesso sembra addomesticato. Da interventi pesanti sulle pensioni, dall'introduzione di nuove tasse o dall'incremento di quelle precedenti, dalle liberalizzazioni, da una rinnovata lotta all'evasione e all'elusione fiscale, dalla indubbia considerazione di cui Monti gode in Europa (non risulta che Merkel e Sarkozy ridano di lui). E' vero che, nel frattempo, le varie lobbies si sono fatte sentire: è recentissima la - scandalosa - presa di posizione dell'ABI: o cambia la decisione del governo sulla riduzione delle commissioni bancarie, oppure finiremo per strozzare il credito per imprese e famiglie. Proprio quel che ci voleva, in tempi di crisi. Una “chiara” risposta all’appello fatto nei giorni scorsi dal ministro per lo sviluppo Corrado Passera, che aveva chiesto alle banche di sostenere il sistema Italia. Lo scontro è sull’emendamento al decreto liberalizzazioni, che vorrebbe imporre alle banche l’eliminazione di tutte le commissioni previste quando viene concesso un credito. Già bastano e avanzano gli esosi tassi di interesse. O no? Comunque sia, il governo ha fatto cassa. E forse non poteva far altro, vista la situazione in cui ci eravamo cacciati. Ma le imprese e i lavoratori, dipendenti o autonomi che siano, sono sempre più in difficoltà. I segnali si moltiplicano. Misure di sviluppo e creazione di lavoro sono urgenti, dai Super Mario, le attendiamo con impazienza. E' difficile pagare in maniera convinta le tasse, se ti dicono in eterno che l'obiettivo è la lotta allo spread, al default, elementi impalpabili e remoti. Sarebbe diverso se si vedesse che i giovani iniziano a trovare lavori dignitosi, se rinascessero le aziende, se qualche cassintegrato venisse riassunto, se si tornasse, insomma, a respirare. Forza e coraggio, che il tempo stringe.

Daniele Tamburini


sabato, febbraio 25, 2012

L’aria è cambiata

Che l’aria sia cambiata lo dicono molte cose, comprese le parole non proprio benevole del ministro Fornero su come vengano rappresentate le donne in TV, e il riferimento, ovvio, non poteva che essere alla discesa di Belen, non in campo, per fortuna, ma della scala, con tanto di farfalla galeotta. Ma, per andare su un terreno diverso, non passa giorno che non ci siano notizie di una sistematica e paziente opera di individuazione dell’evasione e dell’elusione fiscale. Ne parla, in questo numero, il comandante della Guardia di Finanza di Cremona, Alfonso Ghiraldini. L’avevamo capito già dai blitz di Cortina e di Napoli che questo Governo, se voleva avere credibilità non solo in Europa, ma tra i cittadini, poteva chiedere molto solo se dimostrava anche di stringere su chi si era sempre sottratto. Ovvio, la pressione fiscale è diventata davvero insostenibile, soffocante, nonostante tutte le promesse fatte nelle varie campagne elettorali, e molti tra gli evasori si trincerano dietro questa giustificazione. Ma, e gli altri, cosa dovrebbero dire? Chi paga le tasse, coraggiosamente, onestamente o inevitabilmente? Un dato balza agli occhi: sono aumentate le denunce nei confronti dell’evasione, e le denunce non anonime, ma con nome e cognome. Significa che sta crescendo la percezione che evadere le tasse non sia una furbata, ma tolga risorse a tutti, a noi, alle nostre famiglie, ai nostri figli? Significa che ci stiamo allontanando dai tempi in cui chi aveva grandi responsabilità diceva di “comprendere” le ragioni di chi evadeva? Ora, però, bisogna andare oltre. Le risorse recuperate devono essere investite per far decollare di nuovo il Paese. Puntando su ricerca e innovazione, sulla scuola. Investendo sui giovani, aiutando le imprese: cominciando già ad allentare la pressione fiscale su chi lavora, su chi intraprende.

Daniele Tamburini

domenica, febbraio 19, 2012

“Il Piccolo” raddoppia

Il modo migliore per uscire dalla crisi è vivere. Vuol dire rilanciare, non farsi catturare dalla depressione, non lasciarsi impaurire dall’ineluttabilità dei tempi. Rischiare, anche; certamente, con oculatezza. Come dico ai miei collaboratori, “Usate il colino”: fate passare le cose negative, trattenete quelle positive e lavorate su quelle. Bisogna valorizzare ciò che si ha, il proprio brand, la propria marca. Tentare territori nuovi. Ebbene, ci proviamo. Dalla prossima settimana, care lettrici e cari lettori, “Il Piccolo” raddoppia e diventa bisettimanale. Lo trovate il mercoledì mattina ed il sabato mattina, nei consueti punti di distribuzione. Anzi no: più che nei consueti punti. Perché siamo sbarcati anche nel casalasco, con due pagine dedicate, e così anche i casalesi, e non solo, potranno diventare nostri affezionati lettori. Non è facile, soprattutto per noi che facciamo un prodotto gratuito e che non godiamo assolutamente di alcun contributo né pubblico né di altro genere, ma viviamo solo grazie alla pubblicità dei nostri (numerosi) inserzionisti, della passione di un gruppo di lavoro ormai consolidato e affiatato, e di tanti amici e di tante amiche che ci sostengono suggerendo, scrivendo, puntualizzando, aiutandoci a crescere. Certo, chiudono testate consolidate e prestigiose, e questo ci dispiace, anzi ci fa male, così come fa male alla qualità dell’informazione e della democrazia, dimensioni in cui la concorrenza e la pluralità sono elementi importantissimi. Ma torniamo a noi: siamo convinti di poter vincere la sfida. Però voi, care lettrici e cari lettori, siete un elemento fondamentale: se ci leggerete, se continuerete a sostenerci, se ci suggerirete come correggere gli errori, se vi farete sentire vicini a noi, noi ci sforzeremo di dare un prodotto sempre migliore, cercando contributi qualificati, come già stiamo facendo, fornendo approfondimenti, venendo incontro alle esigenze di informazione e di intrattenimento. Davvero: abbiamo bisogno di voi. Cominciate, intanto, con l’ augurarci “In bocca al lupo”. Grazie.

venerdì, febbraio 10, 2012

«La classe dirigente cremonese non è adeguata» intervista a Titta Magnoli, segretario provinciale Pd

