venerdì, febbraio 10, 2012

Sull’articolo 18 un dibattito di retroguardia - intervista al professor Maurizio Del Conte

di Daniele Tamburini
Pare che attorno alla legislazione sul lavoro si stiano giocando molte delle poste su cui ha puntato il governo Monti. L’assunto, secondo il premier, è che una maggior flessibilità nel mercato del lavoro possa dare fiato alle imprese ed alle loro strategie occupazionali, ancora oggi troppo imbrigliate da una normativa ipergarantista verso coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato. Il totem e il tabù è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la legge 300 del 1970, che sancisce il divieto di licenziamento senza giusta causa. Se ne parla da molti anni: nel marzo del 2002, la Cgil portò in piazza a Roma tre milioni di lavoratori, per contrastare l’ipotesi di revisione dell’articolo 18. Da allora, e non solo da destra, si insiste sulla necessità, se non dell’abolizione, della revisione. I tempi sono cambiati in profondità: precariato, lavori atipici, crisi, disoccupazione. Ma i sindacati resistono e rilanciano: come si fa a contrastare la recessione, se si pensa a licenziare di più, e non a creare crescita, occupazione, sviluppo? Nel dibattito ampio e articolato, in cui non mancano punte di asprezza, con la ministra Elsa Fornero in prima linea, si è inserita la battuta del premier Monti sulla “noia” del posto fisso. Abbiamo chiesto un parere a Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro e relazioni industriali all’università Bocconi di Milano.
Professor Del Conte, perché il nodo della normativa che regola il lavoro a tempo indeterminato è diventata, oggi, così importante?
«Questo dibattito, in realtà, eccede la sostanza del problema, nel senso che l’articolo 18, come dimostrano i dati sulla scarsa incidenza della reintegrazione sulle cause di licenziamento, non è la vera questione in gioco. Esso ha il solo scopo di prevedere la sanzione nei casi di licenziamenti illegittimi. Il discorso della giusta causa è invece normato da una legge del 1966 (legge 604 del 1966, che definisce il concetto di “giusta causa” e “giustificato motivo”, ndr). Dunque quello in atto è un dibattito sbagliato anche nella sostanza. Un dibattito di retroguardia, che non produce un ammodernamento del mercato del lavoro, ma anzi, comporta un arretramento».
Il punto è, ancora oggi, l’articolo 18, che – a nostro parere – forse riveste un aspetto molto simbolico, oltre che sostanziale. Ci potrebbe presentare, brevemente, i diversi punti di vista?
«In effetti è vero che l’articolo 18 ha un valore simbolico, che è poi quello che si sta cercando di abbattere: si pensa che eliminando tale prescrizione si possa ottenere quella spinta verso la crescita che oggi manca. A questo proposito mi limito a ricordare che la Carta sociale europea, il documento più significativo in materia, stabilisce che il lavoratore ha diritto alla tutela contro il licenziamento illegittimo. Dunque anche in Europa il problema della giusta causa esiste, e non è certo qualcosa che si possa cancellare con un colpo di penna. Nessuna legislazione nazionale degli stati membri dell’Unione europea che privasse il lavoratore della possibilità di far valere l’ingiustificatezza del licenziamento sarebbe conforme ai principi del diritto europeo. Credo che sia molto più interessante discutere della flessibilità organizzativa, ossia la necessità di garantire un posto di lavoro a tempo indeterminato, facendo però in modo che sia più agevole lo spostamento dei lavoratori da una mansione all’altra o da un luogo all’altro all’interno della stessa azienda. Attualmente vi sono troppi blocchi burocratici e procedurali che non lo permettono. In Italia invece ci si incastra in discussioni senza capo né coda sulla flessibilità in uscita. Dico che non esiste un’impresa che investe sul proprio futuro che si ponga il problema di come licenziare. Tutt’altro: l’imperativo è dare più valore al lavoro dei propri dipendenti. La riduzione del costo del lavoro è una volontà propria di imprese che non credono nel proprio futuro e nella propria competitività. Aziende che sono destinate a incontrare una sorte nefasta nel medio periodo. Se esiste un problema di attrattività del nostro paese rispetto alle regole sui licenziamenti, non riguarda certo l’articolo 18, ma piuttosto la scarsa chiarezza delle regole: abbiamo una nozione di “giustificato motivo” talmente ampia che è difficile dare delle risposte in termini di certezza, dal punto di vista giuridico. E’ questo quello che potrebbe bloccare gli investitori stranieri nell’accostarsi al nostro paese. Dunque, premesso che non si può rimuovere l’obbligo di giustificare il licenziamento, si dovrebbe specificare e circoscrivere tutti quei casi in qui il licenziamento è effettivamente illegittimo, e quali sono invece i casi in cui esso è legittimo; quando, ad esempio, è costretta a farlo per motivi economici o perché deve ristrutturarsi e modificare le proprie linee produttive». 
In molti si chiedono: ma perché, in presenza di cassa integrazione, disoccupazione, precariato, sarebbe necessario abbattere ulteriori garanzie? Come fa un licenziato, magari di mezzaetà, a ritrovare lavoro?
«Per un certo periodo di tempo alcuni economisti hanno sostenuto che la rigidità in uscita costituirebbe un freno alle assunzioni, e quindi comporterebbe un calo dell’occupazione. Tuttavia tali teorie non hanno ottenuto riscontri nelle ricerche fatte dagli stessi economisti. Riducendo le protezioni in entrata, in realtà, aumenta il turnover e quindi anche le fasi di intermedia disoccupazione. C’è poi il tema degli ammortizzatori sociali, i quali però devono essere legati a un percorso di rioccupazione, che attualmente nel nostro paese manca. Bisogna mettere in campo percorsi di riqualifica professionale da abbinare al meccanismo degli ammortizzatori sociali per chi resta senza lavoro. Si tratta di una riforma strutturale, di vasto respiro e lungo periodo, che potrebbe portare a risultati importanti. Purtroppo invece l’attuale dibattito mediatico provoca risposte che cercano una soluzione immediata da un lato, e dall’altro un’opposizione a prescindere».
Lei cosa pensa della flessibilità tout court, che parrebbe caldeggiata anche dal premier Monti nella sua ormai celebre battuta sulla “noia” del posto fisso? I giovani dicono: parlatene alle banche, per i mutui, o agli asili, per i posti dei figli…
«Secondo me si è fatta confusione tra la legittima rivendicazione del lavoratore di poter crescere professionalmente, cambiando diverse posizioni nella propria carriera lavorativa, con il problema del lavoratore che non sceglie ma subisce la perdita del posto di lavoro. Sono due cose completamente diverse: in entrambi i casi c’è una discontinuità ma nel primo caso è voluta, programmata e prevede la sicurezza di un’altra prospettiva occupazionale; diverso è invece trovarsi licenziato perché qualcuno mi dice che “altrimenti mi annoio”. Mi pare che vi sia un’invasione di campo nella legittima aspettativa di organizzare la propria carriera. Del resto è vero che nessuno garantisce il posto fisso, ma esso resta un obiettivo di tendenza per tutti. Se tale obiettivo viene eliminato si fisiologizza l’idea della precarietà. Questo non è negativo solo per la disoccupazione che ne consegue, ma lo è anche per lo sviluppo del percorso professionale del lavoratore. Se l’arco di vita lavorativa è continuamente caratterizzato da interruzioni non volute, viene meno l’evoluzione del lavoratore stesso, finché il capitale umano non ne viene impoverito. Se il percorso di crescita professionale può venire interrotto in qualsiasi momento, si finisce per frustrare ogni ipotesi di miglioramento. Questa non è certo una manovra lungimirante per l’economia del paese. Non solo per una questione etica, ma perché di fatto in tutte le società evolute, compresi gli Usa, dove c’è molta più libertà nei licenziamenti, il posto fisso rappresenta l’obiettivo di tendenza di cui parlavo prima. Tutto ciò non si risolve certo con il contratto unico, che è stato ipotizzato al posto dell’articolo 18: i lavoratori dovranno essere assunti a tempo indeterminato, ma saranno licenziabili senza giusta causa o giustificato motivo e, in tal caso, avranno diritto a un semplice indennizzo. Si amplierà il divario tra chi è protetto, gli insiders, e chi non ha alcuna tutela, gli outsiders. Pensiamo a questo: nel corso degli anni la legislazione che ha normato il rapporto contrattuale di lavoro, in cui la merce è una dimensione fondamentale della persona, si è evoluta creando un meccanismo di protezione del posto di lavoro che risulta vantaggioso per la società nel suo complesso. Tutto ciò dà, infatti, una prospettiva di relativa stabilità economica, risultato di decenni di affinamento in cui si è capito che il lavoro dell’impresa funziona in presenza di tale stabilità. Dunque è meglio riflettere bene prima di “buttare a mare” questi decenni di evoluzione. Se ci facciamo spaventare da una crisi economica e pensiamo che ad essa debba corrispondere lo smantellamento di certezze come quella del lavoro stabile, la nostra è una reazione miope a un problema che ci porteremo poi dietro per decenni. Oggi si vive sul dato giornaliero dello spread, perdendo di vista gli obiettivi per il futuro. Non possiamo pensare solo a ciò che accade domani, dobbiamo ragionare anche sulle prospettive che avremo di qui a 10 o 20 anni, specialmente per quanto riguarda il futuro dei giovani».

venerdì, febbraio 03, 2012

Le liberalizzazioni trasferiscono risorse ai giovani . Intervista al professor Paolo Manasse