di Daniele Tamburini
La relazione che Titta Magnoli ha svolto all’assemblea provinciale del Pd di Cremona, di cui è segretario, contiene valutazioni di grande durezza e un giudizio, articolato ma per molti versi impietoso, sulla situazione del Paese, ma anche, e soprattutto, del nostro territorio. Salta gli occhi una frase: “Io credo che la nostra classe dirigente non sia adeguata, non tanto nelle singole intelligenze, ma per l’incapacità di orgoglio e di reazione”. Valutazione pesante, in specie se espressa dal segretario del maggior partito di opposizione, che ha retto il governo locale fino allo scorso mandato e che si ricandida per ottenere la maggioranza alla prossima tornata elettorale. Ne abbiamo parlato con lo stesso Magnoli, in un'intervista in cui gli argomenti toccati sono molteplici e l'approccio mai banale.
«Voglio fare una premessa» esordisce il segretario Pd: «la relazione era finalizzata a una discussione politica, per cui, più che dura era diretta. Lei si immagina un dibattito politico in cui la premessa è che viviamo nel migliore dei mondi possibile? Ma non c’era alcuna volontà di giudicare ‘da fuori’ bensì di prendersi cura di ciò che si pensa non vada. In politica non dovrebbe esserci posto per i permalosi…».
Senta Magnoli, cominciamo con una cosa che mi ha incuriosito. Cremona è città di musei. Lei ha raccontato di uno studente cinese che chiedeva se l’Europa fosse un laboratorio o un museo. Non crede che si possa essere sia museo che laboratorio?
«Io non amo chi dice che all’Italia basta il suo patrimonio artistico. L’economia non può basarsi solo sul passato, su un terziario di mero sfruttamento. E’ importante, ma non basta. I musei sono fondamentali ma svolgono la loro funzione in pieno se sono fonte di cultura e di ispirazione: se una persona, vedendo il bello, riflette e si commuove. Altrimenti sono dei magazzini con dei quadri appesi alle pareti. Io credo quindi che ci debbano essere musei che ispirino laboratori, che muovano le persone. In questo senso credo che la sfida sia imponente, cioè usare il grande passato per un grande futuro. Questa è la sfida dell’Europa. E questo si fa investendo in ricerca e in formazione, non facendo cadere a pezzi Pompei».
La sua analisi è: un territorio che va a fondo in un Paese che va a fondo in un’Europa che va a fondo. Ma se la crisi è continentale, che spazio possono avere le energie locali?
«Le energie locali non hanno alcuna possibilità di contare. Questo è il dato di fatto. Ma ciò non toglie che se non posso nulla contro la tempesta, almeno apro l’ombrello e mi metto al riparo. E’ questo che si sta iniziando a fare con il Governo Monti. E’ questo che si dovrebbe fare anche a Cremona. Noi abbiamo una realtà che sta subendo colpi pesanti già oggi e che rischia di non reagire per eccesso di tranquillità. Di autocompiacimento. Se una nave affonda preferisco chi ordinatamente va verso le scialuppe e cerca di salvarsi a chi dice “sarà un falso allarme” e prende un tranquillante per dormire meglio. Cosa si può fare a Cremona? Moltissimo. Innanzitutto capire che la crisi si supera insieme, e non andando sparsi come galline spaventate».
Ad un certo punto lei dice: il problema non è, o non è più, la frattura fra capitale e lavoro, ma tra lavoratore italiano e lavoratore cinese, tra imprenditore italiano e imprenditore cinese. C’è sicuramente una grossa questione legata alla competitività, ma, in questo quadro, come si inseriscono i diritti? Il riferimento è anche, ma non solo, all’articolo 18…
«La crisi ci costringe a rivedere il nostro rapporto con i diritti. Ovviamente parliamo di valori che non vanno negoziati, che devono essere difesi. Ma con intelligenza. I diritti di un lavoratore sono sacri finchè questo può dirsi tale. Se non lavora più, se la sua azienda ha chiuso perché incapace di competere, ha perso tutti quei diritti in un colpo solo. Da qui la mia insistenza: in questa crisi datore e lavoratore sono sulla stessa barca e possono salvarsi solo insieme. Guardi, l’articolo 18 è l’ultimo dei problemi e parlare di quello è distogliere l’attenzione dai temi veri. Lo sanno bene anche i sindacati. Ma la battaglia ormai è simbolica. Noi competiamo in modo asimmetrico con chi non ha alcun tipo di freno. Ed è ovvio che dobbiamo mettere sul piatto della bilancia le due cose, competitività e diritti, e capire fino a che punto siamo disponibili a mediare».
Veniamo al nostro territorio. Il suo giudizio sembra senza appello. Arretratezza, “vuoto cosmico di idee e contenuti” (la sto citando), e un giudizio sulla classe dirigente, complessivamente intesa, di questo genere: “Io penso che la classe dirigente del territorio oggi sia inadeguata ad affrontare la sfida. E lo dico senza pietismo e finzioni. Sarebbe comodo autoassolversi, tanto siamo tutti sulla stessa barca”. Valutazioni così nette presuppongono l’aver ripensato anche le radici e la storia di questo malessere. Ce ne vuol parlare?
«Guardi che la mia relazione è costruttiva, non è senza appello. E’ un richiamo che faccio a me per primo, sottoponendomi ai brontolii di molti. Non pensi che non mi fischino le orecchie. Dico che la classe dirigente non è adeguata perché non ha orgoglio, non difende il territorio, non lotta. Pensi a cosa subisce ogni giorno un pendolare della nostra provincia. Non è abbastanza perché tutto il sistema cremonese si incateni sotto il Pirellone. O i pendolari sono cittadini di serie B? Ecco, io non vedo questo orgoglio nella reazione. Anzi, noto talora un certo fastidio se si fanno notare alcune cose. I pendolari? Seccatori. L’opposizione? Abbaia. I
cassintegrati Tamoil? Cosa vogliono di più. Andando avanti così il territorio morirà davvero. Il dibattito pubblico, invece, si concentra sul canile, su un sito internet di informazione che apre, sul tendone per il capodanno in piazza. Ma se fai notare che così non va, ti guardano infastiditi».
Il suo giudizio, ha ribadito più volte, coinvolge tutte le forze politiche, sociali, economiche, e non risparmia una stoccata anche alla Chiesa…
«Sono uno dei pochi politici che ha il pudore di affermare di non essere cattolico, senza quelle strane frasi sofferenti che fanno pensare a chissà quali travagli interiori, per cui non mi sognerei mai di dare stoccate a una istituzione bimillenaria come la Chiesa. Ma nella mia vita ho avuto modo di conoscere il fermento che c’è negli ambienti cattolici, l’attenzione alla politica e trovo un peccato che non si riesca a fondere insieme tutte le varie energie. Ci sono iniziative più che lodevoli ma sempre tenute separate, distinte. La mia non era una stoccata, quindi, ma l’invito a condividere, a fare politica insieme. Pensando sì alla città di Dio, ma anche, ogni tanto, alla città dell’uomo».
Posso dirle una cosa? La sua analisi è per molti versi affascinante, e riesce anche a convincere, giustamente caustica e dura. Ma poi, al momento della proposta, resta un po’ nel vago. Innovare, lavorare di più e meglio, discutere in modo franco e acceso. Tutto ok, ma … su che cosa? Come? Con chi? Non crede che sia anche il tempo di risposte chiare e circostanziate?
«E’ una critica che accetto. Ma se avessi tutte le risposte io da solo sarei solo un cretino borioso. Cerco di dire altro: le risposte dobbiamo trovarle insieme. Diciamo che questa relazione è un primo tempo, non sperava né di suscitare tutto questo dibattito, né di esaurire il tema. Partiamo da una affermazione molto grave che ho fatto e che ho notato è stata sorvolata. Io temo che Cremona si svegli un giorno come Parma, con una situazione economica vicina al dissesto. E’ una preoccupazione, non ancora una valutazione politica. Ma vedo che si continua a riempire la pancia delle municipalizzate con debiti per operazioni immobiliari quantomeno discutibili, tipo il Massarotti. Il debito delle aziende pubbliche è debito del Comune, mica di altri. Ecco, come primo passo partirei dai conti, con una grande operazione di trasparenza sui beni pubblici. Trasparenza vera, ovviamente, cioè comprensibile. Questo sarebbe l’inizio e chissà quante sorprese. Senza tanti “è colpa mia, è colpa tua”. Credo che i cremonesi debbano sapere come vengono usati i loro soldi. Questo si collega alla vicenda Lgh, ma non voglio continuare su questa via. Faccio un altro esempio. Come affrontiamo, in tempi di crisi, in una città che detiene il primato dell'invecchiamento della popolazione il tema dei servizi per gli anziani e i disabili? Davvero si pensa che sfilando i soggetti che ora intervengono, la Fondazione città di Cremona ed il Comune, dalla responsabilità diretta verso quei servizi ed affidandoli ad un soggetto privato si risolveranno tutti i problemi? Invece di parlare di queste cose ci concentriamo sui permessi di parcheggio agli amministratori. In un dibattito falsato, come se questi fossero una casta famelica e cattiva perché hanno un piccolo beneficio nel loro servizio. Qualcuno ha fatto un po’ i conti? Gli amministratori sono, esagerando, un’ottantina. Poi ci sono i medici in servizio, gli artigiani, i commercianti al lavoro. E gli altri chi sono? Tutta casta? Tutta politica cattiva e famelica? Come si arriva a quei numeri iperbolici (per Cremona)? Una bella operazione giornalistica sarebbe pubblicare tutti i nomi. Ci divertiremmo. Ecco, mi sono attirato altri nemici…».
Ci penseremo, Magnoli. Potrebbe essere tema di una buona inchiesta... Per adesso, grazie.

Servono persone adeguate, o meglio, capaci

Presi – giustamente - dall’emergenza Paese e dalle misure economiche di contenimento e di risanamento, abbiamo forse prestato poca attenzione alla sostanza del cambiamento profondamente politico in atto, che seppure con tante contraddizioni, sembra produrre risultati. Un governo tecnico, però, non è eletto dai cittadini: inutile girare intorno al problema. Significa che il voto non aveva saputo esprimere forze, alleanze, coalizioni capaci di tirarci fuori da una situazione pericolosissima e tutt’altro che risolta. Significa che l’offerta politica presente al momento del voto non era complessivamente all’altezza della domanda del Paese (siamo molto generosi oggi). E che il problema, il rovello, il disagio sia perfettamente bipartisan lo dimostrano, venendo alle cose di casa nostra, le interviste che pubblichiamo in questo numero, di due esponenti di punta dei rispettivi schieramenti politici: Titta Magnoli, Pd, e Ugo Carminati, Pdl. Colpiscono molto, nelle evidenti e ovvie differenze di opinioni, alcune analisi di fondo. Soprattutto, si stigmatizza l’autoreferenzialità della classe politica del nostro territorio. Non solo politica, dice Magnoli, allargando il tiro. Insomma, la politica – e le amministrazioni - non fanno che guardare il proprio ombelico, mentre il mondo corre a rotta di collo. “Un eccesso di tranquillità e di autocompiacimento”, sostiene Magnoli. Le idee messe in secondo piano, rispetto a schieramenti, carriere e poltrone, dice Carminati, a margine di un congresso provinciale del Pdl con unico candidato e lista bloccata. Che dire? Ci vorrebbe un governo tecnico, anche per il nostro territorio? Ma il giudizio di Magnoli coinvolge tutta la classe dirigente, e si sa, ci vuole tempo per far crescere la capacità politica e amministrativa dalla società civile. E allora? Pochi giorni fa, l’onorevole Pizzetti richiamava all’etica della responsabilità e dell’interesse pubblico. Anch’egli parlava di staticità della situazione, e si augurava, per il proprio partito, il Pd, che i sindaci venissero coinvolti nella direzione politica. Giusto. E allora, la butto lì, gli attuali dirigenti politici, quelli capaci e con esperienza da vendere, non potrebbero fare il sindaco?

Daniele Tamburini

Sull’articolo 18 un dibattito di retroguardia - intervista al professor Maurizio Del Conte

di Daniele Tamburini
Pare che attorno alla legislazione sul lavoro si stiano giocando molte delle poste su cui ha puntato il governo Monti. L’assunto, secondo il premier, è che una maggior flessibilità nel mercato del lavoro possa dare fiato alle imprese ed alle loro strategie occupazionali, ancora oggi troppo imbrigliate da una normativa ipergarantista verso coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato. Il totem e il tabù è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la legge 300 del 1970, che sancisce il divieto di licenziamento senza giusta causa. Se ne parla da molti anni: nel marzo del 2002, la Cgil portò in piazza a Roma tre milioni di lavoratori, per contrastare l’ipotesi di revisione dell’articolo 18. Da allora, e non solo da destra, si insiste sulla necessità, se non dell’abolizione, della revisione. I tempi sono cambiati in profondità: precariato, lavori atipici, crisi, disoccupazione. Ma i sindacati resistono e rilanciano: come si fa a contrastare la recessione, se si pensa a licenziare di più, e non a creare crescita, occupazione, sviluppo? Nel dibattito ampio e articolato, in cui non mancano punte di asprezza, con la ministra Elsa Fornero in prima linea, si è inserita la battuta del premier Monti sulla “noia” del posto fisso. Abbiamo chiesto un parere a Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro e relazioni industriali all’università Bocconi di Milano.
Professor Del Conte, perché il nodo della normativa che regola il lavoro a tempo indeterminato è diventata, oggi, così importante?
«Questo dibattito, in realtà, eccede la sostanza del problema, nel senso che l’articolo 18, come dimostrano i dati sulla scarsa incidenza della reintegrazione sulle cause di licenziamento, non è la vera questione in gioco. Esso ha il solo scopo di prevedere la sanzione nei casi di licenziamenti illegittimi. Il discorso della giusta causa è invece normato da una legge del 1966 (legge 604 del 1966, che definisce il concetto di “giusta causa” e “giustificato motivo”, ndr). Dunque quello in atto è un dibattito sbagliato anche nella sostanza. Un dibattito di retroguardia, che non produce un ammodernamento del mercato del lavoro, ma anzi, comporta un arretramento».
Il punto è, ancora oggi, l’articolo 18, che – a nostro parere – forse riveste un aspetto molto simbolico, oltre che sostanziale. Ci potrebbe presentare, brevemente, i diversi punti di vista?
«In effetti è vero che l’articolo 18 ha un valore simbolico, che è poi quello che si sta cercando di abbattere: si pensa che eliminando tale prescrizione si possa ottenere quella spinta verso la crescita che oggi manca. A questo proposito mi limito a ricordare che la Carta sociale europea, il documento più significativo in materia, stabilisce che il lavoratore ha diritto alla tutela contro il licenziamento illegittimo. Dunque anche in Europa il problema della giusta causa esiste, e non è certo qualcosa che si possa cancellare con un colpo di penna. Nessuna legislazione nazionale degli stati membri dell’Unione europea che privasse il lavoratore della possibilità di far valere l’ingiustificatezza del licenziamento sarebbe conforme ai principi del diritto europeo. Credo che sia molto più interessante discutere della flessibilità organizzativa, ossia la necessità di garantire un posto di lavoro a tempo indeterminato, facendo però in modo che sia più agevole lo spostamento dei lavoratori da una mansione all’altra o da un luogo all’altro all’interno della stessa azienda. Attualmente vi sono troppi blocchi burocratici e procedurali che non lo permettono. In Italia invece ci si incastra in discussioni senza capo né coda sulla flessibilità in uscita. Dico che non esiste un’impresa che investe sul proprio futuro che si ponga il problema di come licenziare. Tutt’altro: l’imperativo è dare più valore al lavoro dei propri dipendenti. La riduzione del costo del lavoro è una volontà propria di imprese che non credono nel proprio futuro e nella propria competitività. Aziende che sono destinate a incontrare una sorte nefasta nel medio periodo. Se esiste un problema di attrattività del nostro paese rispetto alle regole sui licenziamenti, non riguarda certo l’articolo 18, ma piuttosto la scarsa chiarezza delle regole: abbiamo una nozione di “giustificato motivo” talmente ampia che è difficile dare delle risposte in termini di certezza, dal punto di vista giuridico. E’ questo quello che potrebbe bloccare gli investitori stranieri nell’accostarsi al nostro paese. Dunque, premesso che non si può rimuovere l’obbligo di giustificare il licenziamento, si dovrebbe specificare e circoscrivere tutti quei casi in qui il licenziamento è effettivamente illegittimo, e quali sono invece i casi in cui esso è legittimo; quando, ad esempio, è costretta a farlo per motivi economici o perché deve ristrutturarsi e modificare le proprie linee produttive». 
In molti si chiedono: ma perché, in presenza di cassa integrazione, disoccupazione, precariato, sarebbe necessario abbattere ulteriori garanzie? Come fa un licenziato, magari di mezzaetà, a ritrovare lavoro?
«Per un certo periodo di tempo alcuni economisti hanno sostenuto che la rigidità in uscita costituirebbe un freno alle assunzioni, e quindi comporterebbe un calo dell’occupazione. Tuttavia tali teorie non hanno ottenuto riscontri nelle ricerche fatte dagli stessi economisti. Riducendo le protezioni in entrata, in realtà, aumenta il turnover e quindi anche le fasi di intermedia disoccupazione. C’è poi il tema degli ammortizzatori sociali, i quali però devono essere legati a un percorso di rioccupazione, che attualmente nel nostro paese manca. Bisogna mettere in campo percorsi di riqualifica professionale da abbinare al meccanismo degli ammortizzatori sociali per chi resta senza lavoro. Si tratta di una riforma strutturale, di vasto respiro e lungo periodo, che potrebbe portare a risultati importanti. Purtroppo invece l’attuale dibattito mediatico provoca risposte che cercano una soluzione immediata da un lato, e dall’altro un’opposizione a prescindere».
Lei cosa pensa della flessibilità tout court, che parrebbe caldeggiata anche dal premier Monti nella sua ormai celebre battuta sulla “noia” del posto fisso? I giovani dicono: parlatene alle banche, per i mutui, o agli asili, per i posti dei figli…
«Secondo me si è fatta confusione tra la legittima rivendicazione del lavoratore di poter crescere professionalmente, cambiando diverse posizioni nella propria carriera lavorativa, con il problema del lavoratore che non sceglie ma subisce la perdita del posto di lavoro. Sono due cose completamente diverse: in entrambi i casi c’è una discontinuità ma nel primo caso è voluta, programmata e prevede la sicurezza di un’altra prospettiva occupazionale; diverso è invece trovarsi licenziato perché qualcuno mi dice che “altrimenti mi annoio”. Mi pare che vi sia un’invasione di campo nella legittima aspettativa di organizzare la propria carriera. Del resto è vero che nessuno garantisce il posto fisso, ma esso resta un obiettivo di tendenza per tutti. Se tale obiettivo viene eliminato si fisiologizza l’idea della precarietà. Questo non è negativo solo per la disoccupazione che ne consegue, ma lo è anche per lo sviluppo del percorso professionale del lavoratore. Se l’arco di vita lavorativa è continuamente caratterizzato da interruzioni non volute, viene meno l’evoluzione del lavoratore stesso, finché il capitale umano non ne viene impoverito. Se il percorso di crescita professionale può venire interrotto in qualsiasi momento, si finisce per frustrare ogni ipotesi di miglioramento. Questa non è certo una manovra lungimirante per l’economia del paese. Non solo per una questione etica, ma perché di fatto in tutte le società evolute, compresi gli Usa, dove c’è molta più libertà nei licenziamenti, il posto fisso rappresenta l’obiettivo di tendenza di cui parlavo prima. Tutto ciò non si risolve certo con il contratto unico, che è stato ipotizzato al posto dell’articolo 18: i lavoratori dovranno essere assunti a tempo indeterminato, ma saranno licenziabili senza giusta causa o giustificato motivo e, in tal caso, avranno diritto a un semplice indennizzo. Si amplierà il divario tra chi è protetto, gli insiders, e chi non ha alcuna tutela, gli outsiders. Pensiamo a questo: nel corso degli anni la legislazione che ha normato il rapporto contrattuale di lavoro, in cui la merce è una dimensione fondamentale della persona, si è evoluta creando un meccanismo di protezione del posto di lavoro che risulta vantaggioso per la società nel suo complesso. Tutto ciò dà, infatti, una prospettiva di relativa stabilità economica, risultato di decenni di affinamento in cui si è capito che il lavoro dell’impresa funziona in presenza di tale stabilità. Dunque è meglio riflettere bene prima di “buttare a mare” questi decenni di evoluzione. Se ci facciamo spaventare da una crisi economica e pensiamo che ad essa debba corrispondere lo smantellamento di certezze come quella del lavoro stabile, la nostra è una reazione miope a un problema che ci porteremo poi dietro per decenni. Oggi si vive sul dato giornaliero dello spread, perdendo di vista gli obiettivi per il futuro. Non possiamo pensare solo a ciò che accade domani, dobbiamo ragionare anche sulle prospettive che avremo di qui a 10 o 20 anni, specialmente per quanto riguarda il futuro dei giovani».