Di Laura Bosio e Daniele Tamburini

Il cosiddetto “pacchetto liberalizzazioni”, predisposto dal governo Monti, sta suscitando grande dibattito e veementi proteste all’interno delle categorie interessate. Anche se, ovviamente, sia l’impatto, che lo stesso merito delle liberalizzazioni non hanno lo stesso peso, per dire, per tassisti, farmacisti o notai. Il concetto è chiaro: la nostra economia è stagnante, e lo è anche per lacci e laccioli, pressioni di gruppi di interessi, meccanismi di protezione dalla concorrenza. Liberalizzare, per il Governo, significa dare nuova linfa ai meccanismi del mercato, dare ossigeno e nuove risorse a famiglie ed imprese, far ripartire l’economia. Tutto questo ha scatenato, dicevamo, proteste, contestazioni e scioperi. Nella realtà italiana di oggi, complicata e difficile, il tutto si è mescolato a proteste di segno diverso, dagli autotrasportatori ai pescherecci, ma si ascoltano anche voci che, all’interno degli stessi ordini professionali interessati, parlano di provvedimenti abbastanza limitati. Abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Manasse, docente di Macroeconomia e politica economica all’Università di Bologna.
Professor Manasse, ci può aiutare a dipanare la matassa delle liberalizzazioni predisposte dal governo Monti?
«Si tratta di misure finalizzate a rimuovere le cosiddette "barriere all'entrata" di alcuni settori economici. Parliamo ad esempio del numero dei tassisti e delle farmacie, o dei requisiti per fare tirocini finalizzati all'iscrizione a un ordine professionali. Ostacoli che, limitando l'accesso alle professioni, contribuiscono a mantenere alti i prezzi. Si tratta di situazioni di privilegio che le liberalizzazioni vogliono eliminare, in una serie di settori che rappresentano circa il 40% del Pil. Tra l'altro, le barriere all'entrata ostacolano l'innovazione tecnologica: un elevato livello di monopolio, infatti, porta a non avere interesse a innovare, mentre una concorrenza più stringente incentiva l'innovazione e la ricerca».
Liberalizzare, stimolare la concorrenza, limitare, se non abbattere, le nicchie di privilegio: è questo dunque il volano della ripresa?
«Questi provvedimenti hanno effetti sia a livello settoriale che macroeconomico. Per quanto riguarda i settori economici, l'aumento del numero degli attori porta al calo dei prezzi e alla crescita delle merci in circolazione.
A perdere sono solo coloro che godevano dei privilegi. Ma facendo un bilancio sono più numerosi gli aspetti positivi, e la società ci guadagna. Magari si potrebbe pensare di compensare alcune categorie perché possano mitigare gli effetti della liberalizzazione. Per quanto riguarda gli effetti macroeconomici, possiamo rifarci alle esperienze di altri paesi in cui si è intrapresa la strada delle liberalizzazioni. Molti studi rilevano che si sono ottenuti guadagni in termine di riduzione dei prezzi in alcuni settori (es: tariffe telefoniche, linee aeree, ecc). Aumenta inoltre la propensione a innovare e fare ricerca, attraendo un maggior numero di investitori esteri. Ma tutto ciò rappresenta solo una parte della soluzione del problema. Bisogna infatti vedere quale fiducia si può nutrire in questo pacchetto di liberalizzazioni. Ad esempio un po' stupisce il fatto che vi siano liberalizzazioni solo parziali, in certi settori: ad esempio per le farmacie o i tassisti non si aboliscono le licenze, ma se ne aumenta il numero. In questo modo però le protezioni di tali categorie non vengono abolite, ma solo ridotte. Sarebbe invece stato preferibile un intervento più incisivo. Queste misure presentano inoltre alcuni problemi legati al fatto che nonostante le liberalizzazioni ricoprano un ampio ventaglio di attività, per alcuni settori non si prevede praticamente nulla. Sto parlando dei mercati finanziari, delle banche, delle assicurazioni».
In effetti sembra che il sistema del credito e della finanza non sia stato toccato più di tanto dalle riforme...
«E' proprio questo l'errore. Ci sono ambiti, come la disciplina delle partecipazioni incrociate, o il ruolo delle fondazioni bancarie, che creano molti problemi. Prendiamo ad esempio il ruolo delle fondazioni: questi organismi dovrebbero essere di controllo, ma in realtà vengono a loro volta controllati dalla politica del territorio, che a sua volta condiziona la banca stessa. Così chi vuole investire non lo farà certo in un istituto di credito dove le decisioni sono prese dal sindaco o dal presidente della Provincia. Se andiamo ad analizzare paesi che funzionano meglio dell'Italia, vediamo che le liberalizzazioni messe in campo sono proprio quelle legate ai mercati finanziari, che per i paesi avanzati sono quelle che funzionano meglio. Questo accade perché il sistema del credito è fondamentale per lo sviluppo dell'economia. Quindi possiamo dire che questa manovra è una grande svolta, ma lascia un po' di amaro in bocca. C'è poi il problema che, nonostante ci sia un testo unico che prevede norme piuttosto strette, nella pratica si usano spesso escamotage per aggirarle. Così troviamo persone che fanno parte di Consigli di amministrazione di diverse banche; oppure si trovano partecipazioni incrociate tra banche e grandi imprese che creano legami collusivi e il credito viene dirottato verso tali grosse aziende, a scapito di quelle più piccole, che hanno invece difficoltà ad accedervi. Sarebbe
quindi opportuno un inasprimento delle normative. Allo stesso modo si dovrebbe cambiare le fondazioni, privatizzandole in modo che venga evitata l'ingerenza della politica».
Cosa ne pensa delle proteste in atto? Sono solamente corporative, o c’è un qualche fondo di verità?
«Senza dubbio le categorie vengono toccate nel vivo e quindi le proteste sono legittime. Certi settori poi, come ad esempio i trasporti, sono state molto sacrificate dall'incremento dei carburanti, che incide per il 70%. Tuttavia, come ho detto prima, si potrebbe pensare, per tali categorie, a una forma di convenzione o di sgravio fiscale che attenui  gli effetti della manovra».
“La miseria dei molti e la ricchezza di pochi”, ha scritto in un suo recente articolo. Quali altre misure sarebbero necessarie per una maggiore equità?
«Fino alla crisi del 2008, in realtà, non c'era mai stata una grande disuguaglianza sociale. Il problema oggi che sta aumentando il divario tra ricchi e poveri, anche a causa di una forte redistribuzione del ceto medio: operai e impiegati sono scesi verso la povertà, mentre i lavoratori autonomi ci hanno guadagnato. L'altro aspetto da tenere presente è che la nostra è una società bloccata dalla mancanza di possibilità per chi non nasce in una famiglia abbiente. In sostanza i figli dei poveri restano poveri, e i figli dei ricchi restano ricchi. Questo perché carattere individuale e merito nel nostro paese hanno scarso peso. Proprio a questo proposito le liberalizzazioni sono importanti, andando nella direzione di trasferire risorse ai giovani. Oltre a questo sarebbe utile trasferire le risorse legate all'evasione fiscale sulla riduzione delle aliquote per le fasce medio-basse. Questo sarebbe fondamentale sia per la redistribuzione del reddito che dal punto di vista economico, con l'incremento dei consumi ».

L’eccezione si fa sistema

Eccezionale: la parola ci perseguita. Eccezionale l’ondata di gelo, neve e ghiaccio che si sta abbattendo sul nostro Paese: danni, tanti, ai sistemi dei trasporti, all’economia in generale, oltre alle persone che si trovano in oggettiva difficoltà. È difficile, d’altronde, pretendere che la terra del sole si confronti con agio con temperature siberiane per giorni e giorni. Davvero, pare che tutto stia cambiando. La sensazione di incertezza emerge ovunque, anche dalle parole di addetti ai lavori molto autorevoli: se leggete il nostro speciale economia, vedrete che le analisi a volte sono difformi, i timori sono differenziati, e la complessità di questo nostro mondo emerge in tutta la sua sostanza. Prendiamo il giudizio sulle liberalizzazioni: per molti, compreso Paolo Manasse, sono una salutare scossa al sistema produttivo, anche se vengono giudicate incomplete; per altri, e soprattutto per i sindacati, andranno ad incidere pesantemente sulla qualità della vita dei lavoratori: il prolungamento degli orari di lavoro, per alcuni, rischia di togliere anche il piacere di ritrovarsi con la famiglia a cena, magari solo a cena, unico momento per parlare un po’, per condividere la vita … Ma anche per questo, per la deregolamentazione degli orari nei negozi, si invocano le ragioni dell’economia. Certo, senza economia, ormai, non si vive. Però ci sono le ragioni dei piccoli negozi, che dicono: non ce la facciamo, a sostenere il peso di un nastro orario di apertura così prolungato. Questo aiuterà la grande distribuzione: ma non era necessario, come detto da più parti, incentivare il commercio di quartiere, le ragioni del piccolo coltivatore, e via dicendo? Davvero, una grande confusione, una grande incertezza. Con una domanda finale: le banche. Il sistema creditizio, cosa mette di suo per aiutare a venir fuori dalla crisi ? Risposta: una beata…

Daniele Tamburini

sabato, gennaio 28, 2012

L’importanza di ricordare, sempre. intervista a Michele Sarfatti, direttore del Cdec

Veenerdì  27 ricorre il Giorno della Memoria. Una legge del 2000, fortemente voluta da Furio Colombo, ha
inteso ricordare, il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, e coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Lo sterminio coinvolse anche l’etnia rom e sinti, comunisti, testimoni di Geova, omosessuali, disabili, dissidenti tedeschi e pentecostali; la deportazione si accanì contro prigionieri di guerra, anche italiani, quelli che non vollero piegarsi al Mussolini di Salò. Milioni di persone. La cura della memoria, per una civiltà che intenda definirsi tale, è fondamentale. In questo caso, memoria significa rispetto e amore verso chi ha subito sofferenze inenarrabili, ma anche un monito, perché occorre sempre vigilare. Avvenimenti che sembrano lontanissimi da noi potrebbero ripresentarsi. Lo scriveva Primo Levi: se è accaduto una volta, può accadere di nuovo. A questo proposito abbiamo posto alcune domande allo storico Michele Sarfatti, direttore del Cdec – Centro di documentazione ebraica contemporanea, che ha sede a Milano.
Dottor Sarfatti, perché è importante la legge che ha istituito il Giorno della Memoria?
«E’ importante perché fornisce un punto di incontro alle persone che vogliono coltivare la memoria, tenendola viva. E’ altrettanto importante, però, che non sia un obbligo, ma un’adesione volontaria, altrimenti la ricorrenza perderebbe il suo significato. Si tratta di compiere un percorso, individuale o collettivo, per riflettere su quanto è accaduto. Dunque la legge è buona cosa, purché sia interpretata correttamente».
L’argomento è enorme, e ovviamente non si può sintetizzare in poche righe, ma che cosa fu la Shoah?
«Fu uno sterminio scientificamente progettato da una parte della popolazione del continente europeo ai danni di un’altra parte di tale popolazione. I “decisori” della Shoah furono pochi ma innumerevoli furono i collaboratori e gli esecutori. Si tratta dunque di un problema collettivo: erano europei tanto i persecutori quanto le vittime, e quindi si è trattato di una situazione di disagio creatasi all’interno del nostro continente. Fu un fenomeno scientifico, moderno e totalitario nella sua progettazione, mentre nell’esecuzione convissero due differenti modalità: una tecnologica e moderna, ossia l’uccisione degli ebrei nelle camere a gas, metodologia che richiese studi e progettazioni e che riguardò in particolare gli ebrei italiani; l’altra, che coinvolse maggiormente ebrei russi e polacchi, fu invece una modalità antica e primitiva: quella degli eccidi di massa, nei boschi, nelle pianure o dentro le stesse sinagoghe, a cui veniva dato fuoco. Due modi diversi di
raggiungere lo stesso obiettivo, ossia eliminare delle grandi quantità di persone in poco tempo».
Si dice che in Italia la cura della memoria non abbia grande diffusione: lei che ne pensa?
«Non credo sia così. La percezione che abbiamo è che la diffusione della memoria in Italia sia notevole. Non è vissuta solo da una nicchia di persone, anzi: sono parecchi gli italiani che condividono il ricordo. Accanto a loro poi ci sono anche quelli che vogliono essere indifferenti alla cosa, e non mancano neppure i negazionisti,
che hanno una memoria gestita in modo malsano. Anche l’opinione pubblica presta molta attenzione a questa ricorrenza: basta fare caso a quanti periodici e quotidiani in questi giorni offrono film, libri e altro legati all’argomento. Questo dimostra che la richiesta di informazioni è sempre alta. Quello che si nota, invece, è che periodicamente cambiano i centri di interesse: quest’anno ad esempio è molto presente il tema del negazionismo».
 In che rapporto sta il Giorno della Memoria con altre celebrazioni successivamente create (come il Giorno del ricordo)?
«Il Giorno della Memoria non può essere in concorrenza o alternativa con altri ricordi, anche perché si trova su un altro piano: nessun’altra vicenda del ‘900, fortunatamente, ha avuto le caratteristiche della Shoah. Abbiamo visto altre violenze di massa ma nulla a quei livelli. Naturalmente tutte le vicende di questo tipo meritano di essere ricordate; nella misura in cui ci definiamo italiani assumiamo più di noi tutto il peso delle vicende legate alla nostra storia. Compreso tutto quello che è successo nell’area di confine tra Italia e Jugoslavia, come le foibe. Non si può pensare di rinunciare a un pezzo di storia, perché sarebbe una sorta di
amputazione intellettuale. Tra l’altro, quello delle foibe fu un episodio complesso, giacché tali violenze erano iniziate già negli anni ’20. Fu proprio da scontri nazionalisti di quel tipo che poi si arrivò alla Shoah: quella mentalità del considerarsi meglio degli altri e la voglia di risolvere i problemi con il sangue furono all’origine di tutto».
Il suo Centro lavora molto con le scuole. C’è sensibilità su questi argomenti, tra docenti e studenti?
«Direi di sì. Da un lato lo vedo quando vado a parlare nelle scuole, dall’altro nell’ambito del concorso nazionale, che si ripete ogni anno per tutte le scuole di ogni ordine e grado, legato proprio ai temi della Shoah. Faccio parte della giuria, e ogni anno vedo grande partecipazione e impegno da parte dei giovani. Si vede la voglia di approfondire e conoscere il tema».