venerdì, febbraio 03, 2012

Le liberalizzazioni trasferiscono risorse ai giovani . Intervista al professor Paolo Manasse

Di Laura Bosio e Daniele Tamburini

Il cosiddetto “pacchetto liberalizzazioni”, predisposto dal governo Monti, sta suscitando grande dibattito e veementi proteste all’interno delle categorie interessate. Anche se, ovviamente, sia l’impatto, che lo stesso merito delle liberalizzazioni non hanno lo stesso peso, per dire, per tassisti, farmacisti o notai. Il concetto è chiaro: la nostra economia è stagnante, e lo è anche per lacci e laccioli, pressioni di gruppi di interessi, meccanismi di protezione dalla concorrenza. Liberalizzare, per il Governo, significa dare nuova linfa ai meccanismi del mercato, dare ossigeno e nuove risorse a famiglie ed imprese, far ripartire l’economia. Tutto questo ha scatenato, dicevamo, proteste, contestazioni e scioperi. Nella realtà italiana di oggi, complicata e difficile, il tutto si è mescolato a proteste di segno diverso, dagli autotrasportatori ai pescherecci, ma si ascoltano anche voci che, all’interno degli stessi ordini professionali interessati, parlano di provvedimenti abbastanza limitati. Abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Manasse, docente di Macroeconomia e politica economica all’Università di Bologna.
Professor Manasse, ci può aiutare a dipanare la matassa delle liberalizzazioni predisposte dal governo Monti?
«Si tratta di misure finalizzate a rimuovere le cosiddette "barriere all'entrata" di alcuni settori economici. Parliamo ad esempio del numero dei tassisti e delle farmacie, o dei requisiti per fare tirocini finalizzati all'iscrizione a un ordine professionali. Ostacoli che, limitando l'accesso alle professioni, contribuiscono a mantenere alti i prezzi. Si tratta di situazioni di privilegio che le liberalizzazioni vogliono eliminare, in una serie di settori che rappresentano circa il 40% del Pil. Tra l'altro, le barriere all'entrata ostacolano l'innovazione tecnologica: un elevato livello di monopolio, infatti, porta a non avere interesse a innovare, mentre una concorrenza più stringente incentiva l'innovazione e la ricerca».
Liberalizzare, stimolare la concorrenza, limitare, se non abbattere, le nicchie di privilegio: è questo dunque il volano della ripresa?
«Questi provvedimenti hanno effetti sia a livello settoriale che macroeconomico. Per quanto riguarda i settori economici, l'aumento del numero degli attori porta al calo dei prezzi e alla crescita delle merci in circolazione.
A perdere sono solo coloro che godevano dei privilegi. Ma facendo un bilancio sono più numerosi gli aspetti positivi, e la società ci guadagna. Magari si potrebbe pensare di compensare alcune categorie perché possano mitigare gli effetti della liberalizzazione. Per quanto riguarda gli effetti macroeconomici, possiamo rifarci alle esperienze di altri paesi in cui si è intrapresa la strada delle liberalizzazioni. Molti studi rilevano che si sono ottenuti guadagni in termine di riduzione dei prezzi in alcuni settori (es: tariffe telefoniche, linee aeree, ecc). Aumenta inoltre la propensione a innovare e fare ricerca, attraendo un maggior numero di investitori esteri. Ma tutto ciò rappresenta solo una parte della soluzione del problema. Bisogna infatti vedere quale fiducia si può nutrire in questo pacchetto di liberalizzazioni. Ad esempio un po' stupisce il fatto che vi siano liberalizzazioni solo parziali, in certi settori: ad esempio per le farmacie o i tassisti non si aboliscono le licenze, ma se ne aumenta il numero. In questo modo però le protezioni di tali categorie non vengono abolite, ma solo ridotte. Sarebbe invece stato preferibile un intervento più incisivo. Queste misure presentano inoltre alcuni problemi legati al fatto che nonostante le liberalizzazioni ricoprano un ampio ventaglio di attività, per alcuni settori non si prevede praticamente nulla. Sto parlando dei mercati finanziari, delle banche, delle assicurazioni».
In effetti sembra che il sistema del credito e della finanza non sia stato toccato più di tanto dalle riforme...
«E' proprio questo l'errore. Ci sono ambiti, come la disciplina delle partecipazioni incrociate, o il ruolo delle fondazioni bancarie, che creano molti problemi. Prendiamo ad esempio il ruolo delle fondazioni: questi organismi dovrebbero essere di controllo, ma in realtà vengono a loro volta controllati dalla politica del territorio, che a sua volta condiziona la banca stessa. Così chi vuole investire non lo farà certo in un istituto di credito dove le decisioni sono prese dal sindaco o dal presidente della Provincia. Se andiamo ad analizzare paesi che funzionano meglio dell'Italia, vediamo che le liberalizzazioni messe in campo sono proprio quelle legate ai mercati finanziari, che per i paesi avanzati sono quelle che funzionano meglio. Questo accade perché il sistema del credito è fondamentale per lo sviluppo dell'economia. Quindi possiamo dire che questa manovra è una grande svolta, ma lascia un po' di amaro in bocca. C'è poi il problema che, nonostante ci sia un testo unico che prevede norme piuttosto strette, nella pratica si usano spesso escamotage per aggirarle. Così troviamo persone che fanno parte di Consigli di amministrazione di diverse banche; oppure si trovano partecipazioni incrociate tra banche e grandi imprese che creano legami collusivi e il credito viene dirottato verso tali grosse aziende, a scapito di quelle più piccole, che hanno invece difficoltà ad accedervi. Sarebbe
quindi opportuno un inasprimento delle normative. Allo stesso modo si dovrebbe cambiare le fondazioni, privatizzandole in modo che venga evitata l'ingerenza della politica».
Cosa ne pensa delle proteste in atto? Sono solamente corporative, o c’è un qualche fondo di verità?
«Senza dubbio le categorie vengono toccate nel vivo e quindi le proteste sono legittime. Certi settori poi, come ad esempio i trasporti, sono state molto sacrificate dall'incremento dei carburanti, che incide per il 70%. Tuttavia, come ho detto prima, si potrebbe pensare, per tali categorie, a una forma di convenzione o di sgravio fiscale che attenui  gli effetti della manovra».
“La miseria dei molti e la ricchezza di pochi”, ha scritto in un suo recente articolo. Quali altre misure sarebbero necessarie per una maggiore equità?
«Fino alla crisi del 2008, in realtà, non c'era mai stata una grande disuguaglianza sociale. Il problema oggi che sta aumentando il divario tra ricchi e poveri, anche a causa di una forte redistribuzione del ceto medio: operai e impiegati sono scesi verso la povertà, mentre i lavoratori autonomi ci hanno guadagnato. L'altro aspetto da tenere presente è che la nostra è una società bloccata dalla mancanza di possibilità per chi non nasce in una famiglia abbiente. In sostanza i figli dei poveri restano poveri, e i figli dei ricchi restano ricchi. Questo perché carattere individuale e merito nel nostro paese hanno scarso peso. Proprio a questo proposito le liberalizzazioni sono importanti, andando nella direzione di trasferire risorse ai giovani. Oltre a questo sarebbe utile trasferire le risorse legate all'evasione fiscale sulla riduzione delle aliquote per le fasce medio-basse. Questo sarebbe fondamentale sia per la redistribuzione del reddito che dal punto di vista economico, con l'incremento dei consumi ».