Viviamo in un eterno presente

Ricordo bene la grande risonanza che ebbe, nel 1973, tutta la vicenda del colpo di stato in Cile. Erano altri tempi, c'era l'internazionalismo. Il golpe fu preceduto da uno sciopero dei camionisti che paralizzò il Paese. Non voglio fare parallelismi, ci mancherebbe, anche perché, qui, di un Allende non c'è traccia. Ma certo colpisce che un gruppo di persone possa ipotecare così la vita quotidiana di un Paese. Avranno le loro ragioni, la crisi li colpisce duro, ma questo vale per tutti. Per rivendicare qualcosa a livello personale o di categoria si fa un gran male a un mucchio di gente. Ognuno ha il diritto di protestare, di scioperare; ma non si può impedire a chi intende lavorare, per necessità o perché semplicemente non è contrario alle scelte del governo, di farlo. Vogliamo cercare insieme un futuro? Questo non è, secondo me, l'atteggiamento giusto. Già, il futuro. Il futuro è seriamente ipotecato. I nostri giovani vivono tra l'assenza di futuro e la carenza di conoscenza del passato. Vivono, dice qualcuno, in un eterno presente. Come i precedenti governi, per i quali l’orizzonte più lontano era la successiva scadenza elettorale. Da un lato, l'assenza di futuro impedisce di progettare e sperimentare; dall’altro, la mancata conoscenza del passato non permette di valutare nel modo giusto le cose. Allora accade che diventi un eroe un onesto e fermo comandante di capitaneria che richiama semplicemente al dovere, non all'eroismo, il comandante della nave Concordia. L'eterno presente che stiamo vivendo è confinato in una dimensione ristretta, ristretta e pericolosa. Dobbiamo avere la forza di continuare a progettare e immaginare un futuro diverso; noi ci stiamo provando. Del resto, anche la grammatica prevede vari tempi di passato e di futuro, ma un solo presente.

Daniele Tamburini

venerdì, gennaio 20, 2012

Le agenzie di rating, ma chi sono costoro? L’economista Giacomo Vaciago: «Non si sono fatte regole che conciliassero la proprietà privata con l’interesse pubblico»

di Daniele Tamburni
Il declassamento dell'Italia da parte dell'agenzia di rating Standard & Poor's, insieme a buona parte dei Paesi dell’eurozona, ha portato scompiglio e preoccupazione nel mondo della finanza europea, tanto più che circola la notizia di un prossimo declassamento anche da parte dell’agenzia Fitch. Lo stesso governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, nei giorni scorsi ha definito «gravissima» la situazione, spingendosi a dichiarare che «bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating o quanto meno imparare a fare meno affidamento sui loro giudizi» Anche il commissario dell'Unione europea, Olli Rehn, ha accusato le agenzie di rating di essere uno strumento del potere economico statunitense. Abbiamo chiesto un commento a Giacomo Vaciago, professore ordinario di politica economica e direttore dell'Istituto di Economia e Finanza nell'Università Cattolica di Milano.
Nei giorni scorsi, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato ulteriormente l’Italia, a livello BBB+. Può spiegarcene la portata concreta e che cosa significa questo per il nostro Paese?
«Facciamo una premessa. Le agenzie di rating hanno il compito di valutare la qualità di un titolo sulla base di alcune variabili: il bilancio dell'emittente, le sue aspettative economiche, la situazione del Paese, ecc. Queste società, che operano da circa un secolo, valutano centinaia di migliaia di titoli, di Stati, imprese e banche. Le principali sono Standard & Poor's, Moody (che in due detengono circa l'80% del totale dei titoli da valutare) e Fitch (che detiene circa il 5%). Il declassamento dell'Italia è dunque lo specchio di un paese che soffre, questo è palese. I giudizi delle agenzie di rating vanno rispettati e molti fondi di investimento - ad esempio alcuni fondi pensione - per statuto possono investire solo in titoli tripla A e questo fa si che quando esce un downgrading come quello nei confronti dell’Italia o della Francia, le conseguenze sono che questi paesi dovranno pagare tassi sempre più alti per poter vendere i propri titoli (un titolo con livello più elevato paga interessi inferiori rispetto a chi è collocato più in basso). Dunque il declassamento ha portato a un'impennata degli interessi, e quindi del costo del credito. Questo è un problema serio per un paese come il nostro che, come confermano gli ultimi dati, è già in piena fase di recessione».
Quanto sono attendibili i giudizi di queste agenzie?
«Sicuramente non sono infallibili, tanto che nel corso degli anni hanno già fatto parecchi errori: non si sono accorte, ad esempio, che la Grecia imbrogliava da anni, né che Lehman Brothers stava per fallire. Sarebbe necessario un organismo che valuti la loro attendibilità. Il problema è che anche quando sbagliano, provocano conseguenze devastanti. Si verifica un effetto denominato snow-ball: si inizia con una palla di neve, poi diventa una valanga. Nel momento in cui un paese subisce il giudizio negativo è più probabile che succeda ciò che le agenzie hanno previsto e cioè che la situazione peggiori, visto che l’outlook negativo danneggia il paese che lo riceve. Infatti, sulle semplici indiscrezioni di un declassamento dell’Italia da parte di
S&Poor’s, il nostro spread Btp-Bund è aumentato. Se salgono i tassi di interesse, non solo il Tesoro paga di più, ma anche le aziende italiane pagheranno ildebito più caro».
Spieghiamo qualcosa di queste agenzie di rating: cosa rappresentano? Da chi sono governate? per quale motivo hanno tanto potere?
«Le abbiamo fatte diventare importanti nel momento in cui si è voluto promulgare una serie di leggi che hanno dato un forte peso al loro giudizio, ufficializzando le pagelle che esse danno ai titoli che possono essere oggetto di acquisto. Questo potere però è venuto senza un'adeguata riflessione sulle conseguenze, quando c'era la necessità di semplificare il sistema e di valutare la bontà dei titoli. Inizialmente erano un po' come le graduatorie fatte dai numerosi enti di ricerca, come l'ultima che è uscita sul gradimento dei sindaci.  Quest'ultime però non hanno un grande peso. Le valutazioni delle agenzie di rating invece hanno un peso enorme, perché portano a conseguenze dirette davvero forti».
In queste vicende, si adombrano conflitti di interesse molto consistenti all'interno del potere finanziario ed economico: lei cosa ne pensa?
«Da più parti sono state mosse critiche in questo senso, anche perché le agenzie di rating sono enti di matrice americana a controllo anglosassone. A questo proposito si era auspicato che l’Ue promovesse le sue di società di rating in modo che fossero più controllabili. Poi però non se ne fece nulla. A Bruxelles è ancora aperto un dibattito per sottoporre a una vigilanza le stesse agenzie. Quello che ci si chiede è: chi dà il rating alle agenzie di rating? Per quanto riguarda i conflitti di interesse, in ogni caso, si possono solo sospettare, ma non ci sono chiare evidenze di ciò. Ad esempio la notizia del downgrading dell'Italia era trapelata prima che venisse fatto l'annuncio ufficiale, ed è probabile che qualcuno ci possa aver guadagnato...».
Si può quindi sostenere che queste agenzie abbiano un ruolo al di sopra delle parti ed una visione oggettiva delle cose?
«Per essere una realtà davvero "super partes", dovrebbero essere pubbliche. Invece, nonostante il peso che hanno le loro valutazioni, sono comunque soggetti privati. Moody, S&P e le altre sono figlie delle liberalizzazioni degli anni ottanta, quando era in voga lo slogan: “privato è meglio”. A quell'epoca si è privatizzato tutto in modo indiscriminato, senza prima fare delle regole che conciliassero la proprietà privata con l'interesse pubblico. E ora se ne pagano le conseguenze».
S&P ha declassato non solo l’Italia, ma anche altre realtà europee: è un attacco all'Eurozona? Quali potranno essere le conseguenze?
«Questo declassamento di diverse aree dell'Europa rappresenta un modo di lavorare abbastanza diffuso, basato sull'assunto che essendo gli stati europei realtà interdipendenti, per fare una valutazione corretta bisogna guardare all'intero. In sostanza, se in certi paesi vi sono problemi, essi si riflettono anche nelle realtà che hanno legami economici con tali paesi. Ad esempio l’Austria ha perso il rating tripla A di Standard & Poor a causa dei suoi legami con la vicina Italia, suo secondo più grande partner commerciale, e per l’Ungheria, dove le banche del paese alpino, sono i più grandi istituti di credito. Nessun attacco all'Europa, quindi, ma solo una valutazione il più possibile complessiva. Tutto ciò, in ogni caso, complica notevolmente la vita ai governi europei: non siamo ancora in vista di uno spaccamento, ma sicuramente la situazione non è delle migliori».
Da tutto questo, chi uscirà più forte e chi, invece, ne sarà indebolito?
«La maggiore evidenza è che i paesi periferici soffrono la situazione, mentre la Germania ne gode. Paradossalmente, infatti, la Germania è favorita dagli altri downgrading. L’out look negativo di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, il 19 settembre, ha giovato alla Germania che si è indebitata senza tassi d’interesse. Il costo del debito tedesco si è ridotto in questi mesi e questo fa bene alla sua economia. Dunque S&P per ora ha fatto un favore alla Merkel, con la conseguenza di qualche disoccupato in meno in Germania e qualche disoccupato in più in Italia o Francia».