L’eccezione si fa sistema

Eccezionale: la parola ci perseguita. Eccezionale l’ondata di gelo, neve e ghiaccio che si sta abbattendo sul nostro Paese: danni, tanti, ai sistemi dei trasporti, all’economia in generale, oltre alle persone che si trovano in oggettiva difficoltà. È difficile, d’altronde, pretendere che la terra del sole si confronti con agio con temperature siberiane per giorni e giorni. Davvero, pare che tutto stia cambiando. La sensazione di incertezza emerge ovunque, anche dalle parole di addetti ai lavori molto autorevoli: se leggete il nostro speciale economia, vedrete che le analisi a volte sono difformi, i timori sono differenziati, e la complessità di questo nostro mondo emerge in tutta la sua sostanza. Prendiamo il giudizio sulle liberalizzazioni: per molti, compreso Paolo Manasse, sono una salutare scossa al sistema produttivo, anche se vengono giudicate incomplete; per altri, e soprattutto per i sindacati, andranno ad incidere pesantemente sulla qualità della vita dei lavoratori: il prolungamento degli orari di lavoro, per alcuni, rischia di togliere anche il piacere di ritrovarsi con la famiglia a cena, magari solo a cena, unico momento per parlare un po’, per condividere la vita … Ma anche per questo, per la deregolamentazione degli orari nei negozi, si invocano le ragioni dell’economia. Certo, senza economia, ormai, non si vive. Però ci sono le ragioni dei piccoli negozi, che dicono: non ce la facciamo, a sostenere il peso di un nastro orario di apertura così prolungato. Questo aiuterà la grande distribuzione: ma non era necessario, come detto da più parti, incentivare il commercio di quartiere, le ragioni del piccolo coltivatore, e via dicendo? Davvero, una grande confusione, una grande incertezza. Con una domanda finale: le banche. Il sistema creditizio, cosa mette di suo per aiutare a venir fuori dalla crisi ? Risposta: una beata…

Daniele Tamburini

sabato, gennaio 28, 2012

L’importanza di ricordare, sempre. intervista a Michele Sarfatti, direttore del Cdec

Veenerdì  27 ricorre il Giorno della Memoria. Una legge del 2000, fortemente voluta da Furio Colombo, ha
inteso ricordare, il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, e coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Lo sterminio coinvolse anche l’etnia rom e sinti, comunisti, testimoni di Geova, omosessuali, disabili, dissidenti tedeschi e pentecostali; la deportazione si accanì contro prigionieri di guerra, anche italiani, quelli che non vollero piegarsi al Mussolini di Salò. Milioni di persone. La cura della memoria, per una civiltà che intenda definirsi tale, è fondamentale. In questo caso, memoria significa rispetto e amore verso chi ha subito sofferenze inenarrabili, ma anche un monito, perché occorre sempre vigilare. Avvenimenti che sembrano lontanissimi da noi potrebbero ripresentarsi. Lo scriveva Primo Levi: se è accaduto una volta, può accadere di nuovo. A questo proposito abbiamo posto alcune domande allo storico Michele Sarfatti, direttore del Cdec – Centro di documentazione ebraica contemporanea, che ha sede a Milano.
Dottor Sarfatti, perché è importante la legge che ha istituito il Giorno della Memoria?
«E’ importante perché fornisce un punto di incontro alle persone che vogliono coltivare la memoria, tenendola viva. E’ altrettanto importante, però, che non sia un obbligo, ma un’adesione volontaria, altrimenti la ricorrenza perderebbe il suo significato. Si tratta di compiere un percorso, individuale o collettivo, per riflettere su quanto è accaduto. Dunque la legge è buona cosa, purché sia interpretata correttamente».
L’argomento è enorme, e ovviamente non si può sintetizzare in poche righe, ma che cosa fu la Shoah?
«Fu uno sterminio scientificamente progettato da una parte della popolazione del continente europeo ai danni di un’altra parte di tale popolazione. I “decisori” della Shoah furono pochi ma innumerevoli furono i collaboratori e gli esecutori. Si tratta dunque di un problema collettivo: erano europei tanto i persecutori quanto le vittime, e quindi si è trattato di una situazione di disagio creatasi all’interno del nostro continente. Fu un fenomeno scientifico, moderno e totalitario nella sua progettazione, mentre nell’esecuzione convissero due differenti modalità: una tecnologica e moderna, ossia l’uccisione degli ebrei nelle camere a gas, metodologia che richiese studi e progettazioni e che riguardò in particolare gli ebrei italiani; l’altra, che coinvolse maggiormente ebrei russi e polacchi, fu invece una modalità antica e primitiva: quella degli eccidi di massa, nei boschi, nelle pianure o dentro le stesse sinagoghe, a cui veniva dato fuoco. Due modi diversi di
raggiungere lo stesso obiettivo, ossia eliminare delle grandi quantità di persone in poco tempo».
Si dice che in Italia la cura della memoria non abbia grande diffusione: lei che ne pensa?
«Non credo sia così. La percezione che abbiamo è che la diffusione della memoria in Italia sia notevole. Non è vissuta solo da una nicchia di persone, anzi: sono parecchi gli italiani che condividono il ricordo. Accanto a loro poi ci sono anche quelli che vogliono essere indifferenti alla cosa, e non mancano neppure i negazionisti,
che hanno una memoria gestita in modo malsano. Anche l’opinione pubblica presta molta attenzione a questa ricorrenza: basta fare caso a quanti periodici e quotidiani in questi giorni offrono film, libri e altro legati all’argomento. Questo dimostra che la richiesta di informazioni è sempre alta. Quello che si nota, invece, è che periodicamente cambiano i centri di interesse: quest’anno ad esempio è molto presente il tema del negazionismo».
 In che rapporto sta il Giorno della Memoria con altre celebrazioni successivamente create (come il Giorno del ricordo)?
«Il Giorno della Memoria non può essere in concorrenza o alternativa con altri ricordi, anche perché si trova su un altro piano: nessun’altra vicenda del ‘900, fortunatamente, ha avuto le caratteristiche della Shoah. Abbiamo visto altre violenze di massa ma nulla a quei livelli. Naturalmente tutte le vicende di questo tipo meritano di essere ricordate; nella misura in cui ci definiamo italiani assumiamo più di noi tutto il peso delle vicende legate alla nostra storia. Compreso tutto quello che è successo nell’area di confine tra Italia e Jugoslavia, come le foibe. Non si può pensare di rinunciare a un pezzo di storia, perché sarebbe una sorta di
amputazione intellettuale. Tra l’altro, quello delle foibe fu un episodio complesso, giacché tali violenze erano iniziate già negli anni ’20. Fu proprio da scontri nazionalisti di quel tipo che poi si arrivò alla Shoah: quella mentalità del considerarsi meglio degli altri e la voglia di risolvere i problemi con il sangue furono all’origine di tutto».
Il suo Centro lavora molto con le scuole. C’è sensibilità su questi argomenti, tra docenti e studenti?
«Direi di sì. Da un lato lo vedo quando vado a parlare nelle scuole, dall’altro nell’ambito del concorso nazionale, che si ripete ogni anno per tutte le scuole di ogni ordine e grado, legato proprio ai temi della Shoah. Faccio parte della giuria, e ogni anno vedo grande partecipazione e impegno da parte dei giovani. Si vede la voglia di approfondire e conoscere il tema».

Viviamo in un eterno presente

Ricordo bene la grande risonanza che ebbe, nel 1973, tutta la vicenda del colpo di stato in Cile. Erano altri tempi, c'era l'internazionalismo. Il golpe fu preceduto da uno sciopero dei camionisti che paralizzò il Paese. Non voglio fare parallelismi, ci mancherebbe, anche perché, qui, di un Allende non c'è traccia. Ma certo colpisce che un gruppo di persone possa ipotecare così la vita quotidiana di un Paese. Avranno le loro ragioni, la crisi li colpisce duro, ma questo vale per tutti. Per rivendicare qualcosa a livello personale o di categoria si fa un gran male a un mucchio di gente. Ognuno ha il diritto di protestare, di scioperare; ma non si può impedire a chi intende lavorare, per necessità o perché semplicemente non è contrario alle scelte del governo, di farlo. Vogliamo cercare insieme un futuro? Questo non è, secondo me, l'atteggiamento giusto. Già, il futuro. Il futuro è seriamente ipotecato. I nostri giovani vivono tra l'assenza di futuro e la carenza di conoscenza del passato. Vivono, dice qualcuno, in un eterno presente. Come i precedenti governi, per i quali l’orizzonte più lontano era la successiva scadenza elettorale. Da un lato, l'assenza di futuro impedisce di progettare e sperimentare; dall’altro, la mancata conoscenza del passato non permette di valutare nel modo giusto le cose. Allora accade che diventi un eroe un onesto e fermo comandante di capitaneria che richiama semplicemente al dovere, non all'eroismo, il comandante della nave Concordia. L'eterno presente che stiamo vivendo è confinato in una dimensione ristretta, ristretta e pericolosa. Dobbiamo avere la forza di continuare a progettare e immaginare un futuro diverso; noi ci stiamo provando. Del resto, anche la grammatica prevede vari tempi di passato e di futuro, ma un solo presente.

Daniele Tamburini

venerdì, gennaio 20, 2012

Le agenzie di rating, ma chi sono costoro? L’economista Giacomo Vaciago: «Non si sono fatte regole che conciliassero la proprietà privata con l’interesse pubblico»

di Daniele Tamburni
Il declassamento dell'Italia da parte dell'agenzia di rating Standard & Poor's, insieme a buona parte dei Paesi dell’eurozona, ha portato scompiglio e preoccupazione nel mondo della finanza europea, tanto più che circola la notizia di un prossimo declassamento anche da parte dell’agenzia Fitch. Lo stesso governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, nei giorni scorsi ha definito «gravissima» la situazione, spingendosi a dichiarare che «bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating o quanto meno imparare a fare meno affidamento sui loro giudizi» Anche il commissario dell'Unione europea, Olli Rehn, ha accusato le agenzie di rating di essere uno strumento del potere economico statunitense. Abbiamo chiesto un commento a Giacomo Vaciago, professore ordinario di politica economica e direttore dell'Istituto di Economia e Finanza nell'Università Cattolica di Milano.
Nei giorni scorsi, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato ulteriormente l’Italia, a livello BBB+. Può spiegarcene la portata concreta e che cosa significa questo per il nostro Paese?
«Facciamo una premessa. Le agenzie di rating hanno il compito di valutare la qualità di un titolo sulla base di alcune variabili: il bilancio dell'emittente, le sue aspettative economiche, la situazione del Paese, ecc. Queste società, che operano da circa un secolo, valutano centinaia di migliaia di titoli, di Stati, imprese e banche. Le principali sono Standard & Poor's, Moody (che in due detengono circa l'80% del totale dei titoli da valutare) e Fitch (che detiene circa il 5%). Il declassamento dell'Italia è dunque lo specchio di un paese che soffre, questo è palese. I giudizi delle agenzie di rating vanno rispettati e molti fondi di investimento - ad esempio alcuni fondi pensione - per statuto possono investire solo in titoli tripla A e questo fa si che quando esce un downgrading come quello nei confronti dell’Italia o della Francia, le conseguenze sono che questi paesi dovranno pagare tassi sempre più alti per poter vendere i propri titoli (un titolo con livello più elevato paga interessi inferiori rispetto a chi è collocato più in basso). Dunque il declassamento ha portato a un'impennata degli interessi, e quindi del costo del credito. Questo è un problema serio per un paese come il nostro che, come confermano gli ultimi dati, è già in piena fase di recessione».
Quanto sono attendibili i giudizi di queste agenzie?
«Sicuramente non sono infallibili, tanto che nel corso degli anni hanno già fatto parecchi errori: non si sono accorte, ad esempio, che la Grecia imbrogliava da anni, né che Lehman Brothers stava per fallire. Sarebbe necessario un organismo che valuti la loro attendibilità. Il problema è che anche quando sbagliano, provocano conseguenze devastanti. Si verifica un effetto denominato snow-ball: si inizia con una palla di neve, poi diventa una valanga. Nel momento in cui un paese subisce il giudizio negativo è più probabile che succeda ciò che le agenzie hanno previsto e cioè che la situazione peggiori, visto che l’outlook negativo danneggia il paese che lo riceve. Infatti, sulle semplici indiscrezioni di un declassamento dell’Italia da parte di
S&Poor’s, il nostro spread Btp-Bund è aumentato. Se salgono i tassi di interesse, non solo il Tesoro paga di più, ma anche le aziende italiane pagheranno ildebito più caro».
Spieghiamo qualcosa di queste agenzie di rating: cosa rappresentano? Da chi sono governate? per quale motivo hanno tanto potere?
«Le abbiamo fatte diventare importanti nel momento in cui si è voluto promulgare una serie di leggi che hanno dato un forte peso al loro giudizio, ufficializzando le pagelle che esse danno ai titoli che possono essere oggetto di acquisto. Questo potere però è venuto senza un'adeguata riflessione sulle conseguenze, quando c'era la necessità di semplificare il sistema e di valutare la bontà dei titoli. Inizialmente erano un po' come le graduatorie fatte dai numerosi enti di ricerca, come l'ultima che è uscita sul gradimento dei sindaci.  Quest'ultime però non hanno un grande peso. Le valutazioni delle agenzie di rating invece hanno un peso enorme, perché portano a conseguenze dirette davvero forti».
In queste vicende, si adombrano conflitti di interesse molto consistenti all'interno del potere finanziario ed economico: lei cosa ne pensa?
«Da più parti sono state mosse critiche in questo senso, anche perché le agenzie di rating sono enti di matrice americana a controllo anglosassone. A questo proposito si era auspicato che l’Ue promovesse le sue di società di rating in modo che fossero più controllabili. Poi però non se ne fece nulla. A Bruxelles è ancora aperto un dibattito per sottoporre a una vigilanza le stesse agenzie. Quello che ci si chiede è: chi dà il rating alle agenzie di rating? Per quanto riguarda i conflitti di interesse, in ogni caso, si possono solo sospettare, ma non ci sono chiare evidenze di ciò. Ad esempio la notizia del downgrading dell'Italia era trapelata prima che venisse fatto l'annuncio ufficiale, ed è probabile che qualcuno ci possa aver guadagnato...».
Si può quindi sostenere che queste agenzie abbiano un ruolo al di sopra delle parti ed una visione oggettiva delle cose?
«Per essere una realtà davvero "super partes", dovrebbero essere pubbliche. Invece, nonostante il peso che hanno le loro valutazioni, sono comunque soggetti privati. Moody, S&P e le altre sono figlie delle liberalizzazioni degli anni ottanta, quando era in voga lo slogan: “privato è meglio”. A quell'epoca si è privatizzato tutto in modo indiscriminato, senza prima fare delle regole che conciliassero la proprietà privata con l'interesse pubblico. E ora se ne pagano le conseguenze».
S&P ha declassato non solo l’Italia, ma anche altre realtà europee: è un attacco all'Eurozona? Quali potranno essere le conseguenze?
«Questo declassamento di diverse aree dell'Europa rappresenta un modo di lavorare abbastanza diffuso, basato sull'assunto che essendo gli stati europei realtà interdipendenti, per fare una valutazione corretta bisogna guardare all'intero. In sostanza, se in certi paesi vi sono problemi, essi si riflettono anche nelle realtà che hanno legami economici con tali paesi. Ad esempio l’Austria ha perso il rating tripla A di Standard & Poor a causa dei suoi legami con la vicina Italia, suo secondo più grande partner commerciale, e per l’Ungheria, dove le banche del paese alpino, sono i più grandi istituti di credito. Nessun attacco all'Europa, quindi, ma solo una valutazione il più possibile complessiva. Tutto ciò, in ogni caso, complica notevolmente la vita ai governi europei: non siamo ancora in vista di uno spaccamento, ma sicuramente la situazione non è delle migliori».
Da tutto questo, chi uscirà più forte e chi, invece, ne sarà indebolito?
«La maggiore evidenza è che i paesi periferici soffrono la situazione, mentre la Germania ne gode. Paradossalmente, infatti, la Germania è favorita dagli altri downgrading. L’out look negativo di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, il 19 settembre, ha giovato alla Germania che si è indebitata senza tassi d’interesse. Il costo del debito tedesco si è ridotto in questi mesi e questo fa bene alla sua economia. Dunque S&P per ora ha fatto un favore alla Merkel, con la conseguenza di qualche disoccupato in meno in Germania e qualche disoccupato in più in Italia o Francia».