Andrea Morrone, costituzionalista e presidente del Comitato referendario, commenta la bocciatura dei referendum per la modifica della legge elettorale. Alle elezioni voteremo con il “porcellum”?

Siamo di fronte ad una situazione, a dir poco, paradossale. Abbiamo, in Italia, una legge elettorale definita un po’ da tutti “porcellum”, a partire da coloro che l’hanno voluta. Approvata nel 2006, poco prima delle elezioni politiche, ha sostituito il vecchio «Mattarellum» e ha introdotto un sistema proporzionale, con soglie di sbarramento e liste bloccate. In pratica, si vota esclusivamente per il partito. Il risultato elettorale determina il numero di seggi conquistati da ogni forza politica; deputati e senatori vengono abbinati ai seggi conquistati in base alla posizione del loro nome nella lista bloccata (l'elettore non può cioè esprimere una preferenza: questo è forse il punto di maggior “sofferenza”). Per la sola elezione della Camera è previsto anche un premio di maggioranza. Il nome «porcellum» deriva da una dichiarazione dell'allora ministro delle Riforme, il leghista Roberto Calderoli, che in un periodo successivo all'approvazione della legge da lui stesso promossa ebbe a definirla una «porcata». La Corte costituzionale, giorni fa, ha dichiarato l’inammissibilità di due quesiti presentati dal comitato promotore del referendum sulla legge elettorale, su cui erano state raccolte più di un milione di firme: sia quello che chiedeva l'abrogazione totale della legge Calderoli sia quello che ne chiedeva l'abrogazione per parti. Il paradosso è questo: una legge aspramente criticata, in virtù della quale, comunque la si pensi, è innegabile che vi sia una sottrazione di potere decisionale rispetto al corpo elettorale. Votando un partito ed esercitando un mio diritto costituzionale, non posso, nei fatti, scegliere le donne o gli uomini che, in Parlamento, rappresenteranno quel partito e quindi il mio voto. L’art. 48 della nostra Costituzione dice: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto”. Quanto alla libertà, ci pare che questa legge elettorale ne costituisca una seria ipoteca.
(d.t.)


La notizia del pronunciamento della Corte Costituzionale ha sollevato molte perplessità e delusione. Ne abbiamo parlato con il professor Andrea Morrone, presidente del Comitato referendario, nonché professore ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna.
Professor Morrone, la Consulta ha bocciato i due referendum da voi proposti sull’abrogazione della legge elettorale vigente, il cosiddetto “porcellum”. Ce ne puòspiegare le motivazioni?
«Difficile dirlo. Bisognerà aspettare di leggere le motivazioni della Consulta. Noi avevamo sottoposto alla Corte Costituzionale una proposta per eliminare il vuoto che consegue a ogni referendum abrogativo. Un vuoto che non può essere mantenuto. La nostra ipotesi era quindi di abrogare la legge Calderoli in modo totale o parziale, ripristinando la normativa previgente, ossia la legge detta “Mattarellum”. Evidentemente la Corte Costituzionale ha deciso che questa non fosse una strada percorribile».
Può spiegarmi la questione del vuoto legislativo?
«Nel 1987 la Corte Costituzionale stabilì delle leggi speciali per abrogare le leggi elettorali: possono essere abrogate solo per sostituzione, ossia deve restare in piedi una legislazione sostitutiva. La novità del nostro referendum era che la nuova normativa non sarebbe stata ricavata dalla legge che si andava abrogando, ma si sarebbe individuata recuperando le vecchie disposizioni. Del resto la legge di Calderoli non disciplina completamente le elezioni di Camera e Senato, ma semplicemente sostituisce la formula elettorale della legge "Mattarellum"».
Quali sono, a suo parere, le criticità maggiori presenti nella cosiddetta legge “porcellum”?
«Nell'indire il referendum siamo partiti con lo slogan: "bisogna restituire lo scettro ai cittadini". Questo già dice tutto. La legge Calderoli ha determinato un'involuzione rispetto al passato: prima il cittadino poteva scegliere coloro che avrebbero composto la maggioranza di Governo, votando i singoli candidati. La legge Calderoli, nel 2005, ha introdotto la proporzionale con preferenza bloccata e premio di maggioranza. Questo sistema complica le cose, perché c'è il rischio che un candidato vinca alla Camera e non al Senato. Ma la cosa più grave è la lista bloccata: gli elettori possono scegliere il partito ma non possono votare i propri rappresentanti; devono invece accettare passivamente tutti i candidati della lista. Così in questi anni abbiamo votato In questo modo si ottiene un Parlamento di nominati ma non di eletti. Molte realtà provinciali non hanno avuto neppure un rappresentante».
Ci può spiegare, in maniera ovviamente schematica, quale sarebbe, a suo parere, un sistema elettorale adeguato al nostro Paese?
«Non esiste un modello ideale. Dobbiamo partire dall'obiettivo che vogliamo perseguire, e da lì costruire le regole che lo rappresentino meglio. Dietro il referendum infatti vi erano degli scopi ben precisi: vogliamo che l'Italia abbia un sistema bipolare in cui i due poli, composti da più partiti, possano alternativamente contendersi il Governo del Paese. Una democrazia nella quale i cittadini possano scegliere i propri rappresentanti e la maggioranza di Governo. Per realizzare questi obiettivi si possono utilizzare i più svariati sistemi elettorali. Questo è il problema, in Italia: ci siamo sempre concentrati più sulla regola che sugli obiettivi. E ognuno vorrebbe che venissero scelte le regole che più gli fanno comodo. Così il terzo polo, ad esempio, vorrebbe il ritorno di un sistema con la presenza di più poli, dove però l'ago della bilancia è spostato sempre verso il centro». 
Dunque il punto di maggior criticità della legge in vigore viene identificato spesso nella impossibilità di esprimere preferenze: l’elettore si trova rappresentato da un deputato in virtù del posto ricoperto da quest’ultimo nella lista, posto deciso a tavolino. Quali sono stati i motivi di questa scelta del legislatore?
«E' stata fatta una scelta politica a favore dei gruppi dirigenti ora presenti in questo Paese. Calderoli doveva tenere insieme le anime del centrodestra. Da un lato Casini, che voleva un sistema proporzionale, dall'altro Fini, che pretendeva le liste bloccate - che in realtà interessavano anche alla Lega, che così poteva utilizzare i candidati delle aree in cui era più forte, senza dover obbligatoriamente esprimere candidati del territorio - e infine Berlusconi, che chiedeva il premio di maggioranza. Ma questa legge fu fatta anche per impedire a Prodi di vincere con il doppio premio elettorale, e quindi impedendo a coalizioni disgiunte come la sua di poter vincere. Al di là di questo, il problema vero della legge Calderoli è che la lista bloccata piace a tutti i dirigenti di partito, di qualsiasi colore politico: in questo modo infatti, possono nominare le proprie persone di fiducia senza farle passare dal giudizio degli elettori. Questa legge elettorale, proprio per questo, ha determinato grandi fratture interne nei partiti, perché accontentando la dirigenza si è estromessa la base dei partiti, impedendo loro di esprimere candidati validi e preparati».
Pensa che questo Parlamento sia in grado di fare una riforma elettorale che dia conto del disagio espresso ormai da moltissimi cittadini?
«Assolutamente no. Non è stato in grado di portare avanti la riforma in tutti questi anni, ho seri dubbi che possa riuscirci ora, tanto più che il premier Mario Monti ha problemi più urgenti a cui dedicarsi. Del resto, se i mercati internazionali non hanno fiducia nel nostro Paese è perché non ritengono la classe dirigente adeguata a far fronte alle difficoltà italiane in Europa. Ma la fiducia manca anche a livello interno: la gente che ha firmato per il referendum ritiene inaffidabile l'intera classe politica, tanto a destra quanto a sinistra. Neppure lo stesso Napolitano si fida dei politici italiani, tanto che ha preferito nominare un docente come Presidente del Consiglio. Gli stessi partiti non sono così convinti di cambiare questa legge: Bossi ha detto che non c'è il tempo per farlo, Berlusconi sostiene che va bene così. Casini e D’Alema asseriscono che prima si devono fare le riforme costituzionali. L'Italia dei Valori rifiuta qualsiasi riforma. Sono convinto che alla fine andremo a votare con la legge Calderoli».

Nessuno

Chi mi conosce sa quanto ami le automobili, da sempre. Mi piacciono le auto e mi piace guidarle, da giovane ho partecipato a gare automobilistiche. Ma devo, dovrò farmene una ragione, almeno fintantoché non costruiranno auto non inquinanti: non possiamo più sostenere questi livelli e, soprattutto, questa qualità di mobilità. La nostra aria non lo tollera più. L’inquinamento è alle stelle, i valori delle PM10 sono preoccupanti: se ne sono accorti persino in Comune. Nell’inchiesta che pubblichiamo in questo numero, alcuni cittadini dicono, con ragioni fondate: bloccare il traffico è un provvedimento tampone, servirebbe ben altro; ad esempio, incentivare l’utilizzo dei mezzi pubblici. Certo che sì. Tra l’altro, il trasporto pubblico locale è stato tra i comparti più penalizzati, manovra dopo manovra. Però, è ormai palese, ormai inevitabile che dovremo cambiare abitudini. Pensiamoci un attimo: il prezzo della benzina è ulteriormente aumentato. Questo contribuisce a deprimere la mobilità, che è uno degli elementi dello sviluppo di un territorio. Allora, non sarebbe meglio investire proprio nella mobilità pubblica, rendendola più fruibile, magari gratuita: ci sono esempi in giro per il mondo, ne abbiamo parlato ampiamente, su queste pagine, qualche anno fa. Bisogna cominciare a lavorare per un modello di città da godere di più e meglio. Si parla di “città intelligenti”. È un concetto affascinante. Faccio un esempio: se hai bisogno di un certificato, non devi spostarti ma, collegandoti via internet ad uno sportello telematico, lo stampi direttamente in ufficio o a casa. A questo proposito, il Comune di Cremona ha già fatto molto. Ma molto rimane da fare. A leggere il rapporto Euromobility per il 2011, i numeri sono sconfortanti: trasporto pubblico locale ancora inefficiente nella maggior parte delle città italiane, e 8000 morti all’anno per le polveri sottili. Occorre cambiare mentalità, porsi l’obiettivo, e perseguirlo con determinazione sapendo di andare contro forti interessi: è inevitabile, non può che essere così. Ma chi è, oggi, disposto a farlo, sapendo che elettoralmente non paga?

Daniele Tamburini

venerdì, gennaio 13, 2012

I nomi a volte sono presagi

Ci sono delle tragedie che non sono frutto di fatalità o del destino cinico e baro: per esempio, gli incidenti sulla strada. L’anno è iniziato malissimo, qui a Cremona, con quattro decessi. Occorre rispettare le regole, nella vita, sul lavoro e sulla strada. In tempi difficili, gli “hard times”, può crescere la tentazione della deregulation anche nel seguire le norme che governano la convivenza tra le persone: bisogna contrastarla. Non è fatalità neppure il continuo sforamento della soglia della presenza di polveri sottili nell’aria che respiriamo. Dice il Comune che occorrono politiche di area vasta, ma qui, di vasto, c’è solo il pericolo che cresce, giorno dopo giorno, per i nostri polmoni. È vero, complici della situazione sono le condizioni atmosferiche, ma, appunto, certe condizioni sono, qua da noi, una costante a memoria d’uomo. Ci vorranno sicuramente politiche di area vasta, ma qualche provvedimento serio potrebbe essere preso, o no? Ma torniamo alle regole. Il Governo ritiene necessario dare il via ad un pacchetto di liberalizzazioni: alcuni sono favorevoli, altri contrari, in una inevitabile e democratica dialettica tra posizioni ed interessi diversi. Ma, nel pacchetto di misure annunciato, ecco che esce fuori nuovamente il tema dell’acqua. Ma non avevamo votato ad un referendum? Ma, anche qui da noi, nella Provincia di Cremona, non si è svolta una battaglia durissima tra la giunta Salini, la minoranza del suo Consiglio e la maggioranza dei Sindaci del territorio, perché la Provincia aveva deliberato in senso contrario agli esiti del referendum? E ora, che accadrà? Altra musica, altro giro di valzer? Ripeto: ma non avevamo votato? Sembra che votare e decidere non vada per la maggiore: sarà questo l’atteggiamento che sta dietro alla bocciatura, da parte della Consulta, dei referendum sulla legge elettorale? E intanto, per ora, dobbiamo tenerci il porcellum: una porcata, appunto. Nomina sunt omina, i nomi a volte sono presagi!

Daniele Tamburini

venerdì, gennaio 06, 2012

Se la gente lavora, guadagna; se guadagna, spende; se spende, qualcuno ci guadagna

Il 2012 si apre con la notizia che, a Cortina d’Ampezzo, a seguito di ispezioni della Guardia di Finanza condotte a fine anno, l’incasso degli esercizi commerciali è salito del 400 %. Ma non basta: su 251 auto di grossa cilindrata, e sulle 133 intestate a persone fisiche, ben 42 appartengono a persone che, negli ultimi due anni, hanno dichiarato 1.800 euro lordi al mese. Non c’è che dire: gente “risparmiosa”. Quello che non va, in questo Paese, sono le situazioni di privilegio quasi medievale. Ma non castale. Faccio un esempio. Il commerciante al dettaglio di Cremona deve stare molto attento a rilasciare sempre ricevuta o scontrino fiscale: e, si badi bene, è giustissimo. Ma il commerciante di Cortina (o di Porto Cervo o di Capri o … fate voi), quando accade che ci siano controlli che lo obbligano ad emettere ricevuta, aumenta il fatturato del 400%. Delle due, l’una: o la presenza della Guardia di Finanza eccita talmente i consumi, che gli incassi crescono vertiginosamente (magari ci sono finanzieri tipo star di Hollywood … chissà), oppure qualcosa non quadra. Il blitz intelligente e mirato di Cortina dà veramente l’idea del volume di privilegio intoccabile (finora?) che c’è nel nostro Paese. Il contribuente onesto si indigna, giustamente. Gli chiedono ulteriori sacrifici, e poi si leggono notizie del genere. Allora, ben vengano i controlli, mirati e “chirurgici”. Chi è onesto non deve temerli. Recuperare tante risorse dall’evasione e dall’elusione. Ma non basta. Con serietà e lungimiranza, proprie di chi ha responsabilità importanti, Antonio Piva dice, nell'intervista che pubblichiamo in questa stessa pagina: occorrono coesione, compattezza, innovazione, apertura internazionale. Cremona andrà a presentarsi in una vetrina d’eccezione, a New York. Se non ci apriamo ancora di più ai mercati internazionali, non ce la faremo. Senza dimenticare una vera, grande, enorme emergenza: il lavoro. Forse c’è molto da cambiare, nei meccanismi del mercato del lavoro, ma pure qui il discorso è quello delle tasse: non si risolve la questione precarizzando sempre di più il lavoratore debole, ma creando meccanismi che incentivino ad assumere. Se la gente lavora, guadagna; se guadagna, spende; se la gente spende, qualcuno ci guadagna. E così’ via. Adesso, invece, prevale la paura. Lo dice anche una nostra inchiesta. È pericoloso. Combattiamo la paura.

Daniele Tamburini

venerdì, dicembre 30, 2011

Al peggio non c’è mai fine. Ma ce la faremo

È diventata un’espressione celebre piuttosto recentemente, quando la regina Elisabetta II d’Inghilterra la usò per definire un’annata particolarmente nefasta per la sua famiglia: “Annus horribilis”. Tra parentesi, si intitola così uno degli ultimi libri di Giorgio Bocca, il grande giornalista recentemente scomparso. Ma non userò questa espressione, no. Per un motivo puramente scaramantico: c’è un proverbio che recita “al peggio non c’è mai fine”. Certo che, forse non orribile, ma duro e drammatico lo è stato certamente, questo 2011 che domani ci lascia. La crisi mondiale ha martellato la nostra economia, le nostre produzioni, i nostri servizi, la nostra finanza pubblica, le nostre finanze private. Abbiamo subito manovre su manovre, ci siamo chiesti perché dovevano pagare i costi della crisi solo i soliti noti, perché non si cercasse di stanare, con serietà e rigore, chi non ha mai pagato? Domande – per ora – senza risposta. Abbiamo assistito alla messa in questione di realtà che sembravano rocce intoccabili: l’Europa, l’euro. Per quanto riguarda la scena istituzionale, le Province. Silvio Berlusconi, travolto da una crisi rispetto alla quale dava segnali di impotenza, ha perso la premiership. Le liti tra le forze politiche di maggioranza erano ormai all’ordine del giorno, c’era una frattura insanabile tra il capo del governo ed il ministro dell’economia – con tanto di minacce incrociate, neppure tanto velate. Abbiamo osservato le prime mosse del governo Monti, un governo “tecnico”, appeso ad alchimie parlamentari e sostenuto più dalla paura che dalla convinzione. La Lega si è sfilata e grida, come se avesse passato tutti questi anni all’opposizione. E cosa ha fatto, il governo “tecnico”? Interventi su tassazione, pensioni, eccetera. Ancora non sappiamo niente di preciso sulle – annunciate – misure per la crescita. Ci speriamo davvero. È stato l’anno dello strapotere delle agenzie di rating, dello spread, degli speculatori, e anche del picco della disoccupazione giovanile. È quasi imbarazzante, dire ai propri figli: studia, impegnati, lavora. Pare che lo strapotere dei furbi non abbia limiti, e a chi furbo non è, per convinzione etica o per caso, restano paure e incertezze. I giovani rimangono la speranza per la rinascita di questo paese, ora ancor di più dal momento che rifiutano l’informazione delle Tv e si sono impadroniti della rete. Come nel voto primaverile ai referendum e alle amministrative, eventi che hanno rilanciato la voglia di partecipazione, di far sentire la propria voce; hanno alimentato la speranza di cambiamento. Non solo la speranza: ma la precisa cognizione che, quando c’è da decidere consapevolmente del proprio futuro, la partecipazione politica non è morta, anzi. Forse lo è nelle varie buvette, transatlantici, corridoi dei passi perduti, anticamere dei ministeri, delle istituzioni ad ogni livello: non quando c’è da decidere della nostra Terra, della nostra acqua. E qui giungono altre dolenti note. Anche qui a Cremona, liti nella maggioranza di governo della città. Anche qui, una rottura ormai pare consumata tra Pdl e la Lega cremasca in Provincia. L’occasione, proprio l’acqua. Il Sindaco ed il Presidente della Provincia hanno perso il loro smalto iniziale e ormai, danno l’impressione di navigare a vista. Io, che vengo da una città di mare, faccio loro tanti auguri: non è facile navigare così. L’opposizione, in questo quadro, ha vita più facile. Certo, se non riproduce le mosse “romane” e dei dintorni: qualcuno ha ancora in mano la conta delle varie posizioni, o anime, o correnti che dir si voglia, del Pd? Io ho un po’ perso il filo. Punto. Accapo.
Chiudo con le parole del presidente Napolitano: “Quel che preoccupa è il seminare motivi di sterile conflittualità e di complessivo disorientamento in un Paese che ha invece bisogno di confermare e rafforzare la fiducia in se stesso”.
Auguri di un sereno 2012. Ce la faremo, a dispetto dell’anno bisesto, dei Maya, dello spread e de li mortacci loro.