Andrea Morrone, costituzionalista e presidente del Comitato referendario, commenta la bocciatura dei referendum per la modifica della legge elettorale. Alle elezioni voteremo con il “porcellum”?

Siamo di fronte ad una situazione, a dir poco, paradossale. Abbiamo, in Italia, una legge elettorale definita un po’ da tutti “porcellum”, a partire da coloro che l’hanno voluta. Approvata nel 2006, poco prima delle elezioni politiche, ha sostituito il vecchio «Mattarellum» e ha introdotto un sistema proporzionale, con soglie di sbarramento e liste bloccate. In pratica, si vota esclusivamente per il partito. Il risultato elettorale determina il numero di seggi conquistati da ogni forza politica; deputati e senatori vengono abbinati ai seggi conquistati in base alla posizione del loro nome nella lista bloccata (l'elettore non può cioè esprimere una preferenza: questo è forse il punto di maggior “sofferenza”). Per la sola elezione della Camera è previsto anche un premio di maggioranza. Il nome «porcellum» deriva da una dichiarazione dell'allora ministro delle Riforme, il leghista Roberto Calderoli, che in un periodo successivo all'approvazione della legge da lui stesso promossa ebbe a definirla una «porcata». La Corte costituzionale, giorni fa, ha dichiarato l’inammissibilità di due quesiti presentati dal comitato promotore del referendum sulla legge elettorale, su cui erano state raccolte più di un milione di firme: sia quello che chiedeva l'abrogazione totale della legge Calderoli sia quello che ne chiedeva l'abrogazione per parti. Il paradosso è questo: una legge aspramente criticata, in virtù della quale, comunque la si pensi, è innegabile che vi sia una sottrazione di potere decisionale rispetto al corpo elettorale. Votando un partito ed esercitando un mio diritto costituzionale, non posso, nei fatti, scegliere le donne o gli uomini che, in Parlamento, rappresenteranno quel partito e quindi il mio voto. L’art. 48 della nostra Costituzione dice: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto”. Quanto alla libertà, ci pare che questa legge elettorale ne costituisca una seria ipoteca.
(d.t.)


La notizia del pronunciamento della Corte Costituzionale ha sollevato molte perplessità e delusione. Ne abbiamo parlato con il professor Andrea Morrone, presidente del Comitato referendario, nonché professore ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna.
Professor Morrone, la Consulta ha bocciato i due referendum da voi proposti sull’abrogazione della legge elettorale vigente, il cosiddetto “porcellum”. Ce ne puòspiegare le motivazioni?
«Difficile dirlo. Bisognerà aspettare di leggere le motivazioni della Consulta. Noi avevamo sottoposto alla Corte Costituzionale una proposta per eliminare il vuoto che consegue a ogni referendum abrogativo. Un vuoto che non può essere mantenuto. La nostra ipotesi era quindi di abrogare la legge Calderoli in modo totale o parziale, ripristinando la normativa previgente, ossia la legge detta “Mattarellum”. Evidentemente la Corte Costituzionale ha deciso che questa non fosse una strada percorribile».
Può spiegarmi la questione del vuoto legislativo?
«Nel 1987 la Corte Costituzionale stabilì delle leggi speciali per abrogare le leggi elettorali: possono essere abrogate solo per sostituzione, ossia deve restare in piedi una legislazione sostitutiva. La novità del nostro referendum era che la nuova normativa non sarebbe stata ricavata dalla legge che si andava abrogando, ma si sarebbe individuata recuperando le vecchie disposizioni. Del resto la legge di Calderoli non disciplina completamente le elezioni di Camera e Senato, ma semplicemente sostituisce la formula elettorale della legge "Mattarellum"».
Quali sono, a suo parere, le criticità maggiori presenti nella cosiddetta legge “porcellum”?
«Nell'indire il referendum siamo partiti con lo slogan: "bisogna restituire lo scettro ai cittadini". Questo già dice tutto. La legge Calderoli ha determinato un'involuzione rispetto al passato: prima il cittadino poteva scegliere coloro che avrebbero composto la maggioranza di Governo, votando i singoli candidati. La legge Calderoli, nel 2005, ha introdotto la proporzionale con preferenza bloccata e premio di maggioranza. Questo sistema complica le cose, perché c'è il rischio che un candidato vinca alla Camera e non al Senato. Ma la cosa più grave è la lista bloccata: gli elettori possono scegliere il partito ma non possono votare i propri rappresentanti; devono invece accettare passivamente tutti i candidati della lista. Così in questi anni abbiamo votato In questo modo si ottiene un Parlamento di nominati ma non di eletti. Molte realtà provinciali non hanno avuto neppure un rappresentante».
Ci può spiegare, in maniera ovviamente schematica, quale sarebbe, a suo parere, un sistema elettorale adeguato al nostro Paese?
«Non esiste un modello ideale. Dobbiamo partire dall'obiettivo che vogliamo perseguire, e da lì costruire le regole che lo rappresentino meglio. Dietro il referendum infatti vi erano degli scopi ben precisi: vogliamo che l'Italia abbia un sistema bipolare in cui i due poli, composti da più partiti, possano alternativamente contendersi il Governo del Paese. Una democrazia nella quale i cittadini possano scegliere i propri rappresentanti e la maggioranza di Governo. Per realizzare questi obiettivi si possono utilizzare i più svariati sistemi elettorali. Questo è il problema, in Italia: ci siamo sempre concentrati più sulla regola che sugli obiettivi. E ognuno vorrebbe che venissero scelte le regole che più gli fanno comodo. Così il terzo polo, ad esempio, vorrebbe il ritorno di un sistema con la presenza di più poli, dove però l'ago della bilancia è spostato sempre verso il centro». 
Dunque il punto di maggior criticità della legge in vigore viene identificato spesso nella impossibilità di esprimere preferenze: l’elettore si trova rappresentato da un deputato in virtù del posto ricoperto da quest’ultimo nella lista, posto deciso a tavolino. Quali sono stati i motivi di questa scelta del legislatore?
«E' stata fatta una scelta politica a favore dei gruppi dirigenti ora presenti in questo Paese. Calderoli doveva tenere insieme le anime del centrodestra. Da un lato Casini, che voleva un sistema proporzionale, dall'altro Fini, che pretendeva le liste bloccate - che in realtà interessavano anche alla Lega, che così poteva utilizzare i candidati delle aree in cui era più forte, senza dover obbligatoriamente esprimere candidati del territorio - e infine Berlusconi, che chiedeva il premio di maggioranza. Ma questa legge fu fatta anche per impedire a Prodi di vincere con il doppio premio elettorale, e quindi impedendo a coalizioni disgiunte come la sua di poter vincere. Al di là di questo, il problema vero della legge Calderoli è che la lista bloccata piace a tutti i dirigenti di partito, di qualsiasi colore politico: in questo modo infatti, possono nominare le proprie persone di fiducia senza farle passare dal giudizio degli elettori. Questa legge elettorale, proprio per questo, ha determinato grandi fratture interne nei partiti, perché accontentando la dirigenza si è estromessa la base dei partiti, impedendo loro di esprimere candidati validi e preparati».
Pensa che questo Parlamento sia in grado di fare una riforma elettorale che dia conto del disagio espresso ormai da moltissimi cittadini?
«Assolutamente no. Non è stato in grado di portare avanti la riforma in tutti questi anni, ho seri dubbi che possa riuscirci ora, tanto più che il premier Mario Monti ha problemi più urgenti a cui dedicarsi. Del resto, se i mercati internazionali non hanno fiducia nel nostro Paese è perché non ritengono la classe dirigente adeguata a far fronte alle difficoltà italiane in Europa. Ma la fiducia manca anche a livello interno: la gente che ha firmato per il referendum ritiene inaffidabile l'intera classe politica, tanto a destra quanto a sinistra. Neppure lo stesso Napolitano si fida dei politici italiani, tanto che ha preferito nominare un docente come Presidente del Consiglio. Gli stessi partiti non sono così convinti di cambiare questa legge: Bossi ha detto che non c'è il tempo per farlo, Berlusconi sostiene che va bene così. Casini e D’Alema asseriscono che prima si devono fare le riforme costituzionali. L'Italia dei Valori rifiuta qualsiasi riforma. Sono convinto che alla fine andremo a votare con la legge Calderoli».