Daniele Tamburini

venerdì, dicembre 23, 2011

Intervista alla sociologa Chiara Saraceno: «I servizi non sono solo una spesa, ma anche un investimento»

di Daniele Tamburini

La manovra Monti tocca in profondità la vita e le condizioni di molti, ma in particolare delle donne. Un elemento per tutti: l’allungamento dell’età pensionabile. Questo riguarda ovviamente le donne inserite nel mercato regolare del lavoro, mentre a livello generale è rilevante (e lo è soprattutto nel Mezzogiorno) la mancanza di domanda stessa di lavoro, unita alla scarsità dei servizi di cura. E, sempre nel Mezzogiorno, sono concentrate le cosiddette “inattive”, ovvero coloro che non si presentano neppure nel mercato del lavoro. La situazione è molto pesante: ci sarebbe necessità di misure di sostegno, di servizi, di percorsi formativi importanti. Soprattutto, ha scritto Chiara Saraceno, ricadono sulle famiglie italiane tutti i problemi di cui, nella maggior parte dei paesi, si fa carico lo stato sociale: dalla povertà alla dipendenza in età anziana, dalla disoccupazione giovanile alla cura dei bambini piccoli quando la madre lavora. “Il ruolo della solidarietà famigliare, sempre importantissimo nel nostro welfare debole e squilibrato, è uscito indubbiamente rafforzato dalla riduzione dei trasferimenti agli enti locali, quindi delle risorse per i servizi alla persona, così come dalla riduzione dell’offerta educativa della scuola pubblica in termini di contenuti e di tempo. È stato rafforzato anche dal mancato adeguamento del sistema di protezione sociale a un mercato del lavoro flessibile, dove la precarietà e la disoccupazione colpiscono soprattutto i giovani”. Su questi temi, abbiamo rivolto alcune domande alla professoressa Chiara Saraceno. Già docente ordinario di sociologia della famiglia presso la facoltà di scienze politiche di Torino, attualmente è professore di ricerca al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino. E' stata presidente della Commissione di indagine sull'esclusione sociale dal 1999 al 2001. Dal 2000 al 2001 ha rappresentato l'Italia nel Social Protection Committee della UE. Collaboratrice di “la voce.info”, si occupa di temi che riguardano la famiglia, i rapporti tra le generazioni, i rapporti e le disuguaglianze di genere, la povertà e sistemi di welfare. 
Professoressa Saraceno, tra le conseguenze della crisi e delle risposte predisposte dal Governo, e dai precedenti Governi, ha indubbiamente un peso particolare la situazione delle donne. A loro, infatti, si demanda la cura del cosiddetto welfare familiare, ma precarietà lavorativa, da un lato, e lo spostamento dell'età pensionabile, dall'altro, paiono stringere in maniera sempre più pressante i tempi di vita delle donne. Qual è il suo parere? 
L' innalzamento dell'età pensionistica per le donne, come per gli uomini, dovrebbe essere accompagnata da una riforma degli ammortizzatori sociali che garantisca il reddito a lavoratori anziani che perdono il lavoro e non ne trovano facilmente un altro, specie nella congiuntura attuale. Per quanto riguarda specificamente le donne, dovrebbe essere accompagnata da un rafforzamento dei servizi alla persona. Invece tali servizi, già insufficienti, rischiano di essere ulteriormente ridotti a causa dei tagli dei trasferimenti agli enti locali. Occorrerebbe pensare che i servizi non sono solo una spesa, ma anche un investimento: creano domanda di lavoro, consentono alle donne di stare nel mercato del lavoro e sono un fattore di equalizzazione delle opportunità per i bambini e le persone non autosufficienti».
Si fa spesso riferimento all'Europa, per dire che era necessario riallineare, per esempio, i tempi delle pensioni. Ma qual è, in realtà, il quadro dei servizi europei per le donne e per le famiglie?
«Il quadro europeo è molto differenziato. Ma possiamo osservare che l'Italia ha uno dei congedi genitoriali meno generosi, specie dal punto di vista della remunerazione, e un tasso di copertura offerto dai servizi per la
prima infanzia tra i più bassi in Europa, anche se con forti differenze territoriali. In ogni caso l'Europa, con l'agenda sociale per il 2020 e anche con la famosa lettera di quest'estate, ci chiede di sostenere l'occupazione femminile anche con misure di conciliazione».
Le donne, comunque, sanno esprimere una grande forza, anche e soprattutto in tempo di crisi. Ma a questa forza va dato spazio e voce. Possiamo pensare, non diremmo in termini ottimistici, ma comunque che la forza delle donne e la loro capacità di creare legami e relazioni possa essere una strada per uscire dal tunnel?
«Non condivido una visione salvifica delle donne. Penso che avere molte più donne nei posti dove si decide arricchisca i punti di vista, le prospettive, gli interessi di cui tenere conto, modificando posizioni cristallizzate e unilaterali. Ma anche tra le donne ci sono posizioni e punti di vista

Il potere politico è arrogante quando vuol convincere che l’interesse di pochi corrisponda all’interesse di tutti

La ministra Fornero ha scoperto che, in Italia, si guadagna poco. E male. Siamo, sotto questo aspetto, al 22° posto nella classifica dei 34 Paesi industrializzati. In compenso, “godiamo”, si fa per dire, di un alto prelievo fiscale e contributivo, di almeno 11 punti superiore rispetto alle medie OCSE. Non male. Ci dicono che è alto il costo del lavoro per unità di prodotto: cioè, esiste un grave deficit di produttività. Non siamo competitivi. Ed è qui che si dovrebbe, ci dicono ancora, intervenire per favorire la ripresa. Intervenire sì, ma seriamente. La parola “serietà”, però, non trova casa tanto facilmente qui da noi. Qui da noi in Italia, qui da noi a Cremona. Facciamo un esempio: è serio che si voglia proseguire imperterriti sulla strada della società mista per la gestione dell’acqua? Scusate, forse ci ripetiamo, ma non c’è stato un referendum che ha detto no, l’acqua deve essere pubblica? Non si scherza con la democrazia. Il potere politico diventa arrogante, quando non rispetta le scelte popolari; quando se ne infischia delle maggioranze, quando vuol convincere che l’interesse di pochi faccia l’interesse di tutti. Il fatto è che le persone brave nel riuscire a far credere, sono poi quelle che eleggiamo. Quelli meno bravi si riconoscono subito: basta osservarli con attenzione. Come certi sindaci che, costretti per dovere di appartenenza politica a schierarsi a favore della gestione mista, una volta intervistati, non riescono a nascondere il proprio imbarazzo. Il presidente Salini invece è molto bravo, e nell’intervista che pubblichiamo, prende spunto dal forte ridimensionamento delle Province – quasi una sparizione – previsto dalla manovra Monti, per dire: le risorse pubbliche, ormai, sono talmente scarse, che è impensabile pensare alla gestione pubblica di beni e servizi. Sono talmente scarse che – pare si possa leggere tra le righe – è inevitabile che certi enti spariscano, e venga favorito, in taluni casi, il privato. Non siamo d’accordo. Io non ho visto grandi vantaggi nella privatizzazione dei servizi pubblici. Voi? Noi tutti speriamo, invece, che la crisi e l’assenza di risorse possano risolversi per il meglio ed è per questo che tenacemente lavoriamo e ostinatamente ci impegniamo con tutte le nostre energie. Le ferite alla democrazia, quelle no, non si risolvono. E’ ora di dire basta.
Buon Natale a tutti.
Daniele Tamburini

venerdì, dicembre 16, 2011

Intervista a Maurizio Landini, segretario generale della Fiom: «Bisogna intervenire sulle ragioni che hanno determinato la crisi» «Colpiti quelli che la crisi la pagano da sempre»

di Daniele Tamburini 
Signor Landini, una domanda sulla manovra Monti: la Cgil, ma anche le altre sigle sindacali, dicono che, ancora una volta, pagano i soliti noti. Vuol spiegarci perché ?
«La manovra decisa dal Governo di Monti colpisce i soliti noti, quelli che la crisi la pagano già da anni. Abbiamo assistito da tempo ad una redistribuzione senza precedenti della ricchezza a danno di chi lavora. Se chi lavora onestamente è povero, non arriva a fine mese, vuol dire che l’ingiustizia sociale ha raggiunto limiti intollerabili. In più c’è tutto il problema dei giovani e del lavoro precario. La manovra non affronta i problemi e i motivi che hanno determinato questa crisi, è fortemente iniqua perché fa cassa andando a colpire le pensioni, i redditi da lavoro. Inoltre ha un effetto depressivo, che non rilancia i consumi interni e, quindi, la produzione. E, intanto, la cassa integrazione aumenta, come anche il numero di aziende che chiudono. Io credo che non ci fosse bisogno di fare questo disastro. Sono totalmente contrario, perché dire che si cancellano le pensioni di anzianità e che uno dopo 41 anni di lavoro non ha diritto di andare in pensione e se ci va viene penalizzato, credo che sia un cosa che non sta in piedi.
Quali altre misure potrebbero essere adottate?
«Bisogna ricostruire una giustizia sociale che è venuta meno. Anche nell'emergenza, il Governo poteva fare altre scelte. Chi impediva di istituire una patrimoniale, di far pagare di più a chi possiede di più, di affrontare con durezza l'evasione fiscale, di ridurre gli stipendi dei parlamentari e dei manager? E’ normale varare una manovra così pesante e, contemporaneamente, dare a Guarguaglini una buona uscita di 5,5 milioni di euro? E’ il momento di far pagare chi non l’ha mai fatto. Secondo i dati ufficiali, nel nostro Paese l'evasione raggiunge i 120 miliardi di euro. La manovra del Governo è recessiva e non mette in campo azioni che siano in grado di mettere al centro l’obiettivo del lavoro, dell’occupazione e di un nuovo modello di sviluppo».
Veniamo nello specifico al suo comparto, cioè la Fiom, e la lotta, che oramai dura da tempo, contro il cosiddetto "modello Marchionne", imposto dalla Fiat. Lei dice: i diritti dei lavoratori e i diritti sindacali non sono comprimibili. Marchionne è uscito da Confindustria, ha disdettato il contratto in essere e minaccia, nei fatti, di lasciare l'Italia. Come è possibile uscire da questa impasse?
«L’estensione del modello Pomigliano a tutto il gruppo Fiat e ai suoi 86mila lavoratori rappresenta un attacco
ai diritti, alle libertà e alla democrazia perché sancisce la cancellazione del Contratto nazionale e l’esclusione della Fiom-Cgil, il sindacato maggiormente rappresentativo in Fiat e in tutto il settore manifatturiero, dal gruppo. Non è l’azienda che può scegliersi il sindacato, sono i lavoratori che si scelgono i loro rappresentanti. Il tutto avviene senza aver ricevuto alcun mandato dai lavoratori. Nessuno ha chiesto ai dipendenti dell’Iveco, della Ferrari, della Maserati se volevano uscire dal Contratto nazionale e peggiorare le
loro condizioni. Inoltre, Fim e Uilm hanno ceduto al ricatto della Fiat, accettando di ridursi a sindacati aziendali e corporativi, abdicando così alla loro storia di sindacati confederali. Pensiamo che il Governo non possa stare a guardare perché l'accordo non dice nulla degli investimenti nel più grande gruppo industriale del nostro Paese e perché mette in discussione le libertà sindacali garantite dalla Costituzione. Con questa manovra, così come sta facendo la Fiat, non si affronta il problema della crescita e degli investimenti. La Fiat sta cancellando i contratti, non fa investimenti, aumenta la cassa integrazione e chiude stabilimenti».
Come vede il futuro del nostro Paese?
«Tutti gli esperti dicono che il 2012 sarà un anno peggiore di questo. Bisogna intervenire sulle ragioni che hanno determinato la crisi, ripensare un nuovo modello di sviluppo che sia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale. Ripensare sia le produzioni, che il prodotto. In questi anni le imprese per anni hanno usato i profitti per fare speculazioni e non investimenti. E’ necessario invertire questa tendenza puntando sullo sviluppo e sulla ricerca, anche partendo dall’Università. Inoltre, è fondamentale rimettere al centro il contratto nazionale come elemento di unità e di tutela, anche delle stesse imprese. Altro punto fondamentale è ripensare il sistema del welfare, combattendo la precarietà. Altrimenti, la competizione si giocherà sulle
condizioni di lavoro invece che sulla qualità dei prodotti».

Non chiedete a Monti una politica di sinistra.

Il governo Monti ha fatto presto, specie se si considerano i tempi della politica italiana: nonostante le proteste, le sconfessioni, i veti incrociati, la manovra è stata partorita e presto sarà presentata per il voto in Parlamento, forse con la fiducia. Nel frattempo, ne abbiamo sentite di tutti i colori. Alcune cose le capisco: per esempio, è ovvio che i sindacati condannino quella parte, che è davvero pesante, riguardante gli interventi sulle pensioni. Loro fanno il loro mestiere, che è quello di tutelare chi lavora. E anche Monti fa il suo mestiere, che è quello, in questo momento, di rimettere insieme i cocci di un’Italia messa proprio male. A questo proposito, mi viene in mente Manzoni che parlava della misera sorte di un vaso di coccio stretto tra vasi di ferro; ma se un vaso di coccio urta contro altri, fatti di altrettanto coccio, il risultato è lo stesso: va in frantumi. Fuor di metafora, se in Europa non ce n’è uno che stia davvero bene, questo però non vuol dire che mal comune faccia mezzo gaudio, anzi. E il mestiere di Monti, intanto, non era e non poteva essere quello di fare riforme epocali, ad esempio la patrimoniale. Alcuni mi dicono: ”Monti mi sta deludendo, dovrebbe essere più duro e intransigente… “Intanto, Monti risponde ad un Parlamento che è sempre quello, votato dal Paese, espressione di realtà sociali, economiche e politiche ben precise. Non chiedete a Monti di fare una manovra di “sinistra”, non è la persona giusta. Se mai i partiti di sinistra dovessero vincere le prossime elezioni, a loro dovrete chiedere. Ripeto: la maggioranza degli italiani ha votato questo parlamento, e Monti deve ovviamente tenerne conto. Ma, se il mandato popolare è sacrosanto, allora lo deve essere in tutti i campi e in tutti i pronunciamenti. Se un referendum molto partecipato si è espresso chiaramente contro la gestione privatistica dell’acqua, vorremmo dire al presidente Salini che non è molto corretto, forse, cercare di aggirare tale scelta, chiara e univoca. Si adombrano già sospetti: “A chi giova?” E dunque, a ciascuno il suo: a Monti le misure da presentare ad un Parlamento che, fino a pochissime settimane fa, sosteneva il centro destra di Silvio Berlusconi, a Salini il compito di rispettare le scelte del popolo sovrano e di 102 sindaci.

Daniele Tamburini

venerdì, dicembre 09, 2011

La manovra in pillole… anzi, in supposte

“Gli italiani capiranno”. Certo che capiscono, presidente Monti. Capiscono, e pagano: qualcuno di più, qualcuno di meno, mentre, ancora in troppi, non pagano affatto. Gli italiani capiscono da tanto tempo. Intanto, lo spread rimane altalenante. Ha detto ancora Monti: “I mercati sono delle bestie feroci utili, ma sbilanciate... Dobbiamo domare i mercati, non demonizzarli”. Ci chiediamo, a questo punto, se in prima linea come domatore debba starci, tanto per fare un esempio, chi ha lavorato una vita e magari percepisce oggi 1.400 euro di pensione, e vede bloccato il meccanismo di rivalutazione. Davvero uno spettacolo plastico: da una parte i mercati mondiali della globalizzazione, dall’altra, il piccolo pensionato da 1.400 euro il mese, con cui, spesso, aiuta figli e nipoti. Magari anziano e un po’ malandato. Non è male. Intanto, la manovra ha risuscitato l’unità sindacale: sono annunciate ore e giornate di scioperi unitari. È ovvio: comunque la si pensi, la stretta sulle pensioni comporta sacrifici durissimi. Ci sono uomini e donne che, da un giorno all’altro, si trovano a dover andare in pensione ben cinque anni dopo quanto avevano previsto. Non è poco. Lo dico io che, da questa manovra forse, ne avrò un piccolo vantaggio venendo meno quella che era definita “la finestra”. Si sa, soprattutto per le donne è dura: siamo in Italia, sappiamo bene come vanno le cose, sono le donne a sostenere il peso maggiore di figli, anziani, lavoro domestico eccetera. Sarà durissima. Certo, Monti non ha una maggioranza parlamentare sua, e Berlusconi è sempre lì, con tutti i suoi pesanti veti, soprattutto sulla patrimoniale: ma le spese per i caccia F35 e lo scandalo delle frequenze digitali TV, che valgono 16 miliardi, ma che vengono in pratica regalate, su questo forse, si può provare ad agire magari dicendo a chi protesta: “Abbiamo già dato, hai già avuto”. Invece, torniamo all’immagine iniziale: pensionato vs mercati. E l’elusione? E la corruzione? A proposito di corruzione: brutta storia quella della discarica di Cappella Cantone; attendiamo che la giustizia faccia il proprio corso… fino in fondo. Tornando alla manovra certo, come scrive il professor Manasse, non potevamo pretendere che, in diciotto giorni, Monti facesse ciò che i governanti, Berlusconi in testa, non hanno fatto in diciassette anni. Il giudizio finale sulla manovra? Dipenderà dai risultati. Intanto, per la supposta, conviene stare molli.

daniele.tamburini@fastpiu.it

«La patrimoniale? Ora è tardi» Pietro Modiano, presidente di Nomisma: «Sarebbe stata efficace se adottata in maniera preventiva»

di Daniele Tamburini
Metter i conti in ordine: è una priorità. Ma, soprattutto, è fondamentale far ripartire la crescita, del prodotto e della produttività. La manovra del governo Monti va in questa direzione? Le “lacrime e sangue” che contiene, saranno efficaci? Lo abbiamo chiesto all’economista Pietro Modiano.
Modiano ha ricoperto incarichi di vertice in istituti e fondazioni bancarie e, dallo scorso anno, è presidente di “Nomisma”, società di studi economici che ha sede a Bologna, fondata nel 1981 da Nerio Nesi e Francesco Bignardi, allora presidente e direttore generale di BNL, i quali affidarono a Romano Prodi il compito di organizzarne scientificamente il lavoro di ricerca. Nel corso degli anni, “Nomisma” si è affermata come un’esperienza di punta nel campo della ricerca economica e sociale, capace di una visione interdisciplinare che contempli in modo ampio e organico la complessità delle questioni economiche del nostro tempo. Un vero “think tank”, fucina di professionalità e talenti di eccellenza. Pietro Modiano ha lanciato pubblicamente, mesi fa, con molta determinazione, l’idea di una imposta sui grandi patrimoni: una soluzione strutturale, che andrebbe a toccare la parte più abbiente della società, con un impatto recessivo molto modesto ma capace di dare una forte spinta positiva al rapporto debito-Pil. Ma la patrimoniale, anche nell’emergenza, non è entrata nell’agenda del Governo. Su questo, e su altri temi all’ordine del giorno, abbiamo rivolto alcune domande al dottor Modiano:
Vorrei partire da un elemento presente nel nome della società che presiede, evidenziato sulla pagina web: “Nomisma” – scrivete – è parola che, nel greco antico, indica il valore reale delle cose. Qual è il valore reale delle cose, oggi, nel nostro Paese? Fuor di metafora, quali sono gli elementi ancora sani, robusti, concreti, a cui appellarci per far fronte alla crisi?
«Una su tutte, la manifattura italiana, a differenza di quanto comunemente si pensi. Essa negli ultimi dieci anni ha retto molto bene la concorrenza, se non della Cina sicuramente di tutti i concorrenti europei più diretti, mantenendo su un buon livello la propria quota di mercato rispetto agli altri paesi: basti pensare che siamo secondi solo alla Germania, che aveva imposto una manifattura di grande successo. Ha retto bene alla trasformazione dei modelli di competitività, e continua a dimostrare una grande vitalità. Un settore, dunque, che per noi rappresenta un punto di forza significativo, che si trasforma continuamente nello sviluppo della qualità.»
Il governo Monti è una innegabile rottura con il passato recente. Dopo settimane di incertezze e forti tensioni, ora viene proposta una manovra sulla quale la discussione è accesa, ma che pare incontrare apprezzamento in Europa, nelle Borse e sui mercati. Le critiche, soprattutto dalle parti sociali, si concentrano sulla scarsa equità della manovra stessa, che tocca pesantemente, tra le altre cose, le pensioni, quindi il sistema del welfare. Lei cosa ne pensa?
«Premettiamo una cosa: stiamo parlando di una manovra che pesa per meno di due punti sul Pil. Certo, è notevole, ma ne abbiamo viste di peggio, anche recentemente. Il problema di questa manovra è, appunto, che va ad aggiungersi alle altre due ancora più restrittive, che si sono susseguite quest’anno. L’equità è un concetto fondamentale: una manovra per quanto restrittiva non deve essere troppo pesante, e i sacrifici devono essere distribuiti in modo equo, e questo aspetto mi sembra rispettato, in particolar modo per quanto riguarda la tassa sui capitali che hanno usufruito dello scudo fiscale, da un lato, e la rinuncia all’aumento dell’addizionale Irpef, dall’altra. Scelte che dimostrano che non si può penalizzare solo chi paga le tasse. Naturalmente, è ovvio che per recuperare 21 miliardi aggiuntivi la manovra deve colpire un po’ tutta la società. Nel complesso, sono convinto che questa squadra di governo sia attenta e tempestiva, e abbia i numeri per lavorare bene.»
Veniamo al tema dell’imposta patrimoniale, che lei ha lanciato. Come mai, pur in presenza di molte voci a favore, lo stesso Monti non ha voluto o potuto inserire una patrimoniale come quella da lei delineata? Parafrasando il titolo di un film, chi ha paura della patrimoniale?
«In realtà le voci a favore sono state poche, molte più quelle contrarie. Sulla base di motivazioni anche serie, devo dire, come ad esempio il fatto che una patrimoniale una tantum avrebbe potuto creare un effetto recessivo. A questo proposito avevamo provveduto a conteggiare i possibili effetti, e la recessione sui consumi sarebbe comunque stata limitata. Capisco comunque la prudenza di chi governa. Ricordiamo anche che una misura simile sarebbe stata tanto più efficace quanto preventiva. Infatti ne avevo parlato a luglio, quando lo spread era a 200 punti: in quella situazione sì che sarebbe stata una misura efficace, per togliere benzina dalla speculazione e permettere di fare le riforme con un po’ di tranquillità. Fatto invece nel fuoco della speculazione, un provvedimento del genere sarebbe stato più rischioso che efficace, tanto più che il problema da un livello puramente italiano si è nel frattempo spostato su un piano europeo. Aggiungo infine che un’imposta patrimoniale fortemente progressiva richiederebbe una disponibilità di dati non facile da costruire».
Lei ha recentemente dichiarato che il Paese ha bisogno di luoghi in cui le competenze si uniscano, si aprano alle novità e che ciò si traduca in azioni per le imprese, per le comunità locali e per la politica nazionale. Le misure previste dalla manovra vanno in questa direzione?
«In realtà questo non sarebbe compito della politica, ma delle classi dirigenti, che dovrebbero prendersi questa responsabilità. In questi anni ci sono mancati i luoghi di decisioni asettici e non partigiani sul futuro del Paese. Questo ha contribuito a creare leggende metropolitane come il fatto che la manifattura italiana fosse destinata a scomparire. O l’assenza di previsioni di lungo periodo sulla finanza pubblica. Temi su cui la mancanza di una riflessione scientifica e condivisa ha creato solo problemi. La speranza, ora, è che sia finita quest’epoca di contrapposizione frontale, che non serve a niente. Ora quello che occorre al Paese sono reazioni condivise. Un passaggio che l’Italia ancora non ha fatto, e fatica a portare avanti, come invece è accaduto in molti altri paesi che, usciti da un periodo traumatico, hanno saputo creare una politica condivisa. L’Italia è ancora sprovvista di istituzioni gerarchiche e grandi poli in cui la società civile possa riconoscersi».
I talenti compressi e ignorati dei giovani sono uno dei problemi più gravi del nostro Paese. Che ne pensa?
«La situazione è grave. Il rischio è che almeno un paio di generazioni potrebbero non avere voce in capitolo sul futuro del Paese. L’allungamento dell’età pensionabile, del resto, non favorisce certo l’ingresso delle giovani generazioni nel mondo del lavoro. Anche la graduale scomparsa delle grandi imprese pubbliche e private riduce le possibilità di un giovane di fare carriera, in quanto nelle aziende piccole la carriera è qualcosa di molto ridotto».
Vi sono soluzioni a questa situazione?
«Purtroppo è una malattia complessa, e come sempre in questi casi non vi sono ricette semplici. Servirebbe una classe dirigente più aperta ai giovani, e un paese che ricominci a crescere, creando istituzioni riconosciute a livello internazionale. Bisogna motivare queste generazioni a restare nel nostro Paese. La frammentazione di tutto in piccole cose, come accade in Italia, è nemica della meritocrazia e riduce la capacità di ripresa sociale e il dinamismo».
Dottor Modiano, le faccio la stessa difficile domanda che ho rivolto a tutti gli intervistati: il nostro Paese ce la farà?
«Il Paese ce la sta già facendo. Siamo usciti ancora una volta da una situazione che sembrava senza sbocchi, e abbiamo trovato la strada della coesione nazionale e della consapevolezza complessiva. Naturalmente siamo solo all’inizio, ma ora un po’ di ottimismo mi sento di esprimerlo, cosa che invece qualche mese fa avrei detto impossibile. Il passo successivo sarà tradurre questa coesione nazionale in energia per lo sviluppo collettivo. E non sarà facile».