Nessuno

Chi mi conosce sa quanto ami le automobili, da sempre. Mi piacciono le auto e mi piace guidarle, da giovane ho partecipato a gare automobilistiche. Ma devo, dovrò farmene una ragione, almeno fintantoché non costruiranno auto non inquinanti: non possiamo più sostenere questi livelli e, soprattutto, questa qualità di mobilità. La nostra aria non lo tollera più. L’inquinamento è alle stelle, i valori delle PM10 sono preoccupanti: se ne sono accorti persino in Comune. Nell’inchiesta che pubblichiamo in questo numero, alcuni cittadini dicono, con ragioni fondate: bloccare il traffico è un provvedimento tampone, servirebbe ben altro; ad esempio, incentivare l’utilizzo dei mezzi pubblici. Certo che sì. Tra l’altro, il trasporto pubblico locale è stato tra i comparti più penalizzati, manovra dopo manovra. Però, è ormai palese, ormai inevitabile che dovremo cambiare abitudini. Pensiamoci un attimo: il prezzo della benzina è ulteriormente aumentato. Questo contribuisce a deprimere la mobilità, che è uno degli elementi dello sviluppo di un territorio. Allora, non sarebbe meglio investire proprio nella mobilità pubblica, rendendola più fruibile, magari gratuita: ci sono esempi in giro per il mondo, ne abbiamo parlato ampiamente, su queste pagine, qualche anno fa. Bisogna cominciare a lavorare per un modello di città da godere di più e meglio. Si parla di “città intelligenti”. È un concetto affascinante. Faccio un esempio: se hai bisogno di un certificato, non devi spostarti ma, collegandoti via internet ad uno sportello telematico, lo stampi direttamente in ufficio o a casa. A questo proposito, il Comune di Cremona ha già fatto molto. Ma molto rimane da fare. A leggere il rapporto Euromobility per il 2011, i numeri sono sconfortanti: trasporto pubblico locale ancora inefficiente nella maggior parte delle città italiane, e 8000 morti all’anno per le polveri sottili. Occorre cambiare mentalità, porsi l’obiettivo, e perseguirlo con determinazione sapendo di andare contro forti interessi: è inevitabile, non può che essere così. Ma chi è, oggi, disposto a farlo, sapendo che elettoralmente non paga?

Daniele Tamburini

venerdì, gennaio 13, 2012

I nomi a volte sono presagi

Ci sono delle tragedie che non sono frutto di fatalità o del destino cinico e baro: per esempio, gli incidenti sulla strada. L’anno è iniziato malissimo, qui a Cremona, con quattro decessi. Occorre rispettare le regole, nella vita, sul lavoro e sulla strada. In tempi difficili, gli “hard times”, può crescere la tentazione della deregulation anche nel seguire le norme che governano la convivenza tra le persone: bisogna contrastarla. Non è fatalità neppure il continuo sforamento della soglia della presenza di polveri sottili nell’aria che respiriamo. Dice il Comune che occorrono politiche di area vasta, ma qui, di vasto, c’è solo il pericolo che cresce, giorno dopo giorno, per i nostri polmoni. È vero, complici della situazione sono le condizioni atmosferiche, ma, appunto, certe condizioni sono, qua da noi, una costante a memoria d’uomo. Ci vorranno sicuramente politiche di area vasta, ma qualche provvedimento serio potrebbe essere preso, o no? Ma torniamo alle regole. Il Governo ritiene necessario dare il via ad un pacchetto di liberalizzazioni: alcuni sono favorevoli, altri contrari, in una inevitabile e democratica dialettica tra posizioni ed interessi diversi. Ma, nel pacchetto di misure annunciato, ecco che esce fuori nuovamente il tema dell’acqua. Ma non avevamo votato ad un referendum? Ma, anche qui da noi, nella Provincia di Cremona, non si è svolta una battaglia durissima tra la giunta Salini, la minoranza del suo Consiglio e la maggioranza dei Sindaci del territorio, perché la Provincia aveva deliberato in senso contrario agli esiti del referendum? E ora, che accadrà? Altra musica, altro giro di valzer? Ripeto: ma non avevamo votato? Sembra che votare e decidere non vada per la maggiore: sarà questo l’atteggiamento che sta dietro alla bocciatura, da parte della Consulta, dei referendum sulla legge elettorale? E intanto, per ora, dobbiamo tenerci il porcellum: una porcata, appunto. Nomina sunt omina, i nomi a volte sono presagi!

Daniele Tamburini

venerdì, gennaio 06, 2012

Se la gente lavora, guadagna; se guadagna, spende; se spende, qualcuno ci guadagna

Il 2012 si apre con la notizia che, a Cortina d’Ampezzo, a seguito di ispezioni della Guardia di Finanza condotte a fine anno, l’incasso degli esercizi commerciali è salito del 400 %. Ma non basta: su 251 auto di grossa cilindrata, e sulle 133 intestate a persone fisiche, ben 42 appartengono a persone che, negli ultimi due anni, hanno dichiarato 1.800 euro lordi al mese. Non c’è che dire: gente “risparmiosa”. Quello che non va, in questo Paese, sono le situazioni di privilegio quasi medievale. Ma non castale. Faccio un esempio. Il commerciante al dettaglio di Cremona deve stare molto attento a rilasciare sempre ricevuta o scontrino fiscale: e, si badi bene, è giustissimo. Ma il commerciante di Cortina (o di Porto Cervo o di Capri o … fate voi), quando accade che ci siano controlli che lo obbligano ad emettere ricevuta, aumenta il fatturato del 400%. Delle due, l’una: o la presenza della Guardia di Finanza eccita talmente i consumi, che gli incassi crescono vertiginosamente (magari ci sono finanzieri tipo star di Hollywood … chissà), oppure qualcosa non quadra. Il blitz intelligente e mirato di Cortina dà veramente l’idea del volume di privilegio intoccabile (finora?) che c’è nel nostro Paese. Il contribuente onesto si indigna, giustamente. Gli chiedono ulteriori sacrifici, e poi si leggono notizie del genere. Allora, ben vengano i controlli, mirati e “chirurgici”. Chi è onesto non deve temerli. Recuperare tante risorse dall’evasione e dall’elusione. Ma non basta. Con serietà e lungimiranza, proprie di chi ha responsabilità importanti, Antonio Piva dice, nell'intervista che pubblichiamo in questa stessa pagina: occorrono coesione, compattezza, innovazione, apertura internazionale. Cremona andrà a presentarsi in una vetrina d’eccezione, a New York. Se non ci apriamo ancora di più ai mercati internazionali, non ce la faremo. Senza dimenticare una vera, grande, enorme emergenza: il lavoro. Forse c’è molto da cambiare, nei meccanismi del mercato del lavoro, ma pure qui il discorso è quello delle tasse: non si risolve la questione precarizzando sempre di più il lavoratore debole, ma creando meccanismi che incentivino ad assumere. Se la gente lavora, guadagna; se guadagna, spende; se la gente spende, qualcuno ci guadagna. E così’ via. Adesso, invece, prevale la paura. Lo dice anche una nostra inchiesta. È pericoloso. Combattiamo la paura.

Daniele Tamburini