sabato, dicembre 03, 2011

LA CRISI COME POSSIBILE VOLANO DI CAMBIAMENTO? Intervista a David Benassi, docente di sociologia dell’Università Bicocca

di Daniele Tamburini
C'è crisi e crisi. Ci sono le cosiddette crisi di crescita, quelle che fanno da possibile volano ad una ristrutturazione, ad una revisione, ad un nuovo percorso. D’altronde, il senso originario di “crisi” lo si riscontra proprio nelle azioni del giudicare, del discernere, del valutare e, quindi, del separare. In una crisi è importante separare il grano dal loglio, cogliere ciò che è essenziale e ciò che è superfluo, datato, quando non dannoso. Ma la crisi può innestare, viceversa, un meccanismo depressivo, di blocco e desolazione. È a questo che dobbiamo reagire, cogliendone le potenzialità positive. Ma in quale modo? Lo abbiamo chiesto a David Benassi, docente presso la facoltà di sociologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Professor Benassi, la crisi ha aperto scenari per alcuni versi inediti. Mesi fa non era raro ascoltare interventi che sostenevano una tesi: non tutto il male viene per nuocere, la crisi impone di ripensare i rapporti di produzione, le relazioni sociali, le abitudini familiari, rinunciando a sprechi e fasti, tornando alla sobrietà ed alla misura. Secondo lei, c’è del vero? E ci sono segni dell’inversione di tendenza?
In effetti in passato alcuni grandi mutamenti sono stati favoriti, se non causati, da momenti di profonda crisi:
in un certo senso è come se nelle fasi di crisi venisse "sterilizzato" il potere dei gruppi sociali interessati al mantenimento dello status quo. La costruzione del welfare state britannico dopo la seconda guerra mondiale fu ispirato dal famoso rapporto Beveridge, a sua volta chiara espressione del clima sociale creato dalla partecipazione della popolazione inglese alla seconda guerra mondiale. Per venire all'Italia, la riforma della sanità nel 1978 o le straordinarie manovre di risanamento fiscale dei primi anni '90 furono possibili grazie a situazioni di grave crisi sociale economica. La crisi attuale potrà essere un momento di rinnovamento della società italiana nel momento in cui verranno eliminate le numerose iniquità e asimmetrie sociali diffuse a tutti i livelli. In particolare, molti gruppi sociali godono di rendite di posizione ereditate decenni or sono che non hanno più alcuna ragion d'essere, e che anzi soffocano le capacità di rinnovamento sociale, economico e culturale. Eliminare queste rendite di posizione è il primo e più importante passo che è necessario fare, e
che la crisi in effetti può favorire. 
Altro tema da ripensare: il ruolo delle istituzioni e dei partiti. Partiamo dalle prime sembrano messe sotto scacco, in tutta Europa e non solo, dai movimenti dei mercati, del capitale finanziario, dalle agenzie di rating, che dettano l’agenda ai Governi..
Sicuramente la sovranità nazionale come era intesa nel '900 è sotto pressione da parte di spinte sovranazionali molto forti: lo stesso tentativo di costruire un'entità politica europea alla quale io singoli Stati hanno delegato alcune delle proprie prerogative può essere visto come un tentativo di costruire un soggetto politico più forte per resistere a queste pressioni. Anche in questo caso, personalmente non penso che sia necessariamente negativo: si indebolisce la capacità delle strutture statali di controllare i propri cittadini, i quali possono aprirsi a influenze politiche e culturali più ampie. E' però anche vero che l'"anarchia" del sistema, cioè la difficoltà a regolare alcuni processi globali, tende a crescere, con possibili rischi di degenerazione di fenomeni destabilizzanti. Il contagio del collasso finanziario da un paese all'altro, in assenza di istituzioni sovranazionali sufficientemente forti in grado di intervenire, è un esempio evidente di questi rischi.
Invece, cosa sono i partiti, oggi?  Una cosa pare emergere: i partiti non sembrano più in grado di esprimere, o di mediare, ciò che si muove a livello profondo nella società. Non a caso, gli “indignados” cercano altri veicoli di espressione. Lei cosa ne pensa?
Il partito è una forma di organizzazione e rappresentanza degli interessi che ha svolto una funzione determinante, in Italia come negli altri paesi democratici, fondamentale soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Mi sembra altrettanto chiaro che è oggi del tutto inadeguato ad aggregare una domanda di rappresentanza sempre più frammentata e mutevole. Almeno nella loro forma classica, credo non abbiano un grande futuro. Vedo però anche il rischio della deriva demagogica di movimenti puramente di protesta, che non hanno quindi una capacità di elaborazione di una proposta politica profonda e operativa. Non sono molto ottimista sulla capacità delle strutture democratiche di rinnovarsi profondamente, ma mi auguro che in qualche modo ci si riesca.
Le rivolgo una domanda difficile: ne usciremo?
Ne usciremo sicuramente, ciò che è importante è vedere come ne usciremo. Il rischio è quello di un declino più o meno lento (che per altro a mio parere è iniziato da tempo) che metta ai margini del mondo dinamico e ricco. Spero che si riesca a innescare un rinnovamento che apra spazi di azione a favore delle generazioni più giovani. Mi sembra infatti evidente che le spinte al rinnovamento possano arrivare solo da coloro che non hanno interesse al mantenimento dello status quo. I giovani fino ad oggi hanno sopportato tutti i costi di questa situazione, non c’è che da augurarsi che riescano ad occupare posizioni chiave nella politica, nell’economia e nella società in generale. Solo così, a mio parere, sarà possibile immaginare un’Italia nuovamente in crescita.

venerdì, dicembre 02, 2011

2012, avevano ragione i Maya?

L’altro giorno ho fatto mente locale: siamo quasi nel 2012. Già 15 anni fa avevo letto un libro sull’ipotetica fine del mondo legata al compimento del calendario Maya. Mi viene da sorridere. Vi ricordate? Pagine di giornale dedicate a questa annunciata Apocalisse, serie opinioni di sociologi, massmediologi, religiosi, e fantasie varie di maghi e studiosi dell’occulto. Chi avrebbe potuto pensare che saremmo arrivati non dico alla fine del mondo, ma insomma, ad una modificazione talmente profonda della realtà a noi consueta, tale da poter sembrare davvero una piccola fine del mondo? Ma davvero, citando una canzone ripresa dal Liga, è la fine del mondo per come lo conosciamo? Siamo a rischio recessione ammonisce, oggi, il neo ministro Corrado Passera. E noi cosa percepiamo, quotidianamente? Una forte contrazione dei consumi, stili di vita obbligatamente diversi, derivanti dalla notevole diminuzione di denaro in circolazione. E, a livelli più alti? La finanza, le banche, le agenzie di rating che sembrano dominare anche sull’azione stessa dei governi. Ci si pongono ormai domande sul senso stesso delle parole democrazia e rappresentatività. L’Europa che non dà una grande prova di sé, e giungono al pettine molti nodi strutturali: avere un Parlamento europeo non è sufficiente, se questo non riesce ad esprimere un vero livello di governo. Allora, che cosa ci aspetta: esplosione o implosione? Una saturazione tale di rabbia e difficoltà che porterà a piazze in rivolta, o un lento affievolirsi, un declino triste, come quello di una stella supernova che si spegne? Ben poco di stellare si vede invece, in questi giorni, nella vita politica di Cremona: anche qui, esplosione o implosione? Crisi in Comune, uscita della Lega dalla maggioranza, il gran finale col botto, cioè le elezioni anticipate, o un lento continuo affievolirsi delle funzioni di governo locale, sempre sul filo del rasoio, il trascinarsi fino alle prossime amministrative? Si sta come d’autunno, sugli alberi le foglie